Strano non la ricordino.
Leggo i commenti dei miei ex compagni di scuola alla foto del pranzo di classe a Otranto, poche settimane prima della maturità, che ho postato su facebook. Parliamo di una quarantina di anni fa. Nessuno ricorda chi sia la ragazza voltata verso di me, fra la Marinella e Tino.
La foto non le rende giustizia: occhi verdi che facevano cantare il mondo e un sorriso dolce che mal nascondeva uno sguardo tremendamente sensuale.
Strano non la ricordino.
Qualcuno di loro storse il naso quando dissi che volevo portarla al pranzo di classe e chissà quanti commenti al vetriolo fecero alle mie spalle. Allora io e Carmen eravamo sempre insieme: ogni separazione pareva eterna.
Capita, a diciott’anni.
Era comparsa un giorno dal nulla. In un corteo di studenti nei giorni tragici del sequestro Moro. All’improvviso me la vidi accanto. Non era sola, si portava sempre dietro una bicicletta. Una vecchia bianchi celeste da donna, seppi poi. Io di bici allora non mi intendevo.
La notai subito e insieme a me tutti i maschi del corteo, ci scommetto.
La manifestazione finì con l’assemblea nell’aula magna. Feci il mio intervento da bravo figicciotto, poi sedetti sulla scalinata ascoltando gli altri.
Non l’avevo sentita arrivare. Posò una mano sulla mia e mi guardò. Solo allora notai quanto fossero profondi i suoi occhi verdi. E ci annegai.
Non era d’accordo con me, mi disse. La violenza fa parte della storia, o lo fai o la subisci, aggiunse. Bloccò i miei tentativi di ribattere, dicendo che doveva andare a controllare la bici.
La seguii, ovviamente. La bici era fuori dal portone del rettorato. Una macchia di colore sul muro grigio.
“Non ho da chiuderla, vado via”, disse.
Solo per trattenerla, dissi che era una bici bellissima.
Non è solo bella, mi corresse, ma ha una storia straordinaria. Se avessi voluto, me la avrebbe raccontata più tardi nella casa nel centro storico che divideva con altri studenti universitari.
Volevo. Eccome se volevo.
Era la bici di sua zia, staffetta partigiana. Con quella bici portava messaggi e cibo ai compagni della 33a brigata Garibaldi, a Pavullo nell’appenino modenese. Su quella bici, tentando di scappare a una pattuglia di repubblichini, era stata uccisa. Si chiamava Carmen, come lei.
Si commosse, finalmente la baciai.
Ero ignorante in amore. Lei, qualche anno più di me, fu una maestra paziente e appassionata. Io scolaro entusiasta.
Passammo due mesi bellissimi.
Quando le parlai del pranzo di classe, insistette per venire.
“Vorrei fare il pieno di cose normali”, spiegò.
La sera prima del pranzo mi disse che sarebbe partita. Le chiesi tranquillo quando sarebbe tornata. Iniziai ad aver paura quando disse che non sapeva, sprofondai nel panico quando mi resi conto che aveva impacchettato parte delle sue cose, morì quando facemmo un amore disperato e finale.
Cinque giorni prima dell’esame di maturità, mentre annoiato studiavo Leopardi, mi cadde l’occhio sul titolo della Gazzetta del Mezzogiorno. In uno scontro a fuoco con i carabinieri del generale Della Chiesa, una terrorista delle BR era stata colpita a morte. Il suo nome era Carmen Santoro.
Quelle pallottole trafissero anche me.
-
Mia figlia è una maga di Photoshop con cui riesce a fare le cose più difficili.
Quando le ho chiesto se per scherzo riusciva a inserire una sconosciuta nella foto di classe, ha detto che sarebbe stato uno scherzo. Nessuno s’accorgerà di nulla, aggiunse. E così è stato.
“Ma la foto dove l’avevi presa? Era perfetta, abbigliamento dell’epoca, acconciatura anni Settanta.”
“In un sito sulla storia del movimento studentesco”.
“Bravo papà, bello scherzo. Tutto ieri i tuoi compagni hanno discusso di una ragazza che non esiste, una ragazza virtuale”
Tecnicamente ho detto la verità, come sempre alle mie figlie.
Solo che il sito con i ricordi del movimento studentesco è in una scatola di cartone in cima al mio armadio nella camera di quand’ero ragazzo. Fra le altre cose, avevo messo la foto di Carmen e la lettera che mi mandò pochi giorni dopo la sua partenza.
Non la vedevo da quando le avevo detto che non potevo portarla al pranzo di fine anno. Solo noi di classe, avevamo deciso.
Al ritorno la cercai inutilmente. A casa non c’era più.
Poi arrivò la sua lettera.
“Lo so che non sei d’accordo, in altre circostanze mi avresti addirittura denunciata. Faccio come mia zia. Sono stata bene con te. Ti prego occupati della bici. La recupero appena posso”.
Io avevo conservato tutto, la lettera e la foto sopra l'armadio, lei dentro di me.
La bici mi ha sempre seguito nei troppi traslochi della mia vita. Ho cambiato città, donne, lavori, ho visto crescere le mie figlie, ma la bianchi di Carmen è sempre con me. A tutti racconto che è una bici partigiana. Penso che nessuno mi creda, anche perché di Carmen non parlo mai.
L’altro giorno mia figlia è andata in piazza alla manifestazione delle sardine: con la bianchi celeste.
Ieri, su facebook, ho finalmente portato Carmen al pranzo di classe della III E.