***
C’era voluto parecchio perché la cosa fosse ufficiale.
Parecchio perché anche in fuga, nel bosco, poteva ancora capitare qualcosa, e poi un Carchar le aveva puntate, seguite. Erano stati attimi col fiato sospeso, dove tutti, tutti quanti, stringevano in mano qualcosa per scaramanzia e stavano con gli occhi incollati agli schermi e il cuore in gola. Ma quando il sauro aveva rinunciato, aveva perso la pista nel fango e se n’era andato, divenne ufficiale: si erano salvate.
C’era stato un grido corale nell’ufficio, forte, di pura soddisfazione, e poi un lungo applauso.
Maria e la Daniela s’erano pure abbracciate e non c’era una, non una, tra le colleghe, che non stesse piangendo di gioia.
Era entrato con un urlo da stadio, Max Tambori, in ufficio; era entrato dalla doppia porta con le mani alzate a pugno, la camicia hawaiana in disordine, la patta aperta e ridendo come un demente.
“Ce l’hanno fatta!” aveva gridato più e più volte, come un pazzo, con gli occhiali storti, “Ce l’hanno fatta! Cristo d’un Dio, ce l’hanno fatta!”
Era passato ballando tra le scrivanie dell’openspace, aveva dato il cinque a tutti e abbracciato tutte, facendosi piangere addosso, toccando dove poteva perché il momento permetteva qualsiasi cosa, improvvisando un passo di valzer con la Daniela e poi spostandosi in centro all’ufficio coi pugni sempre bene alzati, ridendo sguaiato.
“Qui ci vuole del moscato! Del moscato Cristo d’un Dio, si sono salvate!”
Era saltellato fino all’armadietto frigo, aveva preso la bottiglia delle grandi occasioni e l’aveva aperta con tutto il casino che gli era riuscito di fare, mentre Tommaso prendeva i bicchieri e li incolonnava sul tavolo dei bozzetti.
Era andato a fiumi, a getti, il moscato, riempiendo bicchiere su bicchiere, spargendo gocce, schiumando e finendo tracannato a nastro.
“Donne coi controcazzi, donne coi controcazzi!” ripeteva incessante, sollevando il bicchiere, ridendo e scuotendo il capo, “E le abbiamo noi, noi ce le abbiamo queste bellezze scatenate, queste miracolate!”
Un miracolo.
Gioele Palazzese entrò in quel momento in un ufficio in preda al delirio da esaltazione.
“Giò!” Max lo puntò subito, caracollò avanti per raggiungerlo, “Giò! Madonna, Giò, l’hai visto, dimmi che hai visto tutto!”
“Ho visto.”
Max rise, nel suo modo sgarbato, le guance lisce arrossate dall’ebbrezza. “Ecco, ecco, un bicchiere per il nostro genio dei reality!”
La mano di lui fece un gesto di diniego prima che il bicchiere arrivasse, allora Max lo prese per sé e lo tracannò d’un colpo.
“Si sono salvate,” Max Tambori tirò su col naso, serio, sbatté il flute su una delle scrivanie, “Salvate, Giò, sono vive. Sono sfuggite alla bastarda strega di Atreja e all’Onyx e al Carchar. Sono vive, porcogiuda, sono vive. Mercury e Radiosa: vive.”
Scese una sorta di silenzio sacrale. Gioele annuì, pallido, e se c’era della soddisfazione nel suo sguardo era stata ben celata dietro le lenti tonde degli occhiali dalla montatura dorata. “Lo so, ho visto.” Pausa pesante. “Ricomponetevi tutti, per cortesia. Tornate alle postazioni, c’è da monitorare quello che succede.”
Fazzoletti, lacrime, spostare di sedie. Parole d’incoraggiamento.
Max assentì, attese che ci fosse ordine; fremeva. Seguì Gioele fuori dall’ufficio dopo un ultimo gesto da stadio, senza suono, ai suoi collaboratori.
Si appartarono nella vicina area relax deserta.
“Questa è una,” Max tossì, passò una mano sulla bocca, schiarì la voce in modo sgraziato, “Questa è una cosa dal valore immenso per lo show, una manna dal cielo. Possiamo farne venire fuori uno spettacolo senza pari, Giò, questo è un colpo di scena, un miracolo. Un cazzo di miracolo.”
Silenzio carico.
“Lo so.”
“Bene,” Max chiuse i pugni, accorato, “Allora non c’è tempo da perdere. Dobbiamo assisterle, dobbiamo tenerle in vita, in vita, okay? Devono sopravvivere.”
Il volto di Gioele s’increspò d’una nota di fastidio. “Sai bene che non si…”
“…interferisce con Illumina. Lo so, lo so, cazzo, lo so. Avevi detto di non salvarle, di non intervenire, e l’ho accettato. Ho insistito? No. Ho minacciato il veto in consiglio per salvare quei tre culi sagomati? No. Ho accettato di farle morire nonostante lo spreco, di farle trucidare, l’ho accettato. Mi sono segato su Mercury e Radiosa nude e volevo farlo anche su Mercury e Radiosa mangiate vive, ma… Ma è successo un miracolo, un segno, chiamalo come vuoi.”
Si alzò la patta dei pantaloni.
“E quindi ora non possiamo restare indifferenti. Non possiamo permettere che tutto questo finisca sprecato. Sono in gamba quelle due, Giò, sono fighe e in gamba: vanno va-lo-riz-za-te. Di là in ufficio piangevano, piangevano porcogiuda! Pensa cosa cazzo non è successo in piazza o nei circoli o dovunque ci siano state anime che guardavano Superpredatori, il tg dell’una ce lo confermerà! La gente voleva, voleva fortemente che si salvassero perché le Erinni hanno rotto i coglioni! Hanno stufato e la gente le vuole morte! Ora quelle si salvano e noi dovremmo lasciarle alla mercé delle isole?”
Gioele inspirò ma non rispose, il mento e la barbetta caprina lisciate nervosamente.
“Giò, quelle due sono la nostra speranza per salvare lo show. Sono vive, si sono salvate, ma sono nude e disarmate. Nude e disarmate, Giò, e per quanto questo mi faccia drizzare l’uccello, non va bene, non in Illumina. Nude e disarmate, Giò, pensaci.”
Lui espirò, lo sguardo saettato intorno. “Cosa vorresti fare?”
Max alzò gli indici a chiedere un istante di pazienza, radunò le idee che gli turbinavano in testa. “Cose semplici. Poco alla volta. Adesso mandiamo loro, subito, un kit di rifornimenti. Vestiti, un’arma, delle razioni, qualcosa per sopravvivere. Gliele paracadutiamo in giornata.”
“Le Erinni monitorano i rifornimenti aerei, li intercetteranno.”
“Non se deroghiamo alle fasce orarie prefissate. Non se buttiamo giù la cassetta con un drone, qualcosa che non si faccia notare, di cui non si accorgano. In una zona agevole per quelle due bellezze al bagno, no? La devono prendere loro e basta. È un piccolo aiuto, Giò, non è contro le regole, salvandosi in quel modo hanno fatto un milione di punti, si meritano un mini bonus.”
Ci fu un lungo attimo durante il quale Gioele Palazzese sembrò soppesare tutte le variabili; poi annuì. “Va bene.”
“Grande. GRANDE. Mi occupo di tutto io, ho già delle idee.”
“Niente porcate.”
“Niente porcate, promesso.” Rise, Max, della sua risata starnazzante, la massa scossa da un brivido di soddisfazione. “Lo show impennerà, Giò, si rizzerà duro e potente come gli uccelli che hanno fatto alzare quelle due in un’ora di trasmissione. È una promessa.”
“Maya è morta, Max.”
Sospiro pesante. “Eh lo so, ho visto, povera donna. La faremo togliere dal merchandising, comunque, di lei devono scordarsi tutti: sono quelle due il futuro. La Rita ha fatto il suo dovere, strappato lacrime alle mamme di tutto il mondo, la storia dei figli, ah, via, è andato benone come varietà sentimentale, ma ora serve di più. Serve carne giovane, la Rita non era tagliata per un ruolo da protagonista, quelle due fiche invece sono perfette. La soldatessa stronza e la suora gentile. Per-fet-te. Penso io a tutto, adesso metto al lavoro il marketing e…”
Tacque quando si accorse che Gioele aveva un tarlo che continuava a roderlo, a fargli muovere la testa seguendo quel pensiero, inquieto, nervoso. “Che c’è?” chiese paziente.
“Quella ragazza,” l’indice di Gioele Palazzese oscillò nell’aria per un momento, tremulo, pallido quanto lui, “Quella ragazza ha fermato un Baryonyx walkeri con una croce. Come è stato possibile?”
Lui emise un verso, scosse la testa con un sorriso che andava allargandosi sempre di più. “E io che ne so? Sarà stata fortuna, caso, magari quel mostro era già sazio e non le ha attaccate, che diavolo ne so? Ma che importanza ha, poi? È successo, fine, ed è andato a nostro vantaggio.”
“Max,” riformulò lui come non si fosse espresso nel modo giusto, “Il dinosauro, un carnosauro, è arretrato di fronte a una piccola croce di metallo. Non è,” esitò, tentennò, teso, “Non è normale una cosa del genere.”
“Perché, cosa c’è di normale in Illumina?”
Tacque. Gioele umettò le labbra, lisciò la barbetta. “Devo parlare con loro.”
“Metteremo un pad dentro al kit di rifornimenti.”
“No, devo parlare con loro adesso.”
“Allora vai dai ragazzi del monitoring, vedi se sono vicine a un punto di collegamento.”
“Andrò dal monitoring, sì.”
“Se parli con loro avvisale che manderemo il kit.”
“Le avviserò.”
“Ah, Giò, un’altra cosa: abbiamo l’occasione di far visitare a quelle due fiche le isole, mostrare al pubblico un po’ delle cose incredibili che ci sono in quei dannati posti. Finora sono tutte durate troppo poco: se queste due riusciamo a farle stare in vita per un po’, possiamo metterle in mezzo a tante di quelle situazioni che ci sarà da far impazzire tutta la rete.”
Il fondatore di Superpredatori annuì, cupo, poi si voltò e allontanò, distratto, inseguendo qualsiasi pensiero gli stesse traversando a più riprese la mente; Max Tambori lisciò i baffi radi. Doveva giocarsi le carte con molta cautela e tutto l’impatto mediatico possibile.
“Se n’è andato.”
Ormai da parecchio, ma una cosa che ho imparato in Iraq e in Afghanistan è che non importa quanto aspetti prima di uscire allo scoperto, è meglio aspettare ancora un po’.
È solo quando decido che è trascorso abbastanza che mi rialzo in piedi, sguazzando nel fango verso l’acqua, verso il fiumiciattolo: mi immergo con un sospiro liberatorio mentre lo sporco si dissolve nella corrente in nuvole grigie. L’acqua è fredda ma trasparente abbastanza da guardarci dentro.
La suora mi segue, titubante. Si immerge a sua volta, liberandosi dal fango.
Trascorrono attimi di silenzio assoluto, di natura, prima che trovi le forze per dirlo.
“Siamo vive.”
Lei mi guarda, annuisce.
“Siamo vive,” ripeto come in trance, fissando il nulla, sciaguattando nell’acqua fresca.
“Siamo vive, sì.”
Mi sfugge un sorriso, poi una risatina isterica. “Non ci credevo, no, era finita.”
“Ce la siamo cavata.”
“Grazie alla tua croce.”
“Non è la croce. È Dio.”
“Sì, certo, è Dio.”
Mi volto di scatto, le do la schiena e offro i polsi con un gesto brusco. “Slegami. Sto impazzendo con queste corde, sto impazzendo, slegami.”
“Sì.”
Armeggia coi nodi, sento l’ansia crescere.
Crescere.
A dismisura.
“SLEGAMI!”
“Lo sto facendo, dammi un attimo!”
Armeggia. Sono nodi ben fatti.
Armeggia. Raccoglie un legnetto, s’aiuta. Se ci stanno guardando messe così, una dietro all’altra, nude, qualche uccello s’è rizzato di sicuro.
Nel momento in cui i legami cedono e si aprono lascio un gemito di sollievo e socchiudo gli occhi. “Grazie,” mormoro voltandomi, levando via la fottuta corda dai polsi, “Grazie davvero, ti devo la vita.”
“Siamo sulla stessa barca.”
“Sì, certo. Aspetta: hai una cosa sulla schiena.”
Lei si volta, si scruta preoccupata.
“Girati che te la levo.”
Obbedisce, si volta: è un attimo. Le avvolgo la corda al collo e stringo, lei reclina di colpo la testa, sgrana gli occhi con un verso strozzato, porta le mani alla gola nel tentativo di lenire la stretta.
“CHI CAZZO SEI?!” le abbaio addosso, “Come hai fatto?!”
La sua risposta, quale che sia, suona come un gorgoglio attonito; allora la scaravento di peso in acqua, la sovrasto, le tengo la testa sotto con una mano mentre annaspa e si contorce nel tentativo di colpirmi.
Lascio passare secondi di terrore che per me sono goduria, poi la risollevo, allento la stretta della corda.
“Dimmi come hai fatto o giuro che ti affogo.”
“Fatto cosa?!”
“La croce! Come hai fatto a fermare la bestia?!”
“Io non ho fatto niente…!”
La risbatto sotto e le tengo la testa. Scalcia e si dimena ma l’acqua toglie forza alla sua disperazione.
Altri secondi di gustosa agonia, poi la risollevo.
“Dimmi dov’è il trucco o lascerò il tuo cadavere a galleggiare qui, in questa merda di stagno.”
“Non c’è trucco…” Tossisce, sputa, le mani strette alla corda, “È Dio…”
“Dio, eh?”
“Dio!”
Sorrido.
La mando sotto per la terza volta. Un calcio casuale mi prende dritta sulla caviglia, bestemmio, non mollo la presa. La risollevo dopo qualche secondo punitivo in più.
Lei tossisce, gronda acqua dalla bocca, ha un conato. Me la stringo contro il petto nella morsa più ferrea del mio personale repertorio militare. “Sto aspettando.”
“Il potere di Dio… Dio ci ha salvate, io non ho fatto niente…”
“Quindi è merito di Dio, solo di Dio, giusto?”
Annuisce.
“Allora grazie, Dio!” recito sollevando gli occhi al cielo, un sorriso impertinente, “Ti dobbiamo la vita!”
“Ti prego,” mormora lei ancora tentando di lenire la stretta, “Siamo dalla stessa parte, ti prego…”
Adoro essere pregata. Mi eccita.
La lascio andare con un gesto sprezzante, lei crolla gattoni in acqua, tenendosi il collo. Tossisce ancora, sputa e un filo di saliva le si incolla sul mento.
“Alzati, cretina, ti ho appena sfiorata,” passeggio nell’acqua bassa. La caviglia, e non ci voleva, duole.
“Tu sei pazza,” scandisce con sguardo ferito, “Pazza e paranoica!”
“Non mi fido di nessuno, men che meno qui.”
“Ti ho salvato la vita! Che dietrologia vuoi vederci?!”
“Ah adesso sei tu che mi hai salvato la vita, non più il tuo Dio?”
Alza gli occhi, ancora dolorante, sconvolta dal rovesciamento di fronte. “Potevo lasciarti lì! Potevo andarmene mentre quella bestia ti faceva a pezzi, invece sono stata al tuo fianco!”
Scuoto il capo, ironica. Ha ragione, in parte, ha ragione. Abitudine. Sfiducia.
Non si fa niente per niente. Salvi una vita oggi e domani chiedi.
Paranoia, forse ha ragione.
“Senti,” mi volto a guardarla con tutta la rabbia che gli ultimi mesi m’hanno accumulato nelle vene, “Io non sono una merda, d’accordo? Ho le mie ragioni, i miei problemi, e tu non sai un cazzo di me. Mi hai salvata, sì, ma in questo gioco, in questo reality, io non vi conosco, non so niente di voi. Potresti pure essere una complice delle Erinni.”
“Una cosa?! Son saltata addosso a una di loro, è caduta con noi, la bestia l’ha presa, è morta! È come se l’avessi ammazzata io! E complice per chi, per cosa? Ti senti quando parli?”
Silenzio, qualche istante di livore reciproco.
“Perché non ti hanno toccata? Ai pali, ieri sera,” mostro la bigiotteria infissa nel mio labbro, nel mio naso, con un gesto rabbioso, “Guarda cosa mi hanno fatto! A Rita, a quella troia di Candy! Ma a te no, a te no, perché?!”
“Non ci arrivi?”
“No!”
“Atreja voleva dividerci. Mettere sfiducia tra noi, in modo da rendere più difficile cooperare, essere unite, in un momento delicato come quello. E tu ci sei caduta subito, perché certo, una come te come fa a non caderci in questi giochetti?”
“Tu non sai un cazzo di me.”
“Appunto!” Chiude gli occhi per un istante, normalizza il respiro. “Appunto. Ma Atreja sa parecchio, su tutte noi: fatti due domande.”
Silenzio.
Se qualcosa mi s’insinua nella mente, un pensiero anomalo, un dubbio feroce, sopprimo tutto: implicazioni troppo grandi, dati che non possiedo. Non è il luogo né il momento per approfondire.
“Va bene,” scandisco con la migliore, poca diplomazia della quale dispongo, “Va bene. Lasciamo stare tutto, per ora. Adesso dobbiamo pensare a toglierci di qui. A trovare un posto sicuro, uno dove restare nascoste e riorganizzare le idee.”
Il suo viso, splendido e bagnato come i capelli platinati che le si sono incollati addosso, è segnato d’una certa rassegnazione. “Non abbiamo armi. E siamo nude,” si copre il seno con un braccio.
“Inventerò qualcosa, d’accordo? Anche per i vestiti. Adesso dobbiamo solo capire dove,” mi volto intorno, con la boscaglia che si stende in tutte le direzioni, più o meno rada, “Che direzione prendere, dove sia più sicuro andare. E trovare un rifugio.”
“Vuoi andare in giro così?!”
“Hai un’alternativa? Vuoi stare qui a mollo finché non passano dei vestiti puliti?”
Lei espira, ravvia i capelli, si inginocchia nell’acqua per pudore, per coprirsi. “Non sappiamo neanche dove siamo. I pad con la mappa erano negli zaini. Non abbiamo nulla, più nulla.”
Gioele Palazzese entrò nella penombra della Sala di Controllo. La luce dei grandi schermi e dei molti più piccoli che vi gravitavano intorno diffondeva nella stanza un chiarore soffuso, candido, innaturale.
Pierantonio Di Marzo, responsabile del monitoring, si voltò verso la porta a guardarlo: c’era un che di anomalo nel suo sguardo, una punta di sollievo e forse qualcosa di più profondo, qualcosa che adombrava più dei riflessi del monitor il suo volto giovanile, barbato, dalla mascella forte.
Gioele lo raggiunse alla postazione dopo aver rivolto un cenno agli altri quattro tecnici alle rispettive scrivanie.
“Hai visto?” Pier si tolse le grandi cuffie candide, “Hai visto che roba?”
“Sì. Sono qui per questo.” Gioele fissò per un attimo le figure di Mercury e Radiosa nel grande monitor dedicato di Pier, per metà immerse nell’acqua del fiumiciattolo, il loro parlare fitto. “Come è stato possibile?”
“Intendi la croce?”
“Intendo la croce.”
Pier scosse la testa. “Non c’è un motivo, nessuno logico. C’è anche stato un disturbo sul segnale video, in quel preciso momento, l’hai notato?”
“Non ci ho fatto caso.”
“Un disturbo del segnale quando ha alzato la croce. Si è schiarito tutto per un attimo, abbiamo dovuto regolare i filtri luminosi, poi è tornato a posto. Anomalo, non era mai successo.”
Silenzio. Gioele giunse le mani davanti alle labbra. “Un sauro può arretrare di fronte a una piccola croce di metallo?”
“Non… vedo la ragione, no, ma ci sarà. Sarà stato abbagliato da un riflesso, o era sazio, dopotutto aveva due cadaveri freschi. Una spiegazione c’è per forza.”
“Io ho visto un Baryonyx walkeri tentennare di fronte a una croce quasi come se ne avesse paura, un po’ come dire che Dio ha protetto quelle due creature, e noi sappiamo che queste cose non possono succedere, no? Non s’è mai vista al mondo una cosa del genere, Dio non protegge donne e bambini dai peggiori massacri, per cui non proteggerà neanche una specie di religiosa da un mostro preistorico, corretto?”
“Ti direi che non fa una piega. Ma ti direi anche che da qualche milione di anni non s’è mai visto al mondo neppure un Baryonyx walkeri, dunque non so quale delle due cose sia più probabile.”
Gioele si mordicchiò un labbro, lo sguardo vagato intorno, inseguendo pensieri illogici. Tutti i tecnici del monitoring lo stavano osservando come in ipnosi.
Lui si accostò di più al grande schermo, alle due figure nude e intente a discutere: passò le dita a un nulla dalla superficie, sul candore di Radiosa, come potesse sfiorarla anche da quella distanza.
“Fatemi parlare con loro.”
“Sei serio?”
“Fatemi parlare con loro. Abbiamo un trasmettitore in quella zona, qualcosa?”
“Non lì dove stanno,” Pier armeggiò per un attimo con la tastiera, aprì una mappatura e digitò gli input necessari, “Ho un punto di contatto mezzo chilometro più su, lungo il fiume: se lo raggiungono potrai parlarci.”
“Possiamo guidarle lì?”
“Possiamo usare i segnali luminosi.”
“Usateli. E coprite la ripresa, non voglio che si vedano parlare con noi.”
“Tagliamo questa parte.”
Parecchio perché anche in fuga, nel bosco, poteva ancora capitare qualcosa, e poi un Carchar le aveva puntate, seguite. Erano stati attimi col fiato sospeso, dove tutti, tutti quanti, stringevano in mano qualcosa per scaramanzia e stavano con gli occhi incollati agli schermi e il cuore in gola. Ma quando il sauro aveva rinunciato, aveva perso la pista nel fango e se n’era andato, divenne ufficiale: si erano salvate.
C’era stato un grido corale nell’ufficio, forte, di pura soddisfazione, e poi un lungo applauso.
Maria e la Daniela s’erano pure abbracciate e non c’era una, non una, tra le colleghe, che non stesse piangendo di gioia.
Era entrato con un urlo da stadio, Max Tambori, in ufficio; era entrato dalla doppia porta con le mani alzate a pugno, la camicia hawaiana in disordine, la patta aperta e ridendo come un demente.
“Ce l’hanno fatta!” aveva gridato più e più volte, come un pazzo, con gli occhiali storti, “Ce l’hanno fatta! Cristo d’un Dio, ce l’hanno fatta!”
Era passato ballando tra le scrivanie dell’openspace, aveva dato il cinque a tutti e abbracciato tutte, facendosi piangere addosso, toccando dove poteva perché il momento permetteva qualsiasi cosa, improvvisando un passo di valzer con la Daniela e poi spostandosi in centro all’ufficio coi pugni sempre bene alzati, ridendo sguaiato.
“Qui ci vuole del moscato! Del moscato Cristo d’un Dio, si sono salvate!”
Era saltellato fino all’armadietto frigo, aveva preso la bottiglia delle grandi occasioni e l’aveva aperta con tutto il casino che gli era riuscito di fare, mentre Tommaso prendeva i bicchieri e li incolonnava sul tavolo dei bozzetti.
Era andato a fiumi, a getti, il moscato, riempiendo bicchiere su bicchiere, spargendo gocce, schiumando e finendo tracannato a nastro.
“Donne coi controcazzi, donne coi controcazzi!” ripeteva incessante, sollevando il bicchiere, ridendo e scuotendo il capo, “E le abbiamo noi, noi ce le abbiamo queste bellezze scatenate, queste miracolate!”
Un miracolo.
Gioele Palazzese entrò in quel momento in un ufficio in preda al delirio da esaltazione.
“Giò!” Max lo puntò subito, caracollò avanti per raggiungerlo, “Giò! Madonna, Giò, l’hai visto, dimmi che hai visto tutto!”
“Ho visto.”
Max rise, nel suo modo sgarbato, le guance lisce arrossate dall’ebbrezza. “Ecco, ecco, un bicchiere per il nostro genio dei reality!”
La mano di lui fece un gesto di diniego prima che il bicchiere arrivasse, allora Max lo prese per sé e lo tracannò d’un colpo.
“Si sono salvate,” Max Tambori tirò su col naso, serio, sbatté il flute su una delle scrivanie, “Salvate, Giò, sono vive. Sono sfuggite alla bastarda strega di Atreja e all’Onyx e al Carchar. Sono vive, porcogiuda, sono vive. Mercury e Radiosa: vive.”
Scese una sorta di silenzio sacrale. Gioele annuì, pallido, e se c’era della soddisfazione nel suo sguardo era stata ben celata dietro le lenti tonde degli occhiali dalla montatura dorata. “Lo so, ho visto.” Pausa pesante. “Ricomponetevi tutti, per cortesia. Tornate alle postazioni, c’è da monitorare quello che succede.”
Fazzoletti, lacrime, spostare di sedie. Parole d’incoraggiamento.
Max assentì, attese che ci fosse ordine; fremeva. Seguì Gioele fuori dall’ufficio dopo un ultimo gesto da stadio, senza suono, ai suoi collaboratori.
Si appartarono nella vicina area relax deserta.
“Questa è una,” Max tossì, passò una mano sulla bocca, schiarì la voce in modo sgraziato, “Questa è una cosa dal valore immenso per lo show, una manna dal cielo. Possiamo farne venire fuori uno spettacolo senza pari, Giò, questo è un colpo di scena, un miracolo. Un cazzo di miracolo.”
Silenzio carico.
“Lo so.”
“Bene,” Max chiuse i pugni, accorato, “Allora non c’è tempo da perdere. Dobbiamo assisterle, dobbiamo tenerle in vita, in vita, okay? Devono sopravvivere.”
Il volto di Gioele s’increspò d’una nota di fastidio. “Sai bene che non si…”
“…interferisce con Illumina. Lo so, lo so, cazzo, lo so. Avevi detto di non salvarle, di non intervenire, e l’ho accettato. Ho insistito? No. Ho minacciato il veto in consiglio per salvare quei tre culi sagomati? No. Ho accettato di farle morire nonostante lo spreco, di farle trucidare, l’ho accettato. Mi sono segato su Mercury e Radiosa nude e volevo farlo anche su Mercury e Radiosa mangiate vive, ma… Ma è successo un miracolo, un segno, chiamalo come vuoi.”
Si alzò la patta dei pantaloni.
“E quindi ora non possiamo restare indifferenti. Non possiamo permettere che tutto questo finisca sprecato. Sono in gamba quelle due, Giò, sono fighe e in gamba: vanno va-lo-riz-za-te. Di là in ufficio piangevano, piangevano porcogiuda! Pensa cosa cazzo non è successo in piazza o nei circoli o dovunque ci siano state anime che guardavano Superpredatori, il tg dell’una ce lo confermerà! La gente voleva, voleva fortemente che si salvassero perché le Erinni hanno rotto i coglioni! Hanno stufato e la gente le vuole morte! Ora quelle si salvano e noi dovremmo lasciarle alla mercé delle isole?”
Gioele inspirò ma non rispose, il mento e la barbetta caprina lisciate nervosamente.
“Giò, quelle due sono la nostra speranza per salvare lo show. Sono vive, si sono salvate, ma sono nude e disarmate. Nude e disarmate, Giò, e per quanto questo mi faccia drizzare l’uccello, non va bene, non in Illumina. Nude e disarmate, Giò, pensaci.”
Lui espirò, lo sguardo saettato intorno. “Cosa vorresti fare?”
Max alzò gli indici a chiedere un istante di pazienza, radunò le idee che gli turbinavano in testa. “Cose semplici. Poco alla volta. Adesso mandiamo loro, subito, un kit di rifornimenti. Vestiti, un’arma, delle razioni, qualcosa per sopravvivere. Gliele paracadutiamo in giornata.”
“Le Erinni monitorano i rifornimenti aerei, li intercetteranno.”
“Non se deroghiamo alle fasce orarie prefissate. Non se buttiamo giù la cassetta con un drone, qualcosa che non si faccia notare, di cui non si accorgano. In una zona agevole per quelle due bellezze al bagno, no? La devono prendere loro e basta. È un piccolo aiuto, Giò, non è contro le regole, salvandosi in quel modo hanno fatto un milione di punti, si meritano un mini bonus.”
Ci fu un lungo attimo durante il quale Gioele Palazzese sembrò soppesare tutte le variabili; poi annuì. “Va bene.”
“Grande. GRANDE. Mi occupo di tutto io, ho già delle idee.”
“Niente porcate.”
“Niente porcate, promesso.” Rise, Max, della sua risata starnazzante, la massa scossa da un brivido di soddisfazione. “Lo show impennerà, Giò, si rizzerà duro e potente come gli uccelli che hanno fatto alzare quelle due in un’ora di trasmissione. È una promessa.”
“Maya è morta, Max.”
Sospiro pesante. “Eh lo so, ho visto, povera donna. La faremo togliere dal merchandising, comunque, di lei devono scordarsi tutti: sono quelle due il futuro. La Rita ha fatto il suo dovere, strappato lacrime alle mamme di tutto il mondo, la storia dei figli, ah, via, è andato benone come varietà sentimentale, ma ora serve di più. Serve carne giovane, la Rita non era tagliata per un ruolo da protagonista, quelle due fiche invece sono perfette. La soldatessa stronza e la suora gentile. Per-fet-te. Penso io a tutto, adesso metto al lavoro il marketing e…”
Tacque quando si accorse che Gioele aveva un tarlo che continuava a roderlo, a fargli muovere la testa seguendo quel pensiero, inquieto, nervoso. “Che c’è?” chiese paziente.
“Quella ragazza,” l’indice di Gioele Palazzese oscillò nell’aria per un momento, tremulo, pallido quanto lui, “Quella ragazza ha fermato un Baryonyx walkeri con una croce. Come è stato possibile?”
Lui emise un verso, scosse la testa con un sorriso che andava allargandosi sempre di più. “E io che ne so? Sarà stata fortuna, caso, magari quel mostro era già sazio e non le ha attaccate, che diavolo ne so? Ma che importanza ha, poi? È successo, fine, ed è andato a nostro vantaggio.”
“Max,” riformulò lui come non si fosse espresso nel modo giusto, “Il dinosauro, un carnosauro, è arretrato di fronte a una piccola croce di metallo. Non è,” esitò, tentennò, teso, “Non è normale una cosa del genere.”
“Perché, cosa c’è di normale in Illumina?”
Tacque. Gioele umettò le labbra, lisciò la barbetta. “Devo parlare con loro.”
“Metteremo un pad dentro al kit di rifornimenti.”
“No, devo parlare con loro adesso.”
“Allora vai dai ragazzi del monitoring, vedi se sono vicine a un punto di collegamento.”
“Andrò dal monitoring, sì.”
“Se parli con loro avvisale che manderemo il kit.”
“Le avviserò.”
“Ah, Giò, un’altra cosa: abbiamo l’occasione di far visitare a quelle due fiche le isole, mostrare al pubblico un po’ delle cose incredibili che ci sono in quei dannati posti. Finora sono tutte durate troppo poco: se queste due riusciamo a farle stare in vita per un po’, possiamo metterle in mezzo a tante di quelle situazioni che ci sarà da far impazzire tutta la rete.”
Il fondatore di Superpredatori annuì, cupo, poi si voltò e allontanò, distratto, inseguendo qualsiasi pensiero gli stesse traversando a più riprese la mente; Max Tambori lisciò i baffi radi. Doveva giocarsi le carte con molta cautela e tutto l’impatto mediatico possibile.
***
“Se n’è andato.”
Ormai da parecchio, ma una cosa che ho imparato in Iraq e in Afghanistan è che non importa quanto aspetti prima di uscire allo scoperto, è meglio aspettare ancora un po’.
È solo quando decido che è trascorso abbastanza che mi rialzo in piedi, sguazzando nel fango verso l’acqua, verso il fiumiciattolo: mi immergo con un sospiro liberatorio mentre lo sporco si dissolve nella corrente in nuvole grigie. L’acqua è fredda ma trasparente abbastanza da guardarci dentro.
La suora mi segue, titubante. Si immerge a sua volta, liberandosi dal fango.
Trascorrono attimi di silenzio assoluto, di natura, prima che trovi le forze per dirlo.
“Siamo vive.”
Lei mi guarda, annuisce.
“Siamo vive,” ripeto come in trance, fissando il nulla, sciaguattando nell’acqua fresca.
“Siamo vive, sì.”
Mi sfugge un sorriso, poi una risatina isterica. “Non ci credevo, no, era finita.”
“Ce la siamo cavata.”
“Grazie alla tua croce.”
“Non è la croce. È Dio.”
“Sì, certo, è Dio.”
Mi volto di scatto, le do la schiena e offro i polsi con un gesto brusco. “Slegami. Sto impazzendo con queste corde, sto impazzendo, slegami.”
“Sì.”
Armeggia coi nodi, sento l’ansia crescere.
Crescere.
A dismisura.
“SLEGAMI!”
“Lo sto facendo, dammi un attimo!”
Armeggia. Sono nodi ben fatti.
Armeggia. Raccoglie un legnetto, s’aiuta. Se ci stanno guardando messe così, una dietro all’altra, nude, qualche uccello s’è rizzato di sicuro.
Nel momento in cui i legami cedono e si aprono lascio un gemito di sollievo e socchiudo gli occhi. “Grazie,” mormoro voltandomi, levando via la fottuta corda dai polsi, “Grazie davvero, ti devo la vita.”
“Siamo sulla stessa barca.”
“Sì, certo. Aspetta: hai una cosa sulla schiena.”
Lei si volta, si scruta preoccupata.
“Girati che te la levo.”
Obbedisce, si volta: è un attimo. Le avvolgo la corda al collo e stringo, lei reclina di colpo la testa, sgrana gli occhi con un verso strozzato, porta le mani alla gola nel tentativo di lenire la stretta.
“CHI CAZZO SEI?!” le abbaio addosso, “Come hai fatto?!”
La sua risposta, quale che sia, suona come un gorgoglio attonito; allora la scaravento di peso in acqua, la sovrasto, le tengo la testa sotto con una mano mentre annaspa e si contorce nel tentativo di colpirmi.
Lascio passare secondi di terrore che per me sono goduria, poi la risollevo, allento la stretta della corda.
“Dimmi come hai fatto o giuro che ti affogo.”
“Fatto cosa?!”
“La croce! Come hai fatto a fermare la bestia?!”
“Io non ho fatto niente…!”
La risbatto sotto e le tengo la testa. Scalcia e si dimena ma l’acqua toglie forza alla sua disperazione.
Altri secondi di gustosa agonia, poi la risollevo.
“Dimmi dov’è il trucco o lascerò il tuo cadavere a galleggiare qui, in questa merda di stagno.”
“Non c’è trucco…” Tossisce, sputa, le mani strette alla corda, “È Dio…”
“Dio, eh?”
“Dio!”
Sorrido.
La mando sotto per la terza volta. Un calcio casuale mi prende dritta sulla caviglia, bestemmio, non mollo la presa. La risollevo dopo qualche secondo punitivo in più.
Lei tossisce, gronda acqua dalla bocca, ha un conato. Me la stringo contro il petto nella morsa più ferrea del mio personale repertorio militare. “Sto aspettando.”
“Il potere di Dio… Dio ci ha salvate, io non ho fatto niente…”
“Quindi è merito di Dio, solo di Dio, giusto?”
Annuisce.
“Allora grazie, Dio!” recito sollevando gli occhi al cielo, un sorriso impertinente, “Ti dobbiamo la vita!”
“Ti prego,” mormora lei ancora tentando di lenire la stretta, “Siamo dalla stessa parte, ti prego…”
Adoro essere pregata. Mi eccita.
La lascio andare con un gesto sprezzante, lei crolla gattoni in acqua, tenendosi il collo. Tossisce ancora, sputa e un filo di saliva le si incolla sul mento.
“Alzati, cretina, ti ho appena sfiorata,” passeggio nell’acqua bassa. La caviglia, e non ci voleva, duole.
“Tu sei pazza,” scandisce con sguardo ferito, “Pazza e paranoica!”
“Non mi fido di nessuno, men che meno qui.”
“Ti ho salvato la vita! Che dietrologia vuoi vederci?!”
“Ah adesso sei tu che mi hai salvato la vita, non più il tuo Dio?”
Alza gli occhi, ancora dolorante, sconvolta dal rovesciamento di fronte. “Potevo lasciarti lì! Potevo andarmene mentre quella bestia ti faceva a pezzi, invece sono stata al tuo fianco!”
Scuoto il capo, ironica. Ha ragione, in parte, ha ragione. Abitudine. Sfiducia.
Non si fa niente per niente. Salvi una vita oggi e domani chiedi.
Paranoia, forse ha ragione.
“Senti,” mi volto a guardarla con tutta la rabbia che gli ultimi mesi m’hanno accumulato nelle vene, “Io non sono una merda, d’accordo? Ho le mie ragioni, i miei problemi, e tu non sai un cazzo di me. Mi hai salvata, sì, ma in questo gioco, in questo reality, io non vi conosco, non so niente di voi. Potresti pure essere una complice delle Erinni.”
“Una cosa?! Son saltata addosso a una di loro, è caduta con noi, la bestia l’ha presa, è morta! È come se l’avessi ammazzata io! E complice per chi, per cosa? Ti senti quando parli?”
Silenzio, qualche istante di livore reciproco.
“Perché non ti hanno toccata? Ai pali, ieri sera,” mostro la bigiotteria infissa nel mio labbro, nel mio naso, con un gesto rabbioso, “Guarda cosa mi hanno fatto! A Rita, a quella troia di Candy! Ma a te no, a te no, perché?!”
“Non ci arrivi?”
“No!”
“Atreja voleva dividerci. Mettere sfiducia tra noi, in modo da rendere più difficile cooperare, essere unite, in un momento delicato come quello. E tu ci sei caduta subito, perché certo, una come te come fa a non caderci in questi giochetti?”
“Tu non sai un cazzo di me.”
“Appunto!” Chiude gli occhi per un istante, normalizza il respiro. “Appunto. Ma Atreja sa parecchio, su tutte noi: fatti due domande.”
Silenzio.
Se qualcosa mi s’insinua nella mente, un pensiero anomalo, un dubbio feroce, sopprimo tutto: implicazioni troppo grandi, dati che non possiedo. Non è il luogo né il momento per approfondire.
“Va bene,” scandisco con la migliore, poca diplomazia della quale dispongo, “Va bene. Lasciamo stare tutto, per ora. Adesso dobbiamo pensare a toglierci di qui. A trovare un posto sicuro, uno dove restare nascoste e riorganizzare le idee.”
Il suo viso, splendido e bagnato come i capelli platinati che le si sono incollati addosso, è segnato d’una certa rassegnazione. “Non abbiamo armi. E siamo nude,” si copre il seno con un braccio.
“Inventerò qualcosa, d’accordo? Anche per i vestiti. Adesso dobbiamo solo capire dove,” mi volto intorno, con la boscaglia che si stende in tutte le direzioni, più o meno rada, “Che direzione prendere, dove sia più sicuro andare. E trovare un rifugio.”
“Vuoi andare in giro così?!”
“Hai un’alternativa? Vuoi stare qui a mollo finché non passano dei vestiti puliti?”
Lei espira, ravvia i capelli, si inginocchia nell’acqua per pudore, per coprirsi. “Non sappiamo neanche dove siamo. I pad con la mappa erano negli zaini. Non abbiamo nulla, più nulla.”
***
Gioele Palazzese entrò nella penombra della Sala di Controllo. La luce dei grandi schermi e dei molti più piccoli che vi gravitavano intorno diffondeva nella stanza un chiarore soffuso, candido, innaturale.
Pierantonio Di Marzo, responsabile del monitoring, si voltò verso la porta a guardarlo: c’era un che di anomalo nel suo sguardo, una punta di sollievo e forse qualcosa di più profondo, qualcosa che adombrava più dei riflessi del monitor il suo volto giovanile, barbato, dalla mascella forte.
Gioele lo raggiunse alla postazione dopo aver rivolto un cenno agli altri quattro tecnici alle rispettive scrivanie.
“Hai visto?” Pier si tolse le grandi cuffie candide, “Hai visto che roba?”
“Sì. Sono qui per questo.” Gioele fissò per un attimo le figure di Mercury e Radiosa nel grande monitor dedicato di Pier, per metà immerse nell’acqua del fiumiciattolo, il loro parlare fitto. “Come è stato possibile?”
“Intendi la croce?”
“Intendo la croce.”
Pier scosse la testa. “Non c’è un motivo, nessuno logico. C’è anche stato un disturbo sul segnale video, in quel preciso momento, l’hai notato?”
“Non ci ho fatto caso.”
“Un disturbo del segnale quando ha alzato la croce. Si è schiarito tutto per un attimo, abbiamo dovuto regolare i filtri luminosi, poi è tornato a posto. Anomalo, non era mai successo.”
Silenzio. Gioele giunse le mani davanti alle labbra. “Un sauro può arretrare di fronte a una piccola croce di metallo?”
“Non… vedo la ragione, no, ma ci sarà. Sarà stato abbagliato da un riflesso, o era sazio, dopotutto aveva due cadaveri freschi. Una spiegazione c’è per forza.”
“Io ho visto un Baryonyx walkeri tentennare di fronte a una croce quasi come se ne avesse paura, un po’ come dire che Dio ha protetto quelle due creature, e noi sappiamo che queste cose non possono succedere, no? Non s’è mai vista al mondo una cosa del genere, Dio non protegge donne e bambini dai peggiori massacri, per cui non proteggerà neanche una specie di religiosa da un mostro preistorico, corretto?”
“Ti direi che non fa una piega. Ma ti direi anche che da qualche milione di anni non s’è mai visto al mondo neppure un Baryonyx walkeri, dunque non so quale delle due cose sia più probabile.”
Gioele si mordicchiò un labbro, lo sguardo vagato intorno, inseguendo pensieri illogici. Tutti i tecnici del monitoring lo stavano osservando come in ipnosi.
Lui si accostò di più al grande schermo, alle due figure nude e intente a discutere: passò le dita a un nulla dalla superficie, sul candore di Radiosa, come potesse sfiorarla anche da quella distanza.
“Fatemi parlare con loro.”
“Sei serio?”
“Fatemi parlare con loro. Abbiamo un trasmettitore in quella zona, qualcosa?”
“Non lì dove stanno,” Pier armeggiò per un attimo con la tastiera, aprì una mappatura e digitò gli input necessari, “Ho un punto di contatto mezzo chilometro più su, lungo il fiume: se lo raggiungono potrai parlarci.”
“Possiamo guidarle lì?”
“Possiamo usare i segnali luminosi.”
“Usateli. E coprite la ripresa, non voglio che si vedano parlare con noi.”
“Tagliamo questa parte.”
***