Torino, domenica 3 novembre 1929 ore 08:30
TARIFFARIO PRESTAZIONI
SEMPLICE… ₤1,50
DOPPIA… ₤2,50
¼ D’ORA… ₤3,16
½ ORA ….₤5,00
ASCIUGAMANO E SAPONE ₤0,5
ORD. N 871 ANNO 1929 (VIII) E.F.
Aurelio De Santis, maresciallo dell’Arma dei Carabinieri, chiude l'ombrello, spinge il portone di legno ed entra nella villetta a due piani in stile liberty.
A quell'ora del mattino la casa di tolleranza "Il Pomo di Eva" di Corso Raffaello è deserta.
Appena mette piede nell'ingresso, il silenzio viene interrotto dalle note di "Giovinezza".
Sposta lo sguardo su un'elegante voliera in ferro battuto alla sua destra.
“Nella vita e nell'asprezza
Il tuo canto squilla e va…"
Un merlo indiano, nero come le camicie celebrate da quella marcetta, gli dà il suo personale benvenuto.
«Maresciallo!»
Una donna scende con passo pesante la scala che porta al piano superiore, ansimando.
«Meno male che siete qui! Vi ho fatto chiamare non appena… Mon Dieu, che tragedia!»
De Santis riconosce Madame Estelle, la tenutaria. Cinquant’anni portati male, altrettanti chili di troppo e un pallore che, nonostante il belletto, mette in bella evidenza le occhiaie scure.
«Dov’è?» chiede.
«Fuori, al lavatoio. Suivez-moi, vi faccio strada.»
In città corrono voci che Madame Estelle sia un’ex ballerina del Moulin Rouge caduta in disgrazia. Secondo De Santis, invece, è tutta una farsa. La ruffiana è francese tanto quanto lui e, al massimo, potrà aver ballato alla festa di San Giovanni.
Escono in cortile e si dirigono verso un capannotto in muratura che funge da lavanderia a uso domestico.
Appena entrato nel lavatoio, il maresciallo nota Alfredo Nobili, il medico del paese. Sta fumando appoggiato a un grosso lavabo in marmo ma, quando lo scorge, spegne il toscano e lo saluta.
«Maresciallo, buongiorno. Venga, da questa parte.»
De Santis apprezza che il dottore abbia usato il "lei" invece del "voi" tanto amato dai membri del Partito. Il medico si dirige verso uno sgabuzzino alto più di due metri e mezzo e abbastanza profondo, ricavato da una nicchia nel muro.
«È qui. Non l'ho spostata, mi sono limitato a misurare il polso per verificare il decesso.»
Dentro lo sgabuzzino, appeso a una trave, c'è il cadavere di una giovane donna.
«Mi aiuti a tirarla giù, per cortesia dottor Nobili.» La liberano dalla corda e la adagiano sul pavimento in pietra.
«Che peccato, una ragazza così bella!» commenta il medico.
De Santis annuisce. È davvero una delle ragazze più belle che abbia mai visto. Alta, mora. Un viso d'angelo e due gambe che non finiscono mai.
Nobili la esamina in cerca di contusioni e ferite, soffermandosi sul collo.
Il maresciallo, invece, ne approfitta per ispezionare meglio lo sgabuzzino.
Carponi tra tinozze, saponi e asciugamani puliti, nota un oggetto metallico luccicare a terra.
«Questo di chi è?» In mano stringe un orecchino ovale, del diametro di un paio di centimetri.
La tenutaria si avvicina.
«Non lo so. Qualcuna delle ragazze lo avrà perso.»
De Santis lo osserva, poco convinto. Non che lui se ne intenda di gioielli, è roba da donne, ma sa distinguere i preziosi dalla bigiotteria. Quello che ha in mano sembra proprio oro, con incastonata al centro un'elegante pietra rosso scuro, probabilmente granato. Non il genere di cose che una prostituta indosserebbe.
«Signora, potrebbe mostrarmi la stanza della ragazza?»
«Certo, andiamo di sopra»
Escono dal lavatoio e, fatti pochi passi, il maresciallo nota che la recinzione della proprietà è interrotta da un cancelletto di ferro alto circa un metro e trenta.
«Questa cos’è, un’entrata di servizio?»
«Sì, lo era quando hanno fatto costruire questo immobile, ma io la tengo sempre chiusa a chiave.»
De Santis saggia la tenuta del cancello. È mezzo marcio, volendo lo si potrebbe aprire con un paio di calci ben assestati. In ogni caso, riflette, un uomo abbastanza giovane e di media statura non avrebbe alcuna difficoltà a scavalcarlo.
La stanza della vittima si trova al piano superiore della villetta.
Non è grande ma, all'apparenza, decorosa e pulita. L'arredamento è essenziale ma non privo di eleganza. Un letto in ferro battuto, due comodini e un armadio a due ante posto di fronte al letto. Di fianco all'armadio, una consolle con specchiera.
Non si può dire che lì dentro regni l'ordine ma non c'è nulla che faccia pensare a una colluttazione.
Negli stipi della consolle, gli attrezzi del mestiere. Cipria, rossetti, belletti di ogni tipo. Ma anche orecchini (questi sì, di bigiotteria) preservativi e olio lubrificante.
Nell’ultimo cassetto, qualche lettera ricevuta dalla famiglia e un taccuino per annotare le piccole spese.
Le lenzuola sono in disordine, ma si tratta pur sempre della stanza di una prostituta. No, per quel che De Santis può vedere, qui non ci sono segni di colluttazione o violenza. Nessuna traccia di sangue o altro che faccia pensare che la vittima sia stata uccisa lì.
«Spiegatemi un po'...» dice il maresciallo seduto alla consolle in stile Impero posta all'ingresso della casa di tolleranza, «come si chiamava la ragazza e quanti anni aveva?»
«Si chiamava Rosaria, il cognome non lo so. Aveva ventun'anni ed era meridionale. Siciliana, credo.» risponde Madame Estelle.
«Chi l'ha trovata?»
«L'ha trovata la signora.» interviene Nobili. «Io sono arrivato stamattina, poco dopo le 8:30 per i controlli periodici. Sa, il rispetto delle norme igieniche, le condizioni di salute delle regazze...»
«Sì, vada pure avanti»
«Quando ho chiesto alla signora di chiamare le ragazze per la visita medica, sono scese tutte tranne Rosaria.»
«Pensavo che fosse nella sua stanza a riposare, come le altre.» puntualizza la tenutaria «Ma non c'era.»
«E allora che ha fatto?»
«Sono scesa a controllare se fosse al lavatoio. È stato allora che ho visto lo sgabuzzino semiaperto.»
De Santis prende una delle nazionali senza filtro che porta sempre con sé e la accende.
«Da quanto lavorava qui?»
«Dodici… no mi scusi, tredici giorni.»
«Ne è sicura?»
«Bien sûr, tra due giorni ci sarà il cambio.»
«Il cambio?»
«Le ragazze, vous savez, ogni quindici giorni le cambiamo. Vanno a lavorare da un'altra parte e arriva un nuovo gruppo che le rimpiazza. Per evitare indiscrezioni e problemi, lei capisce.»
Certo che ha capito. Le ragazze non fanno in tempo a conoscere i clienti abituali che subito vengono mandate a esercitare altrove. Quale migliore garanzia di discrezione e riservatezza?
«Quindi non è possibile che Rosaria possa avere incontrato un cliente diciamo… troppo assiduo, uno che si fosse invaghito di lei?»
«Mais non, lo escluderei.»
«Quante sono le ragazze che lavorano qui?»
«Cinque. Sei, con la povera Rosaria.»
«Le vada a chiamare, vorrei interrogarle. Una alla volta, se non le dispiace.»
Mentre Madame Estelle sale di nuovo le scale, non senza difficoltà, il dottor Nobili si rivolge al maresciallo con un filo di voce.
«Maresciallo, dovrò eseguire un'autopsia ma posso già dirle che non si tratta di suicidio.»
«Come lo ha capito?»
«Ha le vertebre cervicali fratturate, ma gli ematomi presenti sul collo non sono compatibili coi segni che la corda avrebbe dovuto provocare.»
«Significa che quando gliel’hanno stretto alla gola era già morta?»
«Esatto. Il sangue non scorreva più.»
De Santis non ne è stupito. Anche a lui quella faccenda è sembrata da subito molto strana. Perché suicidarsi proprio in quello sgabuzzino, per quanto alto e capiente, quando si ha a disposizione la propria stanza?
«E con cosa sarebbero compatibili i lividi, secondo lei?»
Il dottore apre la mano destra mostrando le cinque dita aperte.
«Pensa che l'abbiano strangolata?»
«Sarò più preciso dopo l'esame autoptico ma sì, gli ematomi a mio parere sono stati provocati da mani che hanno stretto con forza, fino a ucciderla.»
De Santis congeda l'ultima ragazza con un cenno della mano. Dagli interrogatori non è riuscito a ricavare granché.
Rosaria, in vita, sembra essere stata un tipo solitario e riservato, poco incline a socializzare con le "colleghe", se così le si può chiamare. Le ragazze non si sono mostrate troppo addolorate per la sua scomparsa, a dire il vero. Sembra che tutte quante, chi più chi meno, provassero nei suoi confronti una sorta d’invidia di cui al maresciallo, per il momento, sfuggono le motivazioni.
«Direi che qui ho finito. Prima di andare, però, avrei bisogno di sapere chi è stato l’ultimo cliente di Rosaria.»
«Maresciallo, per questioni di riservatezza io non posso…» Madame Estelle impallidisce ancora di più.
«Signora, ho bisogno di quel nome. Lo devo sentire come persona potenzialmente informata sui fatti, non è accusato di nulla, al momento.»
«Ma si tratta di un cliente, comment dire, particolare.»
«Forse non sono stato chiaro. Se non mi fornisce quel nominativo sarà lei a essere accusata di intralcio alla giustizia.»
La donna rassegnata, prende un pezzo di carta e scarabocchia un nome.
Il maresciallo appena lo legge, serra le labbra emettendo un flebile "uhm".
«Devo tornare in caserma adesso. Lei si tenga a disposizione e se le viene in mente qualcos'altro me lo faccia sapere.»
De Santis recupera il cappotto dall'attaccapanni all'ingresso. Ha appena cominciato ad allacciare il primo bottone quando:
“Suoni la tromba, intrepido, io pugnerò da forte, bello è sfidar la morte gridando libertà...”
il merlo indiano comincia a cantare.
«Le piace Bellini?» domanda stupito che una donna di quel mestiere si interessi all’opera.
«Chi?» chiede Madame Estelle.
«Bellini. La sua gracula ha appena cantato una famosa aria da I Puritani.»
«Ah non, pas du tout. Non gliel'ho insegnata io, neanche so chi sia questo Bellini. Avrà sentito qualche cliente che la cantava, ripete tutto quello che ascolta.»
Domenica 3 novembre 1929, ore 16
Aurelio De Santis è seduto alla scrivania. La pioggia batte insistente sulle vetrate della caserma. Fa accomodare l'uomo vestito di nero mentre pensa a come cominciare il discorso.
«Signor prevosto, l'ho fatta convocare per una faccenda molto delicata. In primo luogo, voglio rassicurarla. Questo è un colloquio strettamente riservato e quanto mi dirà non uscirà da questo ufficio.»
L'uomo lo interrompe con un gesto della mano.
«È per quella faccenda della ragazza morta al Pomo di Eva, vero?»
De Santis annuisce, sollevato che il parroco sia andato subito al punto.
«Sì. Ammetto, non senza un certo imbarazzo, che quella sera ero lì. E che ho avuto, diciamo, un incontro con la ragazza.» continua il sacerdote.
«Signor prevosto…»
«No. Mi faccia finire, maresciallo. È vero, ho peccato e di questo renderò conto a Dio, quando sarà il momento. Ma giuro su Nostro Signore che non ho ucciso io quella poveretta.»
Il colloquio viene interrotto da due colpi alla porta. Il piantone di turno si affaccia, costernato.
«Maresciallo, mi scusi, c'è una telefonata per lei. Il signor podestà.»
Domenica 10 novembre 1929
Che il prevosto avesse un debole per il sesso femminile e non disdegnasse una visita al Pomo di Eva, di tanto in tanto, era il classico segreto di Pulcinella.
Ma cosa poteva averlo spinto a uccidere Rosaria? Forse la ragazza lo stava ricattando? Però, se le cose stavano così, perché non rivolgersi a Madame Estelle, invece di strangolarla? No, il ricatto non lo convinceva del tutto come movente. E poi non aveva nessuna prova.
«Aurelio? Aurelio, mi stai ascoltando?»
De Santis torna di botto sul pianeta Terra e si trova di fronte sua sorella, intenta a sparecchiare.
«Come?»
«Ti ho chiesto se vuoi un caffè.»
«No grazie, a posto così. Complimenti per la cena, era tutto buonissimo.»
«Sei distratto stasera. Problemi al lavoro?»
Esce sulla veranda e si accende l'ennesima nazionale.
Ha mentito. Non è stanchezza la sua, ma preoccupazione.
Il podestà gli ha telefonato in caserma ben quattro volte negli ultimi cinque giorni. Non vuole scandali e preme affinché la morte di Rosaria venga archiviata al più presto come suicidio. Ma è fin troppo chiaro che quella ragazza è stata ammazzata. L'autopsia ha confermato lo strangolamento e sta a lui trovare il colpevole. Solo che, a una settimana dal ritrovamento del cadavere, ancora non sa dove sbattere la testa.
In cortile, suo nipote Riccardo sta aggiustando la sua Bianchi.
«Bella, vero zio?» gli fa il ragazzo, dando una pacca sul manubrio della bici.
Il maresciallo tira una lunga boccata di fumo.
«Non sei di molte parole stasera. È per l'omicidio di Rosaria?»
«E tu che ne sai, la conoscevi?»
«Sì e no.»
«Che vuol dire?»
«Eh zio, bella com'era la conoscevano tutti in città. Almeno di fama.»
De Santis squadra il nipote. Ha già diciott’anni, anche se sua madre lo vede ancora come un ragazzino con le braghe corte. Non si stupirebbe se anche lui, sporadicamente, usufruisse dei servigi del Pomo di Eva.
«Senti zio, se ti dico una cosa prometti che non ne parli con mamma?»
Il maresciallo lo incita a proseguire con un gesto della mano.
«Ecco vedi, io e i ragazzi, una volta a settimana facciamo una gara.»
«Una gara?»
«In bicicletta. Si parte da Porta Palatina, chi arriva primo a Corso Raffaello vince.»
«E cosa vince?»
«I soldi di una marchetta.»
«Ah. E tu vai… voglio dire, vinci spesso?»
«Sono un buon corridore, lo sai.» sorride Riccardo»
«Però dicono che uno di noi si sia fatto un po' prendere negli ultimi tempi.»
«Spiegati meglio.»
«Sembra che questo mio amico avesse perso propriola testa per Rosaria e che lei ricambiasse. Tanto che si vedevano tutte le sere dopo che lei… insomma dopo che aveva finito di lavorare.»
«Sono voci o notizie certe?»
«No, me lo ha confidato proprio lui.»
«E chi sarebbe questo amico?»
«Doro. Doro Ferraris.»
«Il figlio del podestà?»
Lunedì 11 novembre 1929
Teodoro Ferraris, detto Doro, un armadio alto un metro e novanta, fa quasi impressione. Rannicchiato al tavolo della cucina di casa sua, si direbbe un bambino troppo cresciuto.
«Giuro che non sono stato io.»
Il maresciallo, seduto davanti al ragazzo, sorseggia malvolentieri una tazza di carcadè. Il “tè degli Italiani”, a lui sembra solo una brodaglia troppo dolce. Gli è stato offerto per pura cortesia, ma è chiaro che la sua visita non è affatto gradita.
«Io Rosaria la amavo. Non avrei mai potuto farle del male.» continua il giovane.
Pam!
Uno schiaffo risuona,implacabile, sulla guancia di Doro
«Ma non ti vergogni?» Sua madre, Adele Giraudo in Ferraris, un donnone di 170 cm, muscoli da massaia e spalle da facchino, inveisce contro il figlio. «Non ti rendi conto che stai coprendo la tua famiglia di ridicolo e di vergogna? Amare una donna di malaffare, sei uscito di senno?»
Doro si massaggia la guancia.
«Mamma…»
«Taci, che come ti ho fatto, ti disfo.»
«E voi?» punta il dito contro De Santis, «Come vi permettete di venire a gettare fango su una famiglia rispettabile come la nostra?»
«Signora cercate di calmarvi.» il maresciallo posa la tazza.
«E anche tu, puoi stare tranquillo» dice al ragazzo. «Come ho già detto non sei accusato di nulla, voglio solo sapere qualcosa in più di te e Rosaria. Anzi, che ne dici se usciamo fuori? Ti offro una sigaretta.»
Sulla veranda, Doro sembra rincuorarsi un po’ e comincia a parlare.
«Maresciallo, mia madre non ci crede che io provi dei sentimenti per Rosaria. Secondo lei dovrei pensare solo a sposare una brava ragazza, che faccia quanti più figli possibile da dare alla patria. Perdoni la sincerità, ma io a volte non la sopporto proprio. È persino peggio di mio padre, con tutto che lui pensa solo alla sua carriera politica.»
De Santis annuisce. È noto che la "signora podestà" sia una fascista ancor più convinta del marito.
«Ma mi creda almeno lei,» continua Doro, «Io Rosaria l'amavo veramente. Avrei fatto di tutto pur di farle cambiare vita. Sarei stato disposto anche a lasciare la mia famiglia e la città, ma lei non ne voleva sapere.» conclude con le lacrime agli occhi.
Se il giovane Ferraris sta fingendo, è davvero un attore eccezionale.
«Quando l'hai vista per l'ultima volta?»
«La sera stessa della sua morte.»
«Vi incontravate al lavatoio, non è vero?»
Il ragazzo fa sì con la testa, imbarazzato.
«Quella sera avevamo anche avuto una piccola discussione.»
«Perché?»
«I soliti motivi. Lei diceva che dopo la sua partenza avrei dovuto mettere la testa a posto e sposare una donna onesta. E io non volevo che lei partisse.»
«Hai notato qualcosa di strano quella sera, qualcuno che si aggirava attorno al Pomo di Eva?»
«Sì. Adesso che mi ci fa pensare, mentre mi allontavo mi è parso di sentire qualcuno canticchiare. Ma ho pensato a qualche ubriaco che rientrava a casa.»
«Torniamo dentro ti va? Qua comincia di nuovo a piovere.»
«Maresciallo, ancora qui?» Adele esce dalla cucina, le mani sui fianchi.
«Signora, sto solo facendo il mio lavoro.»
«E fareste bene a occuparvi di faccende più importanti del suicidio di una sgualdrina.»
«Di cosa mi debba occupare io non sono affari che vi riguardino.» De Santis si accomoda sul divano del salotto.
«Ho bisogno di parlare anche con vostro marito, non vi dispiace se lo aspetto qui, vero?»
Il maresciallo prende, dal tavolino da tè, una cornice in argento con una foto che ritrae Il podestà e sua moglie il giorno del battesimo di Doro.
«Posso chiedervi una cosa, signora?»
Adele lo squadra spazientita, le braccia incrociate.
«Gli orecchini che indossate in questa foto, sono d'oro?»
«Oro e granato. Un cimelio di famiglia, perché?»
«Niente. Volevo fare un regalo a mia moglie.» De Santis esibisce un sorriso innocente. «Tra poco festeggiamo dieci anni di matrimonio e volevo farle una sorpresa. E siccome noi uomini di queste cose non ne sappiamo nulla…»
«Sono un pezzo unico. Li indosso solo in occasioni speciali.»
«Capisco. A proposito, lei e suo marito domenica sera dove eravate?»
«A teatro, a vedere l'opera.»
«Che opera davano?»
«I Puritani di Bellini»
«Interessante! E siete tornati subito a casa dopo la rappresentazione?»
«Sì. Ma non vorrà mica insinuare che...»
«Io non insinuo proprio nulla.»
Il maresciallo posa la cornice e un’idea comincia finalmente a balenare nel suo cervello quando:
“Suoni la tromba e intrepido, io pugnerò da forte…”
La porta si apre, il podestà Guerrino Ferraris entra in casa, canticchiando. Petto in fuori, mento all’insù, un’andatura che ricorda molto il passo dell'oca.
«Maresciallo, che ci fate qui?»
De Santis controlla di avere ancora abbastanza sigarette. La giornata si preannuncia lunghissima.