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SUPERPREDATORI - parte 14

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1SUPERPREDATORI - parte 14 Empty SUPERPREDATORI - parte 14 Sab Giu 12, 2021 4:02 pm

Fante Scelto

Fante Scelto
Cavaliere Jedi
Cavaliere Jedi

***


Obiettivo numero uno: proteggere il rifugio.
Abbiamo raccolto da sotto la rupe decine di foglie secche di palma, o comunque si chiamino queste piante che sembrano palme. Le abbiamo stese a terra a una ventina di metri dalla torre, sul passaggio in salita, nel senso della larghezza.
“Che dovrebbero fermare queste dannate foglie, esattamente?” Sigrid ravvia i capelli dorati con una smorfia di fastidio.
“Fermare niente.” Non so quanto reggerò la sua spocchia. “Ma mettici sopra il piede?”
Esita, poi ubbidisce. Sotto lo stivale uno scrocchiare di vegetali secchi.
“Almeno sappiamo che qualcosa sta arrivando,” chiudo la questione.
Lei mi guarda con due occhi da gatta, non replica; Radiosa sorride meravigliata. Si stupisce per tutto. È uno spettacolo edificante e patetico assieme.
Torniamo verso la torre con il sole che ormai volge al tramonto. Ridendo e scherzando questa è la terza volta che assisto al tramonto in Illumina, la terza volta, tre giorni interi, e sono ancora viva. Nonostante tutto.
“Dobbiamo rendere più sicuro questo posto, nei prossimi giorni. Ma al tempo stesso non dobbiamo dare nell’occhio: se le Erinni lo conoscono, prima o poi verranno a cercarci qui. Se non lo conoscono dobbiamo evitare che lo notino.”
“Abbiamo solo un fucile. Nient’altro. Se ci trovano non abbiamo speranze.”
“Non abbiamo solo un fucile,” Radiosa accenna alla spada che porta a tracolla.
Sigrid guarda con la consueta flemma scettica.
“In fondo ha ragione,” rincaro, “Se ci trovano dobbiamo portarle allo scontro fisico. Sperando che non siano troppe. E pregare molto intensamente.”
Ci addentriamo nel cuore della torre in rovina, col mare che occhieggia tra gli archi e va colorandosi dell’arancio di fine giornata.
“Dal balconcino si vede tutto intorno: visto che sei l’unica che ha un fucile, quello è il tuo posto. Al resto pensiamo noi.”
Dispenso sicurezza pur non avendone. Di solito funziona.
“E se vengono di notte? Non conviene fare dei turni di guardia?”
“Non lo so. Per fare una guardia decente serve un fuoco, ma il fuoco è visibile. Meglio chiuderci nella camera interrata. E nascondere il più possibile la porta.”
“Come?”
“Ci mettiamo davanti un cespuglio, delle frasche. Non la vedrà nessuno. E poi,” ripenso ai sauri parlanti, “Visto quel che gira qui la notte, dubito che le Erinni si spostino senza luce del sole. Troppo pericoloso.”
Forse le ho convinte.
“Allora ci chiudiamo dentro, sicura?”
“E lasciamo Illumina fuori.”
L’idea dei turni di guardia deve averle preoccupate per bene. Possiamo evitarceli.
Ne sono sollevata.
Sorrido.
 
***
 
Chiudersi la porta, quella porta di legno massiccio, alle spalle, tagliare fuori il mondo ferale di Illumina, è una sensazione magnifica. Chiudere il chiavistello ancora di più.
La stanza sotterranea non è grande, la forma vagamente circolare, il soffitto è basso ma non al punto da dover stare chinate. Ci sono persino delle prese d’aria verso l’esterno.
La luce dei faretti da campo illumina quanto basta lo spazio e non si vede da fuori, abbiamo verificato. Chiunque li abbia messi merita un bacio in fronte.
Poi ci sono i divani. Divani di pietra, nel senso: hanno scavato una sorta di gradone tutt’intorno alla stanza che sembra fatto apposta per sedersi o dormire. Può darsi che questo fosse il dormitorio dei guardiani della torre. Che resta il set di un film.
Siedo sul lato sinistro della stanza, poggiando finalmente il culo su qualcosa e riposando le gambe: è tutto il giorno che camminiamo. Lucilla si sistema sul mio stesso lato, poco più avanti. Sigrid, la bastarda, ha il suo bel sacco a pelo leggero, steso sul lato opposto, nel quale farà un gran bel sonno a differenza nostra che stiamo sulla pietra grezza. I nostri, di sacchi a pelo, sono andati persi nella cattura.
Nota mentale: occorre discussione sull’equa distribuzione dei comfort.
Guardo Lucilla togliersi le Nike Silver, poggiare i piedini sulla pietra; sto per fare lo stesso, mi sale il dubbio.
“Ma qui dentro ci vedranno? Cioè, ci saranno le telecamere?”
Se ci sono devono essere nascoste tipo nella pietra, negli anfratti, cose da servizi segreti.
Non possono esserci, non possono averle messe proprio dappertutto. A meno che l’isola stessa non sia un grande set, magari non è neanche un’isola, e allora tutto può essere.
“Non ne ho idea.” Artemis si stringe nelle spalle. “Ho visto riprese fatte nei posti più assurdi, nel periodo che ho seguito lo show. Può essere benissimo che ci stiano filmando anche qui.”
Brivido.
Sfilo le scarpe ma facciamo che i calzini li tengo. Tolgo il cinturone lasciandolo lì accanto, vicino allo zaino, le mie poche cose. L’asciugamano sarà un cuscino per la notte.
La bastarda invece ha il sacco a pelo. Il resto delle sue cose, zaino, fucile, qualche scatola di cartucce e di cibo, giace ordinatamente lì accanto. Dev’essere una molto attenta, molto metodica, inquadrata secondo gli schemi pratici di un’educazione rigida ma assieme permissiva, se a vent’anni hai già voglia di cacciare esseri umani.
“Come stai a cartucce?” Chiedo senza staccarle gli occhi di dosso.
“Non ne ho usate. Ho ancora tutto il set.”
La osservo svestire la giacca camouflage e piegarla con cura maniacale. Poi sfila gli stivaletti.
Glieli ho adocchiati da un po’, quegli stivali. Roba di marca, costosa, da professionisti. A guardarle i piedi così, a occhio, non deve essere una taglia troppo diversa dalla mia. Se mai dovesse restarci, non che glielo auguri, potrei quasi prendermeli. Hai visto mai.
Mi starebbero anche bene.
“Non sono molte, comunque,” aggiunge con un’occhiata infastidita.
“Le useremo solo quando strettamente necessario.”
Abbassa i calzoni, li sfila, li piega con eguale attenzione. Ha delle gambe esili, più da indossatrice che da atleta; la pelle, di un colore dorato che assomiglia parecchio ai capelli, è quella di chi è abituata a curarsi nei minimi dettagli.
“Non te ne frega delle telecamere, no?”
Sigrid alza di spalle, sistema la maglietta, lunga abbastanza da coprirle le mutandine. “Sai quante foto in costume ho su Instagram? Fanno prima a fare un giro lì.”
Siede con gesto elegante sul sacco a pelo, raccoglie le gambe, toglie il berretto, sistema i capelli lunghi con un paio di gesti artistici. A vent’anni ha già il portamento e i movimenti di una modella.
L’hanno detto anche a me, un sacco di volte: ma perché non fai la modella? Chi non ti dà un contratto con quella faccia lì, quel corpo lì, quelle gambe lì?
Il punto è quello.
Mi ripugna l’idea che il mondo mi guardi. Che qualcuno si seghi su una mia foto. Mi disturba, mi fa incazzare. E poi star lì, mettersi in posa, le mani così, le gambe così, sorridi, non sorridere. No, ma per favore, no. Anche mi coprissero di soldi non ce la potrei fare. Cinque minuti e darei fuoco a tutto.
Non ce la potrei fare.
È una questione di predisposizione: c’è chi nasce capace di fare la modella, chi la manager, chi la bambinaia e poi ci sono io.
Roba innata.
DNA.
“Ma qual è esattamente il piano?” Sigrid scruta con algida attenzione da dietro le proprie ginocchia. “Rinforziamo questo posto, e poi?”
“E poi aspettiamo.”
Osserva dubbiosa. Anche Lucilla guarda in attesa di sviluppi.
“Aspettiamo cosa?”
“Gli eventi. Succederà qualcosa, prima o poi. Loro ci cercheranno, noi non ci faremo trovare. E se ci troveranno cercheremo di ucciderle prima che avvisino le altre.”
“E se non ce la facciamo?”
“Cambieremo nascondiglio. Nell’attesa degli eventi esploriamo la zona. La prima cosa che dovete imparare è che ci serve un territorio di riferimento, una zona che sia nostra, ma nostra davvero, che conosciamo e nella quale sappiamo come muoverci. Non so se loro conoscano tutta l’isola così bene o solo alcune zone, ma noi dobbiamo fare la nostra parte: stabilire un territorio nostro, esplorarlo, conoscerlo. Sapere che bestie ci vivono, se ci sono altri nascondigli, magari mettere dei punti di riferimento, cose che ci aiutino in caso di necessità.” Prendo il telefono, la mappatura, ingrandisco sul punto nel quale il cursore ci colloca. Lo esibisco. “Tracceremo un’area qui intorno, un perimetro di sicurezza che dovremo esplorare con cura; poi pian piano lo allargheremo.”
“Ma come ci difendiamo con un fucile in tre?”
“Esatto. Dobbiamo procurarci delle armi in tutto questo; magari ce le mandano, magari troviamo qualcosa. Non dicevano che ci sono rifornimenti nascosti sull’isola? O roba che altre hanno lasciato,” accenno ai faretti, “Tutto può essere. Se e quando avremo delle armi penseremo a come contrattaccare.”
“E i sauri?”
“Ci stavo pensando da un po’. Che siano finti o veri, io stavo pensando a una cosa importante.” Sbatto l’indice sulla fronte con veemenza. “Se una cosa come Panzer-2 ti sorprende nella boscaglia, o all’aperto, che speranze hai di sfuggirgli?”
Occhi stralunati. “Chi è Panzer-2?”
“Quello grosso, faccia-di-coccodrillo.”
“Il Baryonyx? Perché Panzer-2?”
“Lascia stare. Se una cosa del genere ti prende nel bosco, come gli sfuggi?”
“Con molta fortuna. Buttarsi in acqua non serve perché sa nuotare. Fortuna e basta.”
“Esatto. Ma io mi chiedo: come hanno fatto loro a restare in vita per questi mesi? Come possono spostarsi in sicurezza? Ricordate quando ci hanno portate al bunker e poi alle rupi? Seguivamo dei sentieri, delle strade prefissate, senza cautele particolari; era come se sapessero già dove andare, come evitare gli incontri.”
Sigrid occhieggia intorno. “Che vuoi dire?”
“Se esistessero dei modi? Intendo: le bestie girano sempre negli stessi posti; conosci i posti eviti gli incontri. No?”
“Sono animali, per di più sconosciuti. Non si può prevedere il loro comportamento con sufficiente sicurezza.”
“E se non fossero animali?”
“Non sono dei robot. Non è possibile.”
“Invece ha un senso. Pensaci: se capisci il pattern delle loro azioni li eviti. Abbiamo visto alcuni di quelli piccoli, stanotte: erano scuri, brutti, con gli occhi a palla bianchi. Uno di loro parlava. Parlava, capisci? Ripeteva due-tre parole, come un pappagallo. S’è mai sentita una cosa del genere? Ma sticazzi, era finto, ne sono sicura.”
“I Troodon hanno corde vocali simili a quelle di certi uccelli. Sul manuale era scritto che imitano i versi di altre creature.”
“Sul manuale possono scrivere quello che vogliono, questo è il loro show. Sta a noi dividere le cose utili da quelle folkloristiche, e io ti dico che quest’isola sa di finto da chilometri di distanza. Pericolosa sì, senza dubbio, ma c’è una logica dietro. E sono sicura che Atreja l’ha capita, per questo vince facile. Per combatterla,” sorrido ispirata, “Dobbiamo giocare alle sue stesse regole.”
Cala un silenzio gravido.
Forse le sto motivando, forse tutto il contrario, impossibile dirlo dietro le loro espressioni caute.
“Avete incontrato un Baryonyx?”
Sorrido incrudelita. “Ci hanno buttato di sotto per fargli da merenda, rende meglio l’idea.”
Artemis ci scruta attonita. “E… come…?”
Fortuna, l’hai detto tu.”
“E Rita?”
Scambio un’occhiata con Lucilla; lei raccoglie le gambe al petto in un moto di sconforto, abbassa lo sguardo, rivive per un attimo quelle immagini, come fossimo lì.
Il corpo di lei alzato in aria, lasciato ricadere.
Il morso.
Le urla.
Mando giù la saliva che si è fatta di colpo pesante.
“L’ha presa.”
Sigrid abbassa lo sguardo a sua volta.
La stanza sembra un po’ meno illuminata.
La pietra sotto il culo un po’ più fredda.
La porta chiusa una barriera un po’ meno efficace.
Il mondo di fuori, quello rimane così: l’orrore.
L’orrore.
“Dobbiamo sopravvivere,” scandisco per rompere l’impasse, “Per non sprecare questa opportunità che ci è stata data. E serve l’aiuto di tutte: niente litigi, niente esitazioni. Facciamo la nostra parte e magari, non lo so, magari a un certo punto ci permetteranno di andare via. Di tornare a casa, anche da perdenti, non importa.”
“Io a casa ci tornerei, sì.”
“Allora impegniamoci. L’Ondata 9 siamo solo noi: tre stronze, una traditrice e sei cadaveri. Impegniamoci.”
Lo sguardo di Sigrid Montego s’increspa, mi guarda perplessa. “Le altre non sono morte.”
Silenzio.
Vuoto improvviso.
Sbatto le palpebre più volte. “Come sarebbe?”
“Non sono morte. Le hanno portate in un posto, ma non… almeno, io non ho visto che…”
Mi rianimo, una specie di scarica elettrica lungo i nervi. “Ma che cazzo aspettavi a dirlo?!”
“Che differenza fa?”
“Dov’è questo posto?” Alzo il telefono, recupero la mappa, “Fammi vedere!”
Sigrid si alza controvoglia, ravvia i capelli, s’avvicina con una certa soggezione addosso. Si china, sposta con due dita il cursore, più a nord della nostra posizione. “Qui, grossomodo. In una conca naturale.”
“Cosa c’è qui?! Parla, cazzo, non farti tirar fuori le parole, Dio, ma che hai nella testa?!”
Lei deglutisce, si morde il labbro, vorrebbe replicare, non ha il fegato, sopprime tutto. “È tipo… tipo un accampamento fortificato, recintato, non so come dirti.”
“Le Erinni hanno un altro covo?”
“Mercury,” apre le mani, il viso le muta in una smorfia attonita, quasi impaurita, “Anche io avevo capito che le isole sono vergini, deserte, ce lo hanno detto decine di volte all’addestramento. Ma… Ma ci hanno mentito, okay? O non ci hanno detto tutto. Guarda questa torre: chi l’ha costruita, e quando?”
“È finta.”
“Sì, forse. Ma quel campo, quel… Non possono averlo costruito le Erinni, capisci? E il bunker? L’hanno costruito i giapponesi durante la guerra, avevo letto, ma avete visto dentro delle scritte, qualsiasi cosa che fosse riconducibile ai giapponesi?”
Esito. Rivango i momenti bui di due giorni fa. Non che avessi la concentrazione per notare le scritte sui muri. “Non lo so, non ricordo.”
“Secondo me questo posto, questo arcipelago, è… Insomma, non ci hanno detto un sacco di cose.”
“Si può sapere cosa hai visto?”
China il capo, ravvia i capelli, nervosa. “Solo che quel posto non è alla nostra portata. Non possiamo pensare di liberare le altre.”
“Ridurre la differenza numerica sarebbe un fottuto aiuto non da poco, cara. Quindi tu mi accompagnerai lì.”
“Quando?”
“Alla prima occasione utile. E giudicherò IO cosa si può fare e cosa no.”
Sigrid annuisce appena. Torna al suo posto senza aggiungere altro.
“Se ne salviamo almeno qualcuna…” Radiosa mi guarda con l’enfasi dei momenti di gloria.
Annuisco carica, concentrata.
Forse è una follia, ma è un dato che avrei voluto avere prima.
“Magari sono già morte,” mormora Artemis.
“Magari no.”
La domanda cui non avevo dato abbastanza valore, che ho scordato troppo in fretta.
Perché dividerci?
Perché quattro sulle rupi e le altre altrove?
Noi quattro condannate a morte. Umiliate. Date alla bestia.
Le altre?
Un rapido calcolo: io, Rita, la suora, Candy. Forse il meglio dell’Ondata. Non conosco bene le altre, non ho imparato i nomi, le ricordo appena, ma noi eravamo le più appariscenti, le più seguite.
Quelle con più followers.
Un messaggio alla rete, al pubblico. Umiliare e trucidare le migliori.
Le altre?
Quasi sicuramente servono a qualcosa. Un progetto, Atreja lo ha menzionato.
Ha tutto un senso.
“Non hai visto cosa fanno le Erinni in quel dannato posto?”
“No. Ho solo visto che occupano il campo. Me ne sono andata quando ho capito che da sola non potevo far niente per aiutare le altre.”
La mente lavora febbrile. C’è davvero qualcosa che non ci hanno detto sull’isola.
Non ho mai seguito lo show prima di iscrivermi, non me ne fregava nulla di pagare soldi per uno spettacolo del genere. Non lo so cosa la gente sappia su questo posto, ma io scopro di non saperne quasi nulla, e neanche le mie due compagne di stanza.
Dettagli incompatibili.
Nessi logici.
Ho paura, ma assieme una voglia sconfinata di sapere.
Il Master, quell’uomo con cui ho parlato solo brevemente per telefono, aveva ragione: che siano vere o finte, queste isole sono un luogo che nasconde dei segreti. Se vogliono che li scopriamo, deve valerne la pena.
Valerne davvero.
 
***
 
Frammento 6 – Intercettazione telefonica (Gioele Palazzese – I)
 
“Marina, ciao.”
“Ah, sei tu.”
“Chi doveva essere col mio numero privato?”
“Non lo so… Non lo so, scusa, sono giorni che…”
“Ti ho cercata più volte. Io ho bisogno di parlarti.”
*respiro profondo*
“Non credo sia un buon momento, ho un po’ di pensieri e…”
“Ma dove sei?”
“Alle Cinque Terre. Volevo staccare da tutto.”
“Tu hai visto quello che è successo, sì?”
“No. Non guardo più, te l’ho detto, non riesco più.”
“Ma lo sai, lo sai per forza, non smetti mai di seguire del tutto: è la nostra creatura, è come un figlio, anzi una figlia, non lo hai abbandonato.”
*silenzio prolungato*
“Parli della croce?”
“Parlo della croce.”
“Io non so che dirti.”
“No, no, non è la risposta che volevo, no. Quelle bestie, quei dinosauri o come li vuoi chiamare, noi li abbiamo studiati assieme. Li abbiamo osservati, analizzati, schematizzati, abbiamo persino dato loro dei nomi, sì? Come quelli veri, intendo quelli estinti, perché ci sembrava più bello, più realistico. Ma non è pensabile, non è immaginabile, che un Baryonyx si fermi davanti a una croce, corretto? Una piccola croce di metallo.”
“Ma cosa dicono i tuoi lì, in studio?”
“Niente, cosa dicono? Nulla, non mi sanno dire niente. Parlano di riflessi, di comportamenti istintivi, di cose normali, ma non è normale, non lo è affatto. Mettiti nei miei panni: come si può accettare un evento del genere? Illumina ha le sue regole, il suo sistema, ed è un sistema perfetto, noi lo abbiamo messo alla prova! Non può, non è pensabile, che un piccolo oggetto possa cambiare qualcosa in questi meccanismi.”
“Tu ti fissi troppo, Giò, forse davvero è solo una casualità che stai ingigantendo oltre la misura.”
“No, Marina. Io so quello che ho visto, e se tu l’avessi visto concorderesti con me: quello che è successo non è possibile. Non è concepibile. Un carnosauro che arretra di fronte alla croce, come fosse Satana? No, no, non è possibile.”
“E allora Dio esiste. No? Se non puoi spiegarlo, se non credi che ci sia dietro una ragione solida, allora è Dio. Dio ha salvato quella concorrente, e basta.”
“Dio? Illumina è la prova che Dio non esiste! Quelle ragazze che si uccidono nei modi più assurdi sono la prova che Dio non esiste. Ho creato Superpredatori per dimostrare a tutti quanti che gli unici responsabili delle azioni che compiamo siamo noi stessi, a prescindere dal sesso, la razza, la cultura; che la cattiveria, la violenza, la rabbia, l’odio, sono cose connaturate al nostro essere, impossibili da sconfiggere. Ma anche che è solo vivendoli, l’odio e la violenza, che si può trovare infine i loro opposti. Io non posso accettare che Dio entri nel mio show.”
*risata abbozzata, amara*
“Allora non avresti dovuto ammettere la suora.”
“Non è certo la prima credente che è andata in Illumina. Guarda le altre, come sono finite? Cosa resta di loro?”
“Ma è la prima che ha usato la croce contro un Baryonyx, e lo ha fatto senza paura.”
“No. No, no, no, c’è qualcosa che mi sfugge, che sfugge a tutti, e tu devi aiutarmi a comprenderlo.”
“Se la suora morirà, ed è probabile, nessuno penserà più a questa storia. Dai tempo al tempo, tutto finirà in una bolla di sapone.”
“E se non succede? Se quella ragazza userà ancora la croce e si salverà di nuovo?”
“Non hai parlato con lei?”
“Sì che ho parlato! Cosa vuoi che abbia detto! Le cose che dicono gli esagitati, i folli, i credenti, gli ignoranti! Mi serve il tuo aiuto.”
“Non posso aiutarti. Io non c’entro più nulla con Superpredatori. Ti ho aiutato a creare questa cosa, ma tu sai, sai che… Non voglio più rientrarci.”
“Non ti chiedo di rientrarci. Solo di aiutarmi a capire. Riprendi in mano gli studi comportamentali del Baryonyx, trovami un motivo, uno solo, per il quale possa essere capitato questo errore di concetto.”
*respiro denso*
“Io… io non posso. Non li ho con me quegli studi, non mi fido, non li porto più appresso. Stanno succedendo cose strane, Giò, io non sono tranquilla.”
“Quali cose strane?”
“Mi sento osservata. Da qualche tempo, mi sento osservata; come quando cammini per strada e ti sembra che qualcuno ti stia guardando. Anche adesso, anche adesso che sto sulla passeggiata, vicino al mare, io…”
*esita*
“…io non sono tranquilla. È come se mi guardassero, di continuo.”
“Torna ad Altaria. Ti faccio aiutare, faccio mettere una vigilanza privata a casa tua, vuoi? Chi ti cerca, chi deve cercarti? Ti sei suggestionata, e lo sai, ma se le guardie ti fanno sentire sicura io te le pago, pago io la vigilanza, ti faccio proteggere.”
“Ci siamo stati, Giò. Io e te, in Illumina. Ci siamo stati assieme, prima di chiunque altro, abbiamo esplorato le isole e gli orrori che le abitano. Ma io ho visto, io ho percepito che… che laggiù c’è qualcos’altro, Giò, non è solo per i carnosauri, per le Masche, per ogni cosa che abbiamo studiato a analizzato assieme. C’è qualcos’altro, nascosto nel cuore delle isole, e io credo che… credo che quella cosa sia del tutto fuori dalla nostra comprensione.”
“Non c’è nulla. Nulla che vada oltre le creature e le meraviglie pur assurde che abbiamo studiato assieme. Illumina è il nostro paradiso, ricordi? Il nostro paradiso. Esattamente come lo volevamo.”
“Tutto quel sangue, Giò… quel sangue…”
“Non è nostra responsabilità. Ognuno risponde delle sue azioni, delle sue scelte. Quelle donne stanno facendo solo ciò che viene loro più naturale fare.”
“Io ho paura.”
“Non c’è niente, in Illumina, niente. È tutta una tua grande, enorme suggestione.”
“Non dormo quasi più…”
“Torna ad Altaria. Ti pago una visita specialistica, la sorveglianza, penso a tutto io. Tu riprendi gli studi sul Baryonyx. Dimostrami che Dio non esiste.”
 
***
 
Il sonno non arriva, non ancora.
Sarà la pietra dura, sarà che una più è stanca e meno riesce a dormire. Sarà questo posto, Illumina.
Sarà la voglia di casa.
Le altre dormono da un po’. Nel buio si sentono i loro respiri, l’una avvolta nel sacco a pelo l’altra abbandonata come me sulla roccia sagomata a gradone. Si dice che guardare una persona mentre dorme riveli molto del suo carattere: i chiaroscuri lasciano vedere diverse cose, dettagli, nella tenebra avvolgente della camera sotterranea.
L’una è principessa, sicura di sé, senza paura come possono esserlo le figlie di papà piene di soldi, che nulla hanno da temere, nella vita, eccetto la noia. Lo vedi dal modo in cui riposa, composta. Dal braccio tenuto fuori dal sacco a pelo.
L’altra è qualcuno che deve aver sofferto, ma saperlo nascondere bene. Chi dorme raccolto, rannicchiato su se stesso, di solito è in credito col mondo di un po’ di fortuna o affetto. Se ha perso i genitori, o l’hanno abbandonata, posso capirla. In parte, in altro modo, ma posso capirla.
Non ho mai voluto sapere come dormo, in che posizione.
Ho paura, a volte, di dormire raccolta nello stesso modo.
Paura.
Vergogna.
Sempre nascosto tutto dietro gli scoppi d’ira, l’arroganza, la sopraffazione.
Va bene così.
Sto bene così.
Il sonno non arriva: mi alzo a sedere, nel buio. Troppi pensieri che corrono selvaggi, si mordono tra loro; prima di partire era uguale, anzi peggio. Vedevo le cose nel buio, sussultavo. Tiravo le coperte sopra la testa. Mai fatto, neanche in Afghanistan.
Illumina era Illumina ancor prima di metterci piede.
Vado a tentoni verso lo zaino. Cerco il telefono.
Il bagliore dello schermo irradia il buio, poi affievolisce. È quello che ho trovato nell’albero cavo, tra gli abiti abbandonati nel vomito, in quell’orrore. La casa della Masca, qualunque cosa sia una Masca.
Come diceva Lucilla, c’è una cartella che contiene altre cartelle.
Sembrano contenuti grafici stipati. Un diario.
Apro l’ultima cartella ragionando che deve essere la prima in ordine cronologico, vado a cercare il primissimo file. Se apparteneva a una concorrente dev’essere il resoconto del suo percorso; forse accumulava materiale per i social, forse solo voleva tenere una traccia dell’assurda storia che può aver vissuto in questo ancor più assurdo posto.
Lucilla aveva parlato di una password ma niente blocca l’apertura della cartella.
Se apparteneva a una concorrente ho un certo timore di cosa ci sarà nell’ultimissima, quella più recente.
Scelgo il video numero 1.
Play.
 
Una mano di donna si allontana dall’obiettivo, apre la visuale come un sipario.
Salotto di casa imbandito a festa.
Un applauso corale e il vociare contento, allegro, di persone sedute sui divani.
Panoramica di parenti, sfocati, che salutano o fanno gli auguri. Paste e bicchieri sui tavolini.
Una donna sulla sessantina, ben portati, si alza, va incontro all’obiettivo. Abbraccia chi riprende.
Un abbraccio forte, intenso, che oscura la visuale, la fa oscillare.
“Trentadue, la mia bambina”
Un riso, un braccio color del sole che stringe a sua volta.
In quella stretta c’è molto più che un semplice augurio di buon compleanno.
Si separano: il viso della donna ha un brillio di lacrime, un gesto ad asciugarle fugaci. Lei sa. Sa cose che gli altri scambiano per commozione.
“Va tutto bene, mamma,” è un sussurro.
“Non devi farlo per forza.”
“Devo, invece.”
Sorride.
Si scosta.
Altri si alzano, abbracciano. Auguri, trentadue, stai invecchiando, nipotina, Dio, stai d’incanto.
Lo schermo oscilla e rabbuia più volte. I sorrisi sono lì, in sequenza, i bicchieri alzati.
Un’altra panoramica.
Il braccio dorato, liscio, abbellito da un bracciale in oro bianco, si alza come a chiedere l’attenzione di tutti.
La donna di prima, nell’angolo a destra dello schermo, si volta per non farsi notare, porta una mano al viso. Cerca di trattenersi.
Singhiozza senza un suono.
“So che siamo qui per festeggiare, anche se non sono… nel mio periodo più felice.” La voce di chi sta dietro l’obiettivo è sicura, quieta, nonostante una sottile nota alterata. “Con Saverio abbiamo deciso…”
Esita. Cerca le parole.
Un tremolio della mano che regge lo smartphone.
“…di non stare più insieme. Avevamo appena finito di arredare casa.”
Silenzio.
La madre, sulla destra, singhiozza sommessamente.
“So che può sembrare assurdo a molti di voi, ma… È successo molto in fretta, e in maniera troppo grande per entrambi. Sto bene, nonostante quello che è accaduto. Starò meglio quando tutto sarà finito.”
Sguardi vagano attoniti. I bicchieri, le paste, rimasti come nature morte nelle mani e nei piatti di plastica.
“Per questo oggi non c’è?”
“Per questo, sì. Ma anche per un’altra ragione.” Pausa grave, una scelta di parole drammatica. “Perché ho… Perché io ho commesso un errore imperdonabile, di cui non vado fiera. Non voglio parlarne ora, non ce la farei: sappiate solo che qualunque cosa sarà detta nei prossimi giorni, Saverio non ha fatto nulla.” Silenzio amaro. “Non ha fatto nulla.”
La mano alza un bicchiere di moscato di fronte alla platea incredula.
“Tanti auguri a me.”
Un singhiozzo.
Il video termina.
 
Inspiro.
Gusto d’amaro.
Questa tizia ha scelto di annunciare alla sua festa di compleanno la separazione dal compagno. Alla sua festa di compleanno.
Io certa gente non la capisco. Sembra che le cose vadano fatte sapere a tutti, messe in piazza, come se fossero dovute. Ma che ve ne frega? Ma perché tutto sto impegno?
Ma poi: devi anche filmarti? Sul serio?
Io certa gente non la capisco.
Video 2.
Play.
 
Porta che si apre.
Camera da letto, luci accese, movimenti dell’obiettivo.
Un uomo alto, ben piantato, svuota l’armadio con gesti bruschi, i vestiti gettati alla rinfusa sul letto. Rabbia latente.
Lei è ferma sulla porta, regge il telefono ma la mano trema e così l’inquadratura.
Vorrebbe parlare ma non lo fa, non trova il coraggio; aspetta che lui la noti e ci vogliono secondi interminabili; quando si volta lo fa con la lentezza dei morituri. Ha un bel viso, barbato, i capelli neri e arricciati. “Ancora qui sei?”
Lei respira a fondo, un braccio s’appoggia allo stipite della porta. “Son venuta solo per dirti una cosa.”
Lui scuote la testa, estrae un cassetto intero, lo butta sul letto senza cura. “Non ti voglio sentì.”
“Savé, io vado a ritrattare tutto. Ritiro la denuncia. La ritiro, te lo giuro. Andiamo subito se mi accompagni. La ritiro.”
Lui alza due occhi spiritati, tetri, poi li riabbassa. “Ancora non l’hai capito, no? Che non cambia niente, un cazzo, se la ritiri. Che per me è finita, lo sai, sì?”
“Dirò la verità, che ho inventato tutto.”
Lui rialza gli occhi su di lei: ha addosso la morte e un dolore che travalica quello fisico. “Sei mai stata in carcere, Maddy? Ci sei mai stata?”
“Mi dispiace,” singhiozzo, “Mi dispiace, Savé… Te lo giuro.”
“Io ci sono stato due settimane, per te. Mi è sembrato d’impazzire. Due settimane. Cosa Cristo succede ora che devo farci un anno? Cosa Cristo succede quando scoprono che sono, ERO un Carabiniere, Maddy?! Me lo sai dire tu?!”
“Mi dispiace…”
“Ti dispiace? A lei dispiace, capito? Le dispiace!” Gesto inconsulto: scaraventa i vestiti a terra. “E spegni quel cazzo di telefono! Spegnilo, ogni tanto nella tua vita, o spegni solo il cervello?!”
“No! Serve come prova, che tu non mi hai minacciata, che sono io ad aver sbagliato. Ho inventato tutto e ritiro la denuncia.”
“Non serve a niente che la ritiri! Mi congedano, Cristo, ho perso il lavoro, devo fare un anno dentro, che tu ritiri o no! Per quelle leggi di merda che gente di merda ha fatto, io devo andare dentro perché tu hai inventato tutto! A me mi ammazzano là dentro! MI AMMAZZANO, CRISTO, LO CAPISCI O NO?!”
Scaraventa a terra l’abat-jour dal comodino, fracasso, sobbalzo dell’obiettivo, vaga per un attimo con le mani nei capelli.
Lei s’appoggia allo stipite, respiro affannoso. “Io voglio rimediare, voglio rimediare, ci dev’essere un modo…” Panico. Nervi che non reggono la tensione emotiva.
Lui non guarda. Vaga avanti e indietro, lento, come in trance, uno zombie, reggendosi la testa. “Sei un’infame, Maddy. Sei un’infame.”
Lei si volta. S’appoggia alla parete, si trascina nel corridoio. Respiro sempre più affannoso, il telefono cambia inclinazione, riprende il pavimento, due Adidas bianche, ondeggia, poi di nuovo il corridoio, in obliquo.
Una porta si spalanca, il bagno. Luce smanacciata.
Trema tutto.
Finisce in ginocchio, arranca al gabinetto, il telefono cade e rimane a riprendere il soffitto.
Silenzio.
Il suono d’un conato. Tosse.
Singhiozzi. Singhiozzi che diventano un pianto sommesso.
C’è solo il soffitto nell’inquadratura.
Secondi interminabili di nulla, di vuoto. Di un silenzio rotto dai singulti. “Ho fatto una cazzata,” ripetuto come un mantra, una nenia, “Ho fatto una cazzata.”
Movimenti nel lato dello schermo, una figura raccolta; la mano prende il telefono, lo oscura per un attimo, lo tiene in grembo: pieghe di una maglietta.
“Vuoi aiutarmi, Maddy?!” Voce tuona furiosa, disperata, dalla camera da letto, “Vuoi aiutarmi?! Allora muori. Crepa, è l’unica cosa che mi farebbe stare meglio. Muori, Maddy, muori.”
Singhiozzi.
Muori, Maddy, muori.
Il cuore batte all’impazzata e risuona, leggero, nel microfono.
“Muori, Maddy, muori,” ripete lei con voce leggera, rotta, ipnotizzata.
 Si alza di scatto, il telefono ondeggia; si lancia sull’armadietto a destra del lavandino, apre l’anta, affonda una mano spargendo boccette e bottigline di vetro, blister, barattolini. Ne prende uno a caso, lo apre, trema come in febbre, cadono alcune pasticche, le altre le rovescia nella mano.
“Muori, Maddy, muori.”
Rigira tutto in bocca.
Il telefono cade di nuovo sul pavimento, stavolta di schermo.
Diventa buio.
Il respiro serrato di lei è l’unica cosa che cadenza il tempo; in sottofondo, dalla camera da letto, la voce di un condannato lamenta la fine della vita come l’ha conosciuta.
Poi è silenzio.
 
Deglutisco.
Porca miseria.
Non sono sicura di cosa ho appena visto né delle sue implicazioni.
Forse era meglio non guardare, non saperne niente di queste cose. Il video prosegue per almeno mezzora buona di solo nero e qualche sussulto, che controllo e ricontrollo balzando di punto in punto nella speranza o la paura che capiti qualcos’altro.
Espiro per soffocare una leggera nausea; c’è gente che sta messa peggio di me, forse.
Rigiro lo smartphone nella mano alla ricerca di un indizio, qualsiasi cosa che possa suggerire l’identità della proprietaria, ma è un anonimo modello senza marchio come tutti quelli dati in dotazione dal network.
Questa ha mandato in galera il suo compagno per qualcosa che non ha fatto e poi ha cercato di suicidarsi. C’è gente messa peggio di me davvero.
Davvero.
Non voglio andare avanti. Fa già schifo così.
Non guardo, non è affar mio.
C’è gente del cazzo in giro per il mondo, sempre detto.
Magari gliel’ha evitato il carcere?
Non guardo.
Guardo solo il prossimo.
Video 3.
Play.
 
“Maddy.”
L’immagine tarda a settarsi: la distesa bianca d’un lenzuolo e un paio di gambe custodite al di sotto. Una flebo. Luce filtra da una grande finestra.
“Maddy.”
Una donna, la stessa del primo video, sulla sessantina, capelli chiari, entra da una porta di reparto ospedaliero. Si avvicina, quieta, posa la borsa su una sedia, toglie il cappotto.
“Mamma.”
La donna si avvicina, la bacia sul viso. Sul suo, di volto, ci sono gli affanni e i patimenti di un paio di notti insonni e molto di più.
“Metti via il telefono, Maddy, basta riprendere, ti prego, non è il momento.”
“No, mi serve… mi serve per non dimenticare niente…”
Resiste a un delicato tentativo di sottrazione, lo schermo balla, si riassetta. La donna siede stancamente accanto al letto.
“Come ti senti?”
“Bene.”
Silenzio.
Entra un’infermiera a prelevare la cartella clinica, saluta, esce.
Il silenzio, pesante, orribile, dura per secondi interminabili. Poi la madre terge una lacrima, soffoca un singhiozzo. “Allora è così, non c’era nulla di vero?”
“No.”
La piccola televisione, appesa in alto a sinistra della stanza, trasmette senza volume il telegiornale: parlano del caso Varvato, omicidio plurimo.
“Perché l’hai fatto, Maddy? Saverio non si meritava una cosa del genere.”
“Non la meritava. Ero arrabbiata, delusa.” Un braccio si abbandona sulle lenzuola, una mano curata le cui dita tremano leggermente. “Credevo mi avesse tradita.”
“Ma non c’è verso di ritirare quella denuncia?”
“No.” Pausa. “Ho fatto una cazzata, mamma.”
“Troveremo un modo per rimediare, Maddy, insieme. Ho già sentito un’avvocatessa che…”
“No, no, niente avvocati. Ho trovato io la soluzione, quella più equa.”
“Di che stai parlando?”
La mano si sposta fuori dallo schermo, armeggia alla piccola cassettiera al lato del letto. Ritorna reggendo un opuscolo dai colori brillanti del verde e del rosso. La donna glielo prende di mano, osserva accigliata.
La copertina ha il disegno d’un occhio rosso che, a guardar bene, ha iride e pupilla formati da una figura di donna raccolta sulle ginocchia.
“Che cos’è?”
Silenzio tetro.
“Maddy, cos’è?”
Una scritta in rilievo, a caratteri sbiaditi.
Superpredatori.
La madre sfoglia le poche pagine, increspa le sopracciglia.
“Tu sei fuori di testa.”
“Ho già deciso.”
“Maddy…”
“Ho deciso.”
“Tu devi aiutare Saverio, Maddy, non farti del male. Hai rischiato di morire, lo capisci questo? Se non ti avessero trovata in tempo, cosa…”
La mano si alza leggermente a chiedere il silenzio. “Saverio non vuole il mio aiuto. Vuole un’altra cosa per pareggiare i conti. E io intendo farla.”
“Di cosa stai parlando?”
Non c’è risposta ma è come se quelle parole riecheggiassero anche attraverso il tempo e la distanza.
Muori, Maddy, muori.
La televisione trasmette senza volume le solite immagini di repertorio del caso Varvato, le volanti ferme davanti alla baita della strage, le imposte aperte, i fiori sulla neve.
Il sole irradia la stanza.
Il bianco delle lenzuola.
Muori, Maddy.
Un opuscolo stretto tra mani che tremano.
Superpredatori.
 
Una che sta peggio di me l’ho ufficialmente trovata.
Senza senso.
Iscriversi al reality col preciso scopo di crepare: follia pura. Un calcolo logico allucinante.
Puoi ucciderti in mille modi, anche ributtare giù una tanica di pillole, stavolta avendo cura di prendere quelle più toste invece delle aspirine: perché prendersi la briga di venire quaggiù a morire in qualche modo atroce e assurdo?
Il telefono.
È una patita della ripresa, del vivere in diretta. Cosa meglio di morire sotto le telecamere?
Ha un senso.
Un fottuto senso.
Ragiono sul fattore tempo, quanto può essere passato tra quel video e oggi, adesso. Nella televisione dell’ospedale c’era un approfondimento sul caso Varvato, un’altra storia di quelle belle torbide, quelle di cui non senti veramente il bisogno: cinque morti ammazzati per una questione sentimentale. Omicida donna. Opinione pubblica nel caos. Pagine e pagine di spazzatura mediatica per chiedersi perché, in che modo, come sia possibile che una donna abbia un comportamento possessivo come quello di un uomo, femminicidio all’incontrario, cazzate su cazzate, senza arrivare all’unica e sola risposta esatta.
Certe donne sono stronze. Io ne so qualcosa.
Sarà successo sei mesi fa? Forse sette o otto. Era vicino a Natale. Sì, Natale. Se c’era un approfondimento il fatto era già accaduto da qualche tempo.
Sarà un video di parecchi mesi fa.
Non è che m’importi di costei, ma non ho sonno; poi magari ci sono cose utili, dettagli sull’isola. Se ha filmato tanto è durata tanto.
Video 4.
Play.
 
Portello aperto d’elicottero, spostamento d’aria delle eliche.
Passi affrettati.
Mani mezzo guantate s’appoggiano ai maniglioni, si issano dentro il vano del velivolo dove altre figure, nella penombra, già attendono sedute. Il telefono deve essere stato assicurato al petto per lasciare libere le dita.
La figura siede pesantemente su una delle panche, compaiono due gambe avvolte in calzoni militari mimetici color blu e nero. Il respiro è fitto e il telefono si alza e abbassa lieve, a ritmo.
“Pronte, ragazze?” S’intravvede la pilota al posto guida mostrare il pollice. “Sta per iniziare l’avventura più folle della vostra vita.”
Fa eco un coro d’approvazione e di pugni alzati a esorcizzare la paura, l’adrenalina. Lei no, lei rimane immobile, persa, seguendo pensieri furibondi, pulsioni distruttive.
Una donna, seduta alla sua sinistra, si sporge per guardarla: il volto non si vede, nella penombra, eccetto che per un sorriso malizioso e folti capelli neri. “Tutto a posto, bionda? Non hai una bella cera.”
Lei forse la guarda o forse no. “Sto bene,” mormora.
Riceve una pacca cameratesca sulla spalla. L’elicottero si alza lentamente in volo, i colori prepotenti del tramonto riempiono di rosa e arancio il riquadro dei finestrini.
L’inquadratura indugia sul cielo screziato, poi una mano copre l’obiettivo, spegne la fotocamera.
 
Video 5.
Play.
 
Il telefono traballa in mani insicure, l’inquadratura regolata, sistemato sul petto nell’apposito sostegno.
L’immagine si setta, l’obiettivo si alza a inquadrare l’elicottero che s’allontana in cielo, sollevando sbuffi di sabbia e acqua. Il suono dei rotori e lo spostamento d’aria ronzano nel microfono.
Poi la laguna.
Il paesaggio del mare e del profilo della costa scorrono lentamente mentre la visuale ruota intorno, accompagnata dal respiro emozionato, carico, dal rantolo di voce che sussurra “Dio”.
L’azzurro imperioso del mare spezza il grigiore dell’alba mentre il sole sorge all’orizzonte.
“Dio.”
La grande spiaggia del punto d’approdo si stende intorno, costellata da piccole pozze d’acqua, sgombera di vegetazione, candida.
Le altre donne dell’Ondata esitano intorno, sparpagliate, le armi in mano o a tracolla, dividendo gli sguardi tra le meraviglie dell’isola, il paesaggio, l’apparente quiete assoluta, tropicale, di quel luogo da sogno. Le loro voci sono un brusio indistinto.
L’obiettivo scende d’altezza mentre lei si inginocchia nella sabbia, davanti a sé il mare. Un soffio più forte della brezza s’incunea nel microfono e smuove l’acqua placida, il lieve moto del bagnasciuga.
“Ho commesso un errore, uno imperdonabile, e una persona che amavo ha pagato per me.” La sua voce è tenue, ricalca quella delle onde mattutine. “Maddy ha fatto una cosa terribile. Ma ora Maddy non c’è più. Maddy non esiste più.”
Solleva una catenina dal collo, una piastrina militare d’argento: l’obiettivo la inquadra e mette a fuoco nel cielo screziato. Sette lettere, la E, la X, la I, sono incise da parte a parte, sembrano riverberare controluce, incendiate dal calore dell’astro nascente.
EXILLES.
La piastrina cade sul petto, scompare dalla vista. Le mani coi mezzi guanti neri si alzano davanti allo schermo. Gli indici si incrociano a formare una X perfetta.
“Io sono Exilles, e questa,” la voce, il respiro, sono ora pieni e carichi come pervasi d’una vitalità nuova e selvaggia, “Questa è la mia penitenza.”
Illumina, nei colori del sole.


***

2SUPERPREDATORI - parte 14 Empty Re: SUPERPREDATORI - parte 14 Mer Ago 25, 2021 5:15 pm

Petunia

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Moderatore
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La stanza sotterranea non è grande, la forma vagamente circolare, il soffitto è basso ma non al punto da dover stare chinate.  (La stanza sotterranea, di forma quasi circolare, non è grande. Il soffitto è basso, ma non così tanto da dover stare chinate)




Nel testo (non è la prima volta che lo noto) fai varie incursioni un po’ moraleggianti e che non suonano particolarmente naturali nei dialoghi. Cosa che sono uno dei tuoi punti di forza proprio per la naturalità.
Detto con franchezza, un certo tipo di intromissioni le eviterei (comprese quelle sulla guerra afgana e altre) 
soprattutto se stai cercando un editore. Spero tu lo abbia già trovato! 


per dimostrare a tutti quanti che gli unici responsabili delle azioni che compiamo siamo noi stessi, a prescindere dal sesso, la razza, la cultura; che la cattiveria, la violenza, la rabbia, l’odio, sono cose connaturate al nostro essere, impossibili da sconfiggere. Ma anche che è solo vivendoli, l’odio e la violenza, che si può trovare infine i loro opposti. Io non posso accettare che Dio entri nel mio show

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