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Capitolo 6
Sono le sette del mattino.
Il buio si è appena rischiarato ma rimane buio.
Siamo rimaste lì, a fare niente, a dire niente, per non so quanto. Ho i loro volti, i volti della Gang-Bang, che continuano a imprimersi dietro le palpebre a ogni battito di ciglia. Ho il sangue, il loro sangue, addosso. Abbiamo fatto un casino, un casino madornale.
Niente Erinni nascoste nella notte, niente mostri, demoni, bestie: abbiamo fatto tutto noi. Tutto noi, dall’inizio alla fine.
Avevamo trovato delle alleate, qualcuno disposto a stare dalla nostra parte, noi, perdenti sicure, sfigate, disastrate, noi, noi, noi, siamo state noi. Le abbiamo ammazzate malamente.
Le abbiamo trucidate.
Per una croce buttata via, la croce che ci ha salvato da Panzer-2. Per uno scatto d’ira agevolato dai fumi. Per uno scatto d’ira e basta. Azione e reazione. Omicidio a catena.
Dio.
“Vuoi restare lì ancora qualche ora?” Il tono di Lucilla è piccato, pungente, mi dà sui nervi mentre se ne sta seduta sulla pietra e si regge il mento con una mano.
“Tu,” alzo un indice con la peggiore occhiata del repertorio, “Tu non hai il diritto di aprir bocca.”
Lei alza di spalle, indifferente. “Pensavo comandassi tu.”
“Cosa vuol dire?”
“Niente.”
“No, adesso mi dici cosa cazzo volevi dire.”
Lei espira, alza gli occhi al cielo. Le darei un pugno. “Stiamo qui a far niente da un po’. Una buona comandante dovrebbe prendere in mano la situazione.”
“Una buona comandante dovrebbe appenderti per il collo visti i danni che hai provocato.”
“Non stai facendo nessuna delle due cose, comunque.”
“Per favore,” la voce mesta di Sigrid s’intromette prima che io abbia tempo di scagliare un’adeguata risposta, “Potete non litigare? È già un casino così.”
Silenzio.
Non ho voglia di fare nulla. Né di parlare né di agire. Neanche di litigare. Vorrei solo dormire, andare nel mondo dei sogni e vaffanculo a tutto. Ce ne stiamo sedute, in tre, nella radura che fu il campo base della Gang-Bang del Bosco, coi loro cadaveri intorno. Le abbiamo ammazzate. Per difesa, per istinto, perché doveva succedere così. Le abbiamo ammazzate come animali.
“Mercury,” Artemis mormora ancora, la voce flebile, “Tra un po’ sorge il sole. Metti che il sangue attira altre cose.”
Taccio. Sento freddo, ma non è il freddo notturno. È il freddo di chi ha fatto un casino.
Guardo il corpo ormai immobile di Nancy, lì accanto. Gli occhi le sono rimasti aperti sul nulla e un fiotto di sangue non ha finito di uscirle dal lato della bocca. È ancora là, mezzo dentro e mezzo fuori, scuro.
Lo fisso di continuo perché è assieme rivoltante e magnetico. È la morte che mi guarda e io non riesco a staccare gli occhi.
Stanotte uccidere mi sembrava la cosa più naturale del mondo; ora, qui, adesso, provo solo un senso di paura e rimorso. Sono una fottuta assassina. Lo ero anche prima, sì, ma lì era diverso. Sono un’assassina a tradimento. Sono venuta qui per uccidere, sì, ma in questo modo, così, non è come pensavo, come immaginavo.
Non è mai come si immagina.
“Okay,” lo dico più a me stessa che a loro, “Okay, non possiamo restare ferme.”
Puoi farcela, lo so, me lo ripeto in loop. Posso farcela.
Ho visto di peggio.
Certi carnai, in Cirenaica.
Certi carnai.
Una buona comandante deve prendere in mano la situazione, vero. Mi alzo a fatica, la testa pesa ancora.
“Il tuo braccio?”
Sigrid mi guarda con quegli occhi freddi in qualche modo mitigati dalla sofferenza e annuisce appena.
Cerco di fare ordine nella mia testa. Non so quanto durerà ancora la cannella, non so dove queste tenessero la loro scorta, nella caverna forse. Il sauro si è allontanato. Non è andato via del tutto, di tanto in tanto lo si intravvede passeggiare nella boscaglia intorno, ma deve essersi rotto i coglioni di aspettare. Confido se ne vada entro breve. Lo spero. Non so se sarò in grado di gestirlo.
“Okay,” ripeto per fermare il flusso continuo dei pensieri, delle immagini che si succedono una dietro l’altra, sempre le stesse, “Okay. Dobbiamo nascondere i corpi. Farli sparire.”
Mi avvicino a Nancy, l’idea è di controllare la giugulare. Mi trema la mano.
Non ci riesco.
Mi fa pena.
Senso.
Lucilla osserva, attenta, come una gatta.
Copro la bocca con una mano, cercando di non darlo a vedere, di non mostrare che sono sfatta e stanca e vorrei essere altrove. Senza quel sangue addosso.
“Ehi.”
Sussulto appena, non mi ero accorta che lei si fosse alzata: Sigrid mi guarda di sottecchi, scura in volto, il braccio sempre stretto a sé.
“È andata così, okay? Ci siamo difese, è andata così. Nessuna lo voleva.”
Una ragazzina ventenne sta cercando di rincuorarmi. Sul serio. Vorrei spararmi in bocca.
“Le abbiamo massacrate a tradimento.”
“È andata così.”
Espiro.
È andata così.
Quanta indifferenza ci vuole per dirlo?
È andata così.
Pazienza. Pazienza se abbiamo gettato al vento l’unica possibilità che avevamo di combinare qualcosa. Se abbiamo assassinato le nostre nuove alleate. Se siamo delle cazzo di traditrici.
È andata così, dice lei, la ricca stronza snob che va a cacciare animali in Africa per sport.
È andata così.
Realizzo con colpevole ritardo che lì, accanto al mio braccio, c’è la sua mano destra tesa. La guardo, guardo lei, senza capire cosa devo fare, cosa voglio fare, se ignorarla, restare con me stessa e basta. Sono il ritratto della confusione e del caos dei sensi.
“Comunque,” mormora a mezza voce, “Sei stata… uno spettacolo. Sul serio. Le hai asfaltate come niente.”
Silenzio.
Sorrido, appena appena. Mi viene da sorridere, così, per esorcizzare l’incubo.
Sono stata uno spettacolo. Le ho asfaltate come niente.
Dio.
Mi viene da ridere e piangere assieme.
“Felice di,” esita ancora, lei, deve pesarle dire quel che deve dire, “Essere nella stessa squadra.”
Respiro a fondo.
Allungo la mano: accetto con diffidenza quella stretta, leggera, cadenzata, da buona società. Non contiene che un misero frammento di contatto umano.
“E grazie per…” accenna al braccio, senza guardarmi.
Annuisco. “Spari bene. Non era facile nel buio.”
“Il mirino ha la night vision.”
Sorrido. Sorridiamo entrambe. “Sei stata brava comunque.”
“Com’è che ti chiami, già?”
“Silvia.”
“Okay.”
Lasciamo la stretta, ritorniamo ai nostri ruoli, i nostri personaggi, al campo pieno di morte.
“D’accordo,” stavolta lo dico sapendo che qualcosa è cambiato, non so cosa, forse ho solo accettato tutto, “D’accordo.”
È andata così.
Appoggio due dita alla giugulare di Nancy, lo scoiattolo, la carne è ancora calda: non c’è battito. Le chiudo gli occhi, come fanno nei film, e chiudere gli occhi a una morta è una delle cose più brutte che ti possano capitare, specie se l’hai ammazzata tu.
Mi sposto, tasto il collo della volpe; per un attimo bollo tutto come inutile, poi è il mio, di cuore, a battere più forte. C’è pulsazione.
“Cristo, è viva.”
Saetto lo sguardo intorno, spaesata, come se non fosse possibile, pensabile, immaginabile; l’ho presa a pugni, è plausibile che sia viva. Malconcia ma viva.
“È viva?”
Annuisco. “Viva.”
Sigrid mi guarda spaesata. “E che cazzo facciamo adesso?”
Prendo il polso della ragazza per sentire il battito, il battito c’è.
“Ah, non lo so.”
Le guardo entrambe ed entrambe guardano me. Prendo tempo facendo l’unica cosa che mi viene in mente: mi sposto verso Tania, la Gazza. Dal sangue che ha buttato non c’è speranza che sia ancora con noi, ed è un bene: non riuscirei a guardarla in faccia dopo stanotte. Non ce la farei mai.
Le sposto il cappuccio, i capelli, tocco con quel poco di delicatezza che possiedo, una forma di rispetto. Non c’è battito, per quanto un breve momento lo faccia sembrare. Percezioni errate.
Morta. Andata.
Vorrei scusarmi con lei, lo vorrei davvero. Ma non posso, non riesco; non ne sono capace. Mai stata in grado di chiedere scusa, non è nella mia natura. Se sbaglio è colpa mia, lo dico, lo ammetto. Colpa mia.
Ma scusarsi no, non fa per me. Scusarsi è debole. Scusarmi di che, di avere in squadra un’estremista religiosa con una discarica nel cervello?
Dio, no.
Mi dispiace che sia andata così, Tania, mi dispiace, questo sì.
“Che facciamo?” Sigrid, impaziente, si torce le mani.
Entrambe guardano me e io sono la fottuta comandante. Quando ti candidi a dare gli ordini non pensi mai a questi risvolti, al fatto che devi decidere anche quando avresti solo voglia di seppellirti da qualche parte.
“Non lo so.”
Silenzio costernato. “Non lo sai?”
Mi gratto la testa, espiro, inspiro, espiro, guardo la volpe. “Legala.”
“Io?”
“Sì, tu.”
“Con cosa?”
“Ma che cazzo ne so, cerca una corda.”
Sigrid si guarda intorno, a disagio.
“Nella grotta,” agevolo le sue sinapsi, “Avranno sicuramente qualcosa di utile.” Esita allora faccio strada, m’avvio controvoglia, tesa, nervosa, ho ancora un cadavere da controllare. “Tu resta di guardia,” Lucilla, indifferente, rimane al suo posto.
Camminiamo quel poco che serve ad arrivare alla piccola caverna, rischiarata dalle fiaccole che bruciano ancora.
Mi fermo di colpo, sull’ingresso; sorrido, un sorriso genuino, che viene dal cuore, immotivato.
Jade il procione si volta a guardarmi, stesa per terra com’è, con le mani e i piedi legati assieme, imbavagliata con un panno. Mi guarda con occhi straniti, attoniti, con l’espressione di chi spera sia tutto solo un gigantesco scherzo.
Mi viene da ridere. Mordo il labbro.
Mi viene da ridere.
Vedere questa cretina vestita da procione che mi guarda attonita, forse come mi guarderebbe un vero procione incaprettato, è la cosa che salva questa nottata, la rende di colpo vivibile, umana, persino divertente.
Vorrei ridere come una demente, per mandare via tutti gli orrori della notte.
Piazzo le mani sui fianchi e guardo la mia compagna di squadra. “Non ricordavo di averla legata.”
“Neanche io.”
“Almeno non devo toccarle la giugulare.”
“E ci sono sicuramente delle corde qui dentro.”
“Thug life.” Le offro il palmo e Sigrid ci batte un laconico cinque. Siamo patetiche ma va bene così.
Ormai il casino è fatto.
Ricordo che a scuola, in prima liceo, quello di Italiano un giorno tirò fuori un tubetto di dentifricio, lo diede a una della prima fila e gli disse di spremerlo su un tovagliolo. Quella lo fece e lui le disse Ora rimetti il contenuto dentro il tubetto.
Era una cazzo di metafora per spiegare che nella vita, quando dici o fai qualcosa, non sempre riesci a rimettere le cose com’erano. Un modo per ricordare a tutti che prima di dire o fare qualcosa bisogna sempre pensare alle fottute conseguenze.
Mi sento come avessi in mano il dannato tubetto di dentifricio e per terra uno schifo indicibile da quanto ne ho schiacciato fuori. Vorrei tornare in prima liceo, solo per non dover affrontare le conseguenze.
Solo per quello.
“Okay,” butto giù il magone: siamo in ballo, balliamo, come ieri sera. Balliamo e sia quel che sia.
È andata così.
“Cerchiamo delle corde.”
Scavalchiamo Jade addentrandoci nella piccola caverna; non è che un modesto antro che curva leggermente verso destra, allargandosi dove queste clown hanno i giacigli per dormire. La grotta è addobbata di piante secche, utensili, scorte di cibo: tutto quello che potresti trovare nel covo di una squadra che è qui in Illumina da ben prima di te, ma ci sono anche oggetti che sicuramente vengono dalle tasche delle poveracce che queste hanno saccheggiato nei mesi. È tutto ammucchiato nelle concavità delle pareti, su scaffali naturali, senza un ordine apparente; scartabellare tra questa esposizione di materiale è come perdersi tra i banchi di una fiera dell’usato.
“Questi?” Adocchio un paio di parallelepipedi neri, piccoli, cha stanno appoggiati in mezzo ad altre cianfrusaglie: ho già visto qualcosa del genere nella mia vita. Sono due scatolette opache, una decina di centimetri per lato, spesse non più di due o tre. Hanno un interruttore sul dorso. Stanno assieme ad un piccolo telecomando.
“Guarda qua.”
Sigrid aggrotta le sopracciglia. “Cos’è?”
“Esplosivo militare compatto. Con attivazione radio.”
Schiude le labbra in un’espressione di stupore caricaturale. “Ci può servire?”
“Magari sì.” Riappoggio tutto al suo posto, mai amato le cose che scoppiano. “Magari sì.”
Mi scosto, vado a chinarmi sulla ragazza-procione, le tolgo dalla cintola i tre coltelli che stanotte ero troppo sfatta per notare e che lei deve aver cercato invano di raggiungere con le mani legate; uno glielo appoggio sotto l’occhio: lei mugola dietro il bavaglio, si ritrae quel poco che riesce.
“Non una parola,” il tono spaventa me stessa, “Non voglio sentire un suono.”
Un lungo attimo di nulla poi lei annuisce, appena. Le slego i piedi con un paio di tagli decisi della lama.
“Alzati.” La sollevo di peso, brusca, lei obbedisce, barcolla; “Cammina,” la conduco fuori dalla grotta reggendola per un braccio. Incespica indolenzita.
La porto fino al falò. Ci vogliono alcuni istanti perché Jade realizzi cosa è capitato veramente; guardo i suoi occhi dilatarsi sempre di più mentre scorge i corpi sfatti delle compagne, il suo respiro accelerare.
La butto in ginocchio vicino al fuoco.
Mi sento un animale, un qualcosa di diverso dalla persona che sono. Mi sento una Atreja, e quella che ho davanti, inginocchiata, le mani legate, è come una Mercury qualsiasi. Una Mercury sconfitta e umiliata.
Per un attimo, uno solo, sento cosa si prova a stare dalla parte dei vincitori.
È una sensazione assurda, stordente. È un atto di supremazia.
Sono io che comando. Io che ho il coltello dalla parte del manico, e non è una fottuta metafora.
Jade piange.
Socchiude gli occhi e sussulta le spalle: piange, attonita, di fronte ai cadaveri della fu Gang-Bang del Bosco.
Si sono fidate delle persone sbagliate.
Mi dispiace, in fondo al cuore mi dispiace, abbiamo fatto un casino, non era previsto, non era questo che doveva succedere.
È andata così.
Sigrid ritorna con in mano un rotolo di corda da lavoro, mi guarda con aria interrogativa.
“Legala,” accenno alla volpe priva di sensi, poi ripenso che ha un braccio ferito, meglio non fare sforzi, “Dammi. Tu sorveglia questa qui. Se si alza le fai saltare la testa.”
Annuisce e sembra quasi che ci speri, che lei si alzi e tenti la fuga, segretamente ci speri. La guardo raccogliere il proprio fucile, sistemarsi a un passo di distanza, in posizione di riposo. Ha una certa classe nelle posture, la ragazza.
Legare qualcuno non è facile, legare qualcuno in maniera decente ancora meno.
Atreja sa fare i nodi, ne so qualcosa. Brivido di vergogna.
Per un attimo mi ritorna in mente un’immagine che avevo scordato del tutto: Pigia, pigia, col pigiare, il maledetto tino d’uva e la mia figura nuda e sudata che pigia i grappoli. L’avevo rimossa.
Avevo dimenticato il mio personale incubo.
Potere di Illumina.
Stralcio la corda e annodo dietro la schiena i polsi di Foxx, la volpe, con tutta la cura che riesco; non me ne frega se le si blocca la circolazione, non me ne frega se le faranno male, non me ne frega di niente. Se questa si libera avremo un problema grosso. Io non voglio problemi.
La disarmo di tutte le lame che porta addosso dopo una breve perquisizione.
“Aiutami,” Lucilla si accosta, indecisa, mi faccio assistere nel sollevare la ragazza, pesante vista l’altezza, la mettiamo seduta, a strattoni, contro il masso più vicino al falò. Una cazzo di fatica.
Le lego i piedi perché non possa camminare. Le controllo il viso, dove un livido si sta formando alla gota e del sangue le sbrodola al lato della bocca. Per ora dorme e va bene così.
“Vieni,” accenno a Jade, “Qui, muoviti.” Lei ubbidisce, occhi umidi, si alza, barcolla da me; la faccio sedere a fianco della compagna, senza cerimonie, le lego le caviglie per la stessa ragione. Il dannato pelo dei loro stivaletti di pelliccia è ruvido e inzaccherato.
“Non perderle di vista,” mi rialzo e accenno ad Artemis. “Cercano di scappare? Gli spari in fronte.”
“Oh, yes.” Si piazza lì vicino, sottilmente divertita.
“Lu,” faccio segno, “Dammi una mano.”
Iniziamo il pietoso trasporto dei corpi. Prima Tania, la reggiamo non senza patemi per braccia e gambe, la portiamo nella grotta. Trasportare qualcuno è la cosa più complicata del mondo, anche se sei in due, anche se chi devi portare è una ragazza venticinquenne, non alta, non pesante, che ha pure perso svariati litri di sangue.
Poi Nancy, e lei pesa un po’ di più: una fatica del cazzo.
Le lasciamo nella grotta, fianco a fianco, le copriamo con un plaid. Questo lavoro da beccamorto frustra il mio animo, mi deprime, opprime, mi fa persino perdere sensibilità alle mani: toccare i corpi, anche se non sono ancora freddi, è una sensazione orribile.
Lucilla, al contrario, esegue senza un fiato, distante come è stata per tutta la notte, indifferente alle conseguenze di un suo gesto, una sua scelta, una sua cazzo di pazzia.
Torniamo al falò che è ormai quasi solo brace; la luce del primissimo giorno filtra attraverso il bosco, rosata.
“Dovremo recuperare anche Saetta,” ammonisco entrambe, “Quando sarà mattina.”
Termino l’ispezione del campo raccogliendo gli archi, le faretre e le lame requisite in un unico mucchio; ritrovo il mio coltello e lo risistemo nel fodero
Poi siedo, stanca, di fronte alle nostre due prigioniere.
Abbiamo ritardato la questione per non affrontarla, ma ora non si può più rimandare. C’è tempo prima che il sole sorga.
Guardo entrambe, Jade imbavagliata mi osserva di rimando con due occhi gonfi di pianto; Foxx sta appena iniziando a ritrovare conoscenza tra un rantolo e un colpo di tosse.
“Che dobbiamo fare di voi?”
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