Il campo base delle Squinternate del Bosco è una piccola area celata tra le boscaglie lì intorno. Siamo più in alto del punto da cui abbiamo osservato il forte, ma non c’è alcun tipo di visuale.
Si tratta di una semplice radura, addossata ad alcune rocce coperte di muschio, nelle quali si apre una piccola caverna che usano per dormire. Saranno una decina di metri quadrati di prato e qualche cespuglio delimitati da ampie pietre messe una ogni tre o quattro metri, nell’erba. Non c’è un perimetro, un confine, un recinto. Nulla.
Il cielo è ormai scuro anche se qualche venatura rosata, postumi del tramonto, s’intravede sopra di noi, nel paesaggio quasi sgombro d’alberi.
Sediamo da brave accanto all’ampio falò che sta prendendo coraggio e colore, riempito di rami e sterpaglie, scaldando l’aria e illuminando l’intera zona. Fiaccole vengono accese e portate ai confini dell’area, per illuminarne i bordi.
Non ci hanno slegate. Non lo avrei fatto neanche io al loro posto.
Le nostre armi giacciono gettate non troppo distante, forse raggiungibili con tre o quattro passi decisi: doveroso farci un pensiero qualora le cose si mettessero male.
Loro, la Gang-Bang del Bosco, se ne stanno lì intorno, a guardarci e sistemare le cose per la sera. Dobbiamo essere una novità non da poco nelle loro vite in qualche modo assuefatte a Illumina, perché sono assuefatte, intrise, della sottile follia dell’isola. Lo si vede nei loro sguardi, nelle espressioni, nel modo in cui si parlano e interagiscono.
Non dovevano essere così nell’altro mondo, quello al di là del mare.
“Come fate a tenere lontane le bestie senza quattro pareti intorno?” Chiedo per rompere il ghiaccio e perché lo stare sedute in mezzo al niente m’innervosisce.
La rondine sorride benevola, mi squadra, accenna col capo. “Vieni, ti faccio vedere.”
Mi alzo, senza fretta, Lucilla e Sigrid mi rivolgono uno sguardo che sa di supplica di non esser lasciate sole. Lei mi prende per un braccio, ci avviamo verso il limite illuminato della radura.
“Non ci sono molte cose grosse qui, il pericolo sono quelli piccoli e bastardi.”
“Okay, e come fate a non farvi saltare addosso mentre cazzeggiate vicino al fuoco?”
Mi porta vicino a una delle pietre che dettano la forma del perimetro: la superficie è leggermente concava, forse scalpellata per dare maggiore profondità.
L’odore che mi assale i sensi è qualcosa che conosco ma che non afferro, come quando entri in una cucina in piena attività: senti, sai, ma non ti viene il nome.
Un aroma che conosco.
“Cannella.”
Sì, è fottuta cannella. La guardo di storto. “Mi prendi per il culo?”
“Affatto. La cannella tiene lontani i sauri, grandi e piccoli. Non si avvicinano.”
“Mi prendi per il culo.”
“Fidati. A volte arrivano fino qui, al bordo, a guardarci, ma non superano il confine.” Sbatte il piede sulla linea immaginaria che va da una pietra all’altra. “Gli puoi stare davanti, anche a un metro, non ce la fanno a varcare il limite. Qui,” saltella al di là del bordo, “Sei carne morta. Qui,” rientra dentro, “Sei come nel caveau della Banca d’Italia.”
Assurdo.
La cannella.
“E come… come cazzo è possibile questa cosa?”
“Gli frizza nel naso.”
“Gli frizza nel naso.”
Annuisce grave.
“Quindi non varcano la linea perché la cannella gli frizza nel naso.”
Annuisce ancora più grave.
“Dio santissimo.”
“È una delle prime cose che impari quando ti ambienti qui.” Si china accanto al grosso sasso. “Fai così: prendi le mele verdi, si trovano facile in giro. Cioè non so se sono proprio mele, ma ci somigliano; le sbucci, le fai a poltiglia, poi ci mischi dentro la cannella in polvere. La mela serve a darti il combustibile. Metti tutto dentro una pietra cava, o una ciotola, quello che hai, e fai bruciare per un po’, poi spegni. L’odore dura anche tutta la notte.”
“E funziona?”
“Cazzo, sì! A volte vediamo i branchi di quelli neri, i Troodon, che passano a filo del confine e tirano oltre. Funziona sicuro, con tutte le bestie. Siamo qui da mesi e non ci è mai successo nulla.” Pausa. “C’è solo un problema in tutto questo.”
“Sarebbe?”
“Non devi mai restare senza cannella. O senza mele.”
“Mi sembra giusto.” Pensieri profondi. “E dove la trovi la cannella?”
“In giro. O la ricevi coi rifornimenti. È un bene primario qui.”
“E ci credo.”
Si rialza, occhi fissi nei miei; il sorriso è scomparso. “Sei tu la leader della tua Ondata?”
Vago lo sguardo. “Non da molto.”
“Da leader a leader,” il tono si fa più grave, controlla verso le altre che ci osservano di sottecchi, senza poterci ascoltare. “Con le Erinni lasciate stare. Sul serio. Non ce la potete fare, non senza un esercito alle spalle.”
“Non abbiamo niente da perdere.”
“Oh, ce l’avete. Puoi fare la gradassa qui, ma se quelle ti prendono, se Atreja ti prende, rimpiangerai di non esserti sparata in bocca quando ne hai avuto l’occasione.”
Atreja ci ha già prese. Ho già rimpianto di non essermi sparata in bocca e se mai ci riprenderà stavolta mi sparerò sul serio. “Non mi avranno viva.”
“Vuoi un consiglio? Lascia perdere questa cazzata. Lo show è già vinto, non c’è competizione possibile, non contro di loro.” Si batte l’indice sulla tempia. “Sii furba. Nascondetevi, fatevi una vita da qualche parte su quest’isola, non date loro fastidio. Quando arriverà una nuova Ondata, quando le loro priorità cambieranno, allora forse si dimenticheranno di voi e avrete una possibilità di arrivare a vedere la fine del gioco.”
Alzo di spalle. “Non sono così forti queste Erinni se con voi sono scese a patti.”
La mano di lei scatta, mi serra il bavero: in altre situazioni avrei già reagito di ginocchio, mi trattengo. Il suo sguardo allucinato s’incolla nel mio.
“Non sono loro a essere scese a patti.” Abbassa ancora di più il tono fino a un raschio stridulo, gli occhi dilatati. “Ci siamo piegate noi quando sono morte le altre. Ci siamo arrese per avere clemenza, perché pensavamo fosse solo un gioco alla guerra.” Pausa orribile. “In cambio della salvezza Atreja mi ha fatta sfilare nuda e al guinzaglio, come un cane. Si è presa la mia dignità, capisci, l’ha regalata a tutta la rete. E non solo. Si è presa anche una di loro.” Altra pausa. Gli occhi le brillano di un lucore alieno che è il riverbero del falò mentre accenna verso le compagne e poi la caverna, dove un cappuccio a forma di panda giace appeso a un bastone. “L’ha presa come tributo per la nostra lealtà; l’ha presa e l’ha torturata per giorni, fino alla morte, e noi sentivamo le grida, anche per ore. Lo faceva per ricordarci che eravamo in debito con lei, che le dovevamo la vita. C’era da uscirne pazze.”
Brivido freddo. “Mi dispiace.”
La sua mano lascia la presa, ravvia i capelli ai lati del cappuccio con un gesto teso, poi sorride, di nuovo in quel modo insano, come se la maschera di follia avesse ripreso a coprire gli orrori del recente passato.
“Tania,” umetta le labbra, “Gazza Ladra qui in Illumina.”
Sollevo un sopracciglio, “Non eri una rondine?”
“Come cazzo faccio a sembrarti una rondine?”
“Non lo so, non conosco gli uccelli.”
“Li prendi solo in mezzo alle gambe, ah?” Ride di getto, in quel modo stupido e odioso di prima. Reprimo la voglia di ficcarle una testata.
Mi tende la mano per la stretta, poi realizza, mi volta con un gesto brusco; una lama di coltello s’incunea tra le corde, le slaccia, mi ritrovo libera. Accetto la stretta con qualche diffidenza. “Mercury. Vabbé, Silvia.”
Ritorniamo verso le altre e verso il fuoco; la stretta deve aver rilassato gli animi, Lucilla e l’altra appaiono un po’ meno tese.
“Non ci ammazzate, quindi?”
“Siete simpatiche,” replica, “Ma ci sono alcune cose che dobbiamo discutere, prima.”
La seguo accanto al falò, dove siede e mi fa cenno di sedere a mia volta. Le altre quattro componenti della Gang si avvicinano, la volpe siede con noi, così il procione. Lo scoiattolo s’appoggia a un masso lì accanto, a braccia conserte. La lepre, l’ultima, rimane in disparte, arco in mano, a tenere d’occhio la situazione.
“Lei è Foxx, lei Jade.”
Jade, il procione, è una ragazza giovane, non molto alta, dal viso tondo, gli zigomi pronunciati, le labbra quasi disegnate, come le sopracciglia e gli occhi. I capelli, neri e lisci, le spiovono fuori dal cappuccio come a tutte le altre. Saluta con un cenno da salotto.
“Lo scoiattolo è Ginger, o Nancy.”
Ha un bel viso e un bel corpo, ma forse è la più anonima delle cinque. I capelli sono chiari, sul biondo, e la faccia non ha tratti particolari eccetto una lievissima carezza di lentiggini.
“Lei è la Sabri, Saetta,” allude alla lepre che è rimasta in disparte: è bassa, più delle altre, esile, dal viso stretto ma in qualche modo conturbante, un piccolo piercing blu al naso. I capelli, di un biondo cenerino, li porta raccolti in un’unica treccia che le spiove su una spalla. Sopra al cappuccio ha due orecchie mezze flosce, bianche, come quelle dell’animale che imita.
In ognuna c’è tanta insensatezza quanta sofferenza nascosta; devono averne passate parecchie in questi mesi, anche se riescono a celarlo dietro quei costumi ridicoli o le risate prorompenti.
“Radiosa e Artemis,” presento le due giocatrici passive che mi sono toccate in sorte, “Posso slegarle? Sennò mi si deprimono.”
Fa segno di no. “Abbiamo una proposta in sospeso.”
“Certo.”
“Se vi aiutiamo,” la Gazza apre le mani beffarda, “Le Erinni si vendicheranno. Per noi vuol dire rompere il patto e firmare la condanna a morte, o peggio. Vuol dire rinunciare al nostro status. Perché dovremmo farlo? Per fare una cosa folle? Qui è tutto folle. Anche sopravvivere è un atto folle, perché volere di più?”
Alzo una mano, conciliante. “Fammi capire. Per quale motivo le Erinni vi hanno risparmiato? Le avete supplicate, d’accordo, ma perché concedervi questa non belligeranza quando potevano farvi a pezzi?”
“Siamo loro utili: conosciamo i boschi intorno al forte, li controlliamo per loro. Atreja vuole solo questo da noi.”
“E lei non vi attacca.”
“Ci paga in risorse anche, se portiamo oggetti di valore, armi, informazioni. O prigioniere. Quelle le paga più di tutto il resto.” Lo sguardo della Gazza incupisce, riverbera le fiamme. “Le odio. Odio Atreja più di ogni altra cosa, vorrei vederle morire tutte. Ma consegnarvi sarebbe la cosa più facile e redditizia.”
“Fallo allora.” Apro le braccia. “Fallo. Consegnaci, fatti pagare, e riprendete la vostra vita così com’era prima d’incontrarci. Aspettate le prossime sfigate disarmate che vi capiteranno a tiro, rapitele, consegnatele e ricominciate da capo. Non cambiate una cosa, una, nel vostro mondo, e niente cambierà mai. Continuate a baciare il culo alle Erinni e niente cambierà mai. Se volete che qualcosa cambi, un’occasione è adesso.”
Scende un silenzio adorabile.
“Per rompere con le Erinni,” la volpe si poggia le mani sulle ginocchia, sembra la caricatura d’un capo indiano, “Servono garanzie. Idee. Non bastano i discorsi tamarri.”
“Per avere idee servono conoscenze. Voi le avete, io ci metto le idee.”
“E chi cazzo sei tu per avere le idee giuste?”
Fastidio. Giocherello con la lingua tra i denti. “Una cosa alla volta, d’accordo? Partiamo dalle basi.” Indico dietro di me, alla boscaglia e la direzione virtuale della fortezza. “Il forte. Chi lo ha costruito?”
“C’era già quando siamo arrivate noi,” replica la Gazza, “Le Erinni lo avevano già occupato. Non lo hanno costruito loro.”
“Chi allora?”
Alza le spalle e sorride sardonica. “L’isola è talmente piena di domande senza risposta, cara, che c’è da farsi venire il mal di testa. Ovunque ti giri ci sono cose che non hanno senso di stare qui, però ci sono. Come le bestie. Che senso hanno le bestie? Però ci sono.”
“Okay, parliamo delle bestie. Sono vere?”
Mi guarda, si guarda con la volpe, col procione. “Pensi che siano finte?”
“Non so cosa pensare, ultimamente.”
“Le bestie esistono. Galena le ha create a sua immagine e somiglianza. Non mettere mai in discussione le bestie: l’isola non te lo perdonerà.”
Entriamo di colpo nella fase delle espressioni da cinema. L’isola non te lo perdonerà. È seria? Recita? Odio già tutto il discorso. “Senti: l’isola è un set da cinema oppure è solo una dannata isola.”
Silenzio.
Scoppiano a ridere di quella risata multipla idiota e tutt’altro che contagiosa.
“Mi irritate, io ve lo dico.”
Jade, il procione, punta l’indice con uno scintillio nello sguardo. “La cosa più sbagliata che puoi fare è mancare di rispetto all’isola.” La voce è nasale, leggermente stridula. Odiosa per i miei canoni.
“O vi spiegate o evitate le sparate da film. Grazie.”
“Ascolta,” la Gazza riprende la parola, “Ognuno la vede come vuole. È del tutto soggettivo. Ma più stai qui, intendo in Illumina, più ti accorgi che in questi luoghi percepisci la vita, in tutte le cose, anche quelle che non dovrebbero averla. Le isole esistono, vivono, a volte persino parlano. Ognuno le percepisce a suo modo, ma tutte, tutte noi, pian piano entriamo in contatto con Galena. Hai visto gli acchiappasogni nel forte?”
Ho visto i totem, gli strani segni lì e anche sulle rupi, nel covo. “Sì.”
“Loro, le Erinni, sanno queste cose. Le hanno imparate. Per questo l’isola le protegge e le rende forti: perché loro la rispettano, la nutrono, ne stanno diventando espressione, capisci? Se non stai dalla parte di Galena, Galena non starà dalla tua.”
Brivido.
Pianto le dita contro la fronte, una mezza risata nervosa, “No, vabbé, okay, figa questa cosa dell’isola, per carità, ma non penserete sul serio che sia così, no? Cioè, siamo nel folklore, sono le frasi che dicevano anche al corso d’addestramento, rispettare le isole, non credere solo alla razionalità, le cazzate che abbiamo sentito tutte.”
I loro sguardi vacui dicono altro.
“Sai che,” il tono di lei si abbassa a una nota più fredda, “Le Erinni camminano nella foresta senza che le bestie le attacchino?”
Altro brivido.
Già sentita questa cosa.
“C’è di sicuro una spiegazione razionale. Magari si cospargono di cannella.”
Scuote la testa. “Atreja è la donna che in Illumina ha il livello di comprensione più alto di tutto il sistema, perché l’isola, le isole, sono un sistema.”
“E come fa ad averlo?”
“È qui da più tempo di chiunque altra, ha esplorato, imparato, si è circondata di compagne fidate che hanno lavorato con lei, nell’interesse comune. Ha preso il controllo di tutte le risorse più importanti. E poi sa tutto, sa ogni cosa, di te, di me, di tutte quante; perché l’isola le parla, le sussurra di continuo.”
“Sì, vabbé.” Tiro su col naso, infastidita. “Ha tutte le risorse? Allora gliele toglieremo, un po’ alla volta.”
“Come?”
Alzo l’indice. “Cominciando a levarle la carne fresca. Le nostre compagne sono state portate al forte: dobbiamo tirarne fuori almeno qualcuna.”
La Gang tace e alza un sopracciglio all’unisono. La volpe scuote il capo. “Ma levatelo dalla testa proprio. Quelle recinzioni sono elettrificate, non puoi entrare di nascosto e ancor meno attaccare a viso aperto. Scordatevi le vostre compagne, non possiamo recuperarle.”
“Cosa ne fanno?”
“Eh?”
“Che ne fanno, perché le portano al forte? Se non le uccidono come hanno cercato di fare con noi, per quale scopo le tengono in vita? Ho visto una di loro, era rinchiusa in una botola nel terreno.”
“Le vessano per fiaccarle. Poi le reclutano o le mandano oltre la Porta.”
“La Porta è quel passaggio nella parete di roccia?”
Annuisce grave.
“Cosa c’è al di là?”
Un altro occhieggiare tra loro.
“Cosa c’è al di là della Porta?” Insisto scrutandole a turno.
La Gazza stende le braccia tatuate. “Non lo sappiamo con certezza. Ma se è così ben difesa dev’essere qualcosa d’importante.”
“Io penso,” la volpe si alza, va a sistemare un piccolo recipiente sul fuoco, lo scoiattolo ci versa dell’acqua e poi delle foglie colorate, “Che dietro quel muro ci sia la gratitudine di Illumina. Atreja dà da mangiare all’isola e l’isola le offre i suoi doni in cambio.”
“Cosa vuol dire che dà da mangiare all’isola?”
Un sorriso folle. “Quelle che non vuole tenere in vita le dà alle bestie. Le fa mangiare vive, le butta di sotto da una rupe.”
Brivido. Mi rivedo sul ponte.
Rita stesa nella polvere con le interiora che affiorano.
“E cosa le offre l’isola in cambio?”
Tacciono. Forse non lo sanno davvero o forse non intendono dirlo.
“Abbiamo bisogno di altre forze, e di armi,” cerco di non pensare a tutto quello che ho appena sentito e che non ha nessun senso razionale, “Se liberiamo qualcuna dal forte, se rubiamo o troviamo delle armi, sarà un modo per accorciare il divario.”
“Ho detto che attaccare il forte è fuori discussione.”
“Allora barattiamo con loro. Troviamo qualcosa da scambiare: risorse per le loro prigioniere.”
La Gazza espira stancamente. “Non tratteranno mai con nessuna, non illuderti.”
“C’è Atreja al forte?”
“No, o quasi mai. Atreja sta sulle rupi, a nord-ovest di qui. Il forte lo comanda Porsha. È la sua numero due.”
Deve trattarsi della donna che ho visto, quella dai capelli corti e scuri. “Porsha come la macchina?”
“Che macchina?”
“Lascia stare. Speranze di ragionare con lei?”
“L’unica differenza tra Porsha e Atreja è che Atreja almeno sorride.”
“Bene così.”
Nancy, lo scoiattolo, versa in tazzine di rame qualsiasi roba abbia preparato nel pentolino che sta sul fuoco; una mi viene messa in mano: il liquido dentro sembra tè di colore rossastro, l’odore è quello di certe tisane fruttate. Non che facciano schifo, di solito, ne ho prese un mucchio quando m’ero fissata col fitness, è che non mi soddisfano. Per avere un bel corpo bisogna soffrire, fare sacrifici o avere una fortuna infinita, e questo un sacco di gente non lo capisce e si deprime.
Mai stata depressa. Non per il mio corpo.
Ho avuto molta fortuna.
“Cos’è?”
“Infuso di rossania. Aiuta l’ambientamento.”
Osservo dubbiosa. Pensieri vari. Fiducia non al massimo.
“Non ti stiamo avvelenando,” ride la Gazza tirando giù un sorso dalla propria ciotola, “Bevi che fa bene.”
Sorseggio con cautela e la cosa sa di chewing-gum alla fragola. Caldo.
“Bisogna tenersi in quadro il fisico,” la volpe beve a sua volta, “Perché qui funziona diversamente. Chi è la vostra guaritrice?”
Smorfia di perfetta ignoranza. “Abbiamo una guaritrice?”
“Ogni squadra ne ha una: è il ruolo più importante di tutti. Se conosci le piante hai un aiuto fondamentale per sopravvivere. Le piante sono la chiave della vita in Illumina.”
“Molto bene.” Guardo le mie due compagne. “Chi cazzo è la nostra guaritrice?”
Sigrid inclina il capo, tetra. “Quella tizia col cappuccio.”
“La pazza?”
“Quella che è stata in prigione.”
“La galeotta.” Torno dalla volpe. “Era tra le cinque che le Erinni hanno preso.”
“Male,” replica lei, “Il suo aiuto vi sarebbe stato molto utile. Ci sono un sacco di cose che si possono fare con le erbe, le foglie e quant’altro.”
Pausa.
“A proposito,” azzardo, “Perché non abbiamo fame né sete?”
“E non andate al bagno?” Alza di spalle. “Non si sa, ma qui funziona così.”
“Non è pericoloso?”
“Per niente. Anzi, è comodo da matti. Niente corse alla latrina, niente problemi di digestione, mai un mal di stomaco. E vuoi la cosa migliore?”
Annuisco appena.
“Niente ciclo.”
“Niente ciclo?”
“Niente, zero, scomparso! Sono mesi ormai!”
Oddio, che miraggio.
“Però bisogna fare attenzione,” la Gazza solleva un indice richiamando all’ordine, “E prendere almeno una volta al giorno delle proteine, delle vitamine, cose del genere. Le barrette, la frutta, va tutto benissimo. E bere. Bevete sempre qualcosa, ogni tanto, come regola: tiene idratati i tessuti.”
“Ma se butti dentro del liquido da qualche parte deve uscire, o no?”
I loro sguardi vagano spaesati. “Qui non funziona così.”
“E come è possibile?”
Silenzio.
La mano di Jade, il procione, agita cinque dita nell’aria per un breve momento. “Io ho una teoria.”
Questa cosa è assurda. Non è fisicamente possibile che una non vada al bagno e non ci resti secca.
Lei stende le braccia con fare ispirato e poi accosta le mani come a mimare una sfera, gli occhi le brillano del colore del fuoco. “Tutte le isole sono ferme come dentro una bolla. Una bolla nella quale il tempo non passa, o passa molto più lento. Così le bestie non si sono estinte e sono ancora qui, mentre il nostro fisico non funziona come nel resto del mondo: è tutto lentissimo, capite?”
Fisso l’infuso, la tazza, le mie mani. Fisso il manto d’erba.
Il falò.
“Non è fisicamente possibile una roba del genere.”
Jade si stringe nelle spalle e fa una smorfia da selfie. “Spiegacelo tu, allora.”
Non ho una spiegazione. Neanche la teca è una spiegazione. Nulla ha una spiegazione.
“Hai notato che i telefoni non si scaricano?”
Vero. Quello di Exilles era ancora perfettamente carico dopo chissà quanto tempo nell’albero.
“Avranno le batterie auto-ricaricanti, no?”
“Oppure non si scaricano direttamente.”
Non è possibile. Ripenso al telefono di Exilles: non è del network, viene da fuori, eppure non si scarica. Per quanto assurdo ha un senso.
“E i peli?”
Stranisco. “I peli?”
“Non vi hanno fatto depilare completamente prima della partenza? È nel contratto.”
“Sì.”
“E sai,” il procione allunga una gamba nuda verso il fuoco, lucida e liscia come buccia di pesca, “Che non ricrescono?”
“Non ricrescono?”
“Non ci è ricresciuto un pelo da quando siamo qui. Non uno. Neanche i capelli.”
Mi guardo le gambe, le braccia. Lisce e lucenti nel riverbero del fuoco.
“Quindi il tempo non passa, secondo te.”
“Non c’è altra spiegazione.”
Nessun’altra spiegazione.
Niente ciclo, niente peli. Il paradiso del sex-appeal.
Bevo.
“Se uniamo le forze contro le Erinni,” la Gazza cerca e pretende il mio sguardo, “Come pensi di agire?”
Rifletto. Sorseggio l’infuso caldo e a suo modo rilassante.
Punto un mignolo contro di lei. “La prima cosa che facciamo? Uccidiamo Porsha.”
“Come?”
“La ragazza, qui,” accenno ad Artemis che mi scruta di rimando, “È brava col tiro a segno. Le farà saltare la testa appena mette fuori il naso dalla sua catapecchia.”
Cinque paia di occhi scrutano in direzione di lei che, vagamente a disagio, fissa il fuoco.
“E poi?”
“Pensateci: il forte andrà nel caos. Scopriranno di essere vulnerabili e tutt’altro che al sicuro dietro la loro fottuta fortezza. Dopodiché che faranno?”
“Che faranno?”
Sorrido malevola. “Manderanno qualcuno a cercarvi. Magari non subito, ma verranno a cercarvi. A chiedervi per quale cazzo di motivo non avete trovato delle assassine che hanno sparato alla loro leader, dove eravate, cosa stavate facendo. E voi?”
“E noi?”
Allargo le braccia. “Facciamo loro la festa. Le aspettiamo qui, al vostro campo, preparate di tutto punto: arrivano, noi le fottiamo. Le faremo a pezzi, non si aspetteranno mai che collaborate con noi. E il forte perderà buona parte della sua guarnigione.”
Silenzio evocativo.
La Gang si guarda, si confronta a occhiate, s’indaga l’una con l’altra. L’idea ha senso, non ha senso?
Non so se fidarmi di loro. Non capisco se sono stupide, furbe, se recitano, se sono veramente solo delle ragazze sbandate, che per la prima volta vedono un cammino possibile diverso da quello scritto per loro dalle Erinni.
Non ho neanche ben idea di come organizzare il tutto. Se a cercare queste dementi mandano due persone? Se ne mandano trenta?
Il cervello lavora febbrile, comincia a creare scenari, situazioni: non so come, ma rendere questo posto un piccolo mattatoio deve essere possibile, circoscritto com’è, senza grandi spazi di manovra. Poi magari se si vedono circondate si arrendono. Se facciamo prigioniere le possiamo barattare.
C’è un mondo di possibilità che si apre nel momento in cui sovverti un legame di collaborazione, lo sfrutti a tuo vantaggio; le Erinni non si fideranno di sicuro al cento percento di questa Gang del Bosco, ma devono venire a cercarle, è inevitabile. Devono sapere chi ha seccato la loro leader e magari punire l’incompetenza di queste improbabili vassalle.
“Se la tua amica fallisce il tiro?”
La domanda della volpe è una puntura sul culo. Storco le labbra, fingo di pensarci. Guardo Sigrid che mi guarda di rimando.
“Nah, è brava. Le ho visto colpire uno pterocoso che volteggiava in cielo, un tiro molto più complicato che bucare la testa di una donna impettita in un cortile. Ce la farà, in un colpo, sicuro.”
Artemis mi guarda con tutta l’apprensione della menzogna spiattellata, chiede con occhi tesi perché mi stia lanciando su un sentiero così pericoloso.
Perché è l’unica possibilità che abbiamo di cambiare le cose sull’isola.
“E se anche uccidiamo Porsha e tutto va come hai detto, poi cosa succederà?”
“Vedremo. Intanto Atreja dovrà muovere il suo culo abbronzato e venirci a cercare, per cui ce ne andremo da qui e troveremo un altro rifugio. Poi vedremo il da farsi. Può anche essere che si riesca a colpire il forte se infliggeremo perdite sufficienti a quelle che verranno a cercarci. Vediamo, non serve fare piani a lungo termine, per ora.”
Il silenzio che segue ha un che di positivo. Ci pensano, si guardano l’una con l’altra, si lasciano suggestionare dalla prospettiva.
“Quindi loro vengono a cercarci qui e noi le aspettiamo?”
“Sì. Un paio di voi resteranno ad attenderle, noi e le altre ci nascondiamo qui intorno: nella grotta, tra gli alberi, domattina possiamo fare una prova. Ci mettiamo in modo che nessuna scappi, sarà una trappola perfetta. E dobbiamo prenderne qualcuna viva, perché sarà utile. Avete delle armi per noi, sì?”
Si guardano di nuovo ma questa volta l’occhiata non è delle più promettenti. “Abbiamo un paio di archi di riserva.”
Sbatto le palpebre. “No, guarda, io un arco non so neanche come si tiene in mano. Parlavo di pistole, fucili, avrete qualcosa di scorta, no?”
La Gazza ha un gesto sdegnoso. “Noi non usiamo quella roba. La Gang-Bang del Bosco si è addestrata con gli archi e i coltelli, e usa solo quelli. E siamo le migliori!”
Le fa eco un verso d’approvazione corale, stupido come tutto il resto delle loro coreografie.
“Cioè voi siete venute in Illumina armate di archi e frecce? E basta?”
“Galena mi ha parlato. L’isola sa che siamo sue devote, e per onorare questa terra non usiamo tecnologia, non la usiamo. Non ci serve. Noi siamo connesse alle isole, le viviamo come si vive davvero: senza tecnologia, a contatto con la natura, perché qui c’è solo natura.”
“Ma non potete dire sul serio.”
“A te manca il mondo al di là del mare?”
Esito. “Mi manca, sì.”
“A me no. A noi no. Veniamo da famiglie del cazzo, vite del cazzo, io ho passato anni in una comunità di recupero: non mi manca niente di quello che avevo di là. Qui non ho nulla eppure ho molto di più di quanto possedevo prima: abbiamo fatto la scelta di vivere in connessione con l’isola, senza orpelli, senza tecnologia.”
Stende il braccio sinistro, la mano aperta: come in un gioco, una consuetudine, le altre quattro s’allungano o s’avvicinano per metterci la propria, di mano, nella sua, sopra la sua. Un contatto umano che, nella sua patetica forma, impressiona e colpisce, raggiunge corde sepolte dell’anima.
Niente risa, niente pose idiote: cinque volti seri e cinque mani congiunte.
Sono sorelle pur non avendo lo stesso sangue.
Non ho mai tenuto la mano di Alessandra, se non da molto piccole. Non ha mai voluto che gliela tenessi.
Non ho mai voluto tenergliela.
Una parte di me vorrebbe questo: un legame vero, un senso d’appartenenza. Ho fatto dell’esercito la mia casa per otto lunghi anni, ho cercato nel rapporto cameratesco una fratellanza che la mia vera famiglia non mi ha mai voluto dare.
E non ci sono riuscita.
Ho avuto buoni amici, tutti sfumati in fretta, portati via chi dal tempo, chi dalle pulsioni, chi da un amore. L’amore porta via gli amici, perché non importa quanto ti sforzi di restare in buoni rapporti: nessuna donna vorrebbe il suo uomo vicino a me. Troppo rischioso. Troppo assurdo.
Nessuna donna accetta mai che ci possa essere solo un’amicizia tra il suo uomo e un’altra, anche se bionda, atletica, con gli occhi azzurri e il culo tonico.
Non ho mai portato via l’uomo di nessuna.
Non ho neanche mai pensato di farlo.
Non mi hanno creduto.
Non mi credono mai.
È la costante della mia vita.
Cinque disagiate su un’isola da incubo si tengono la mano e in quel gesto c’è tutta l’amicizia del mondo. C’è tutta l’umanità e l’affetto che continuo a non conoscere, a credere sia una chimera.
Non è giusto.
Guardo le due quasi-teenager che mi sono toccate in sorte come compagne d’avventura e penso che no, non ce la possiamo fare. Non saremo mai come loro, la Gang-Bang del Bosco.
Mai.
“Senza armi è un casino,” commento ritornando alla realtà, “Non sappiamo tirare con l’arco,” guardo le altre due che scuotono la testa in patetico unisono, “Come diavolo le ammazziamo quelle che vengono qui?”
La Gang-Bang scioglie la stretta, ritorna ai propri posti. Tania, la Gazza, non sembra turbata. “Ci penseremo. Le nostre frecce sono precise e letali: non lasceremo loro il tempo di reagire, e voi le finirete in mischia.”
“Ottimo,” commento acida.
“Fidati. La Sabri,” accenna alla lepre che occhieggia in risposta, “Ha spedito un dardo nell’occhio di Grimmone, tre mesi fa. Da più di cinquanta metri. Trasformeremo le Erinni in puntaspilli.”
Silenzio.
“Chi,” odio e straodio le sparate da film, le detesto, non le posso sentire, “CAZZO è Grimmone?”
“Il superpredatore di Galena.”
“Grimmone?”
“Grimmone.”
“Il superpredatore di Galena si chiama Grimmone.”
“Sì, Grimmone.”
Inspiro a fondo per non bestemmiare.
Sigrid si anima per un momento, reclina la testa con una smorfia sprezzante. “Il sauro guercio? Lo avete reso voi guercio?”
“Io, tesoro, io,” Saetta, la lepre, ruota la mano con un gesto teatrale, “L’ho colpito nell’occhio.”
Artemis si volta a guardarmi, l’espressione consapevole. “Si vede in qualche ripresa, è guercio sul serio.”
“Grimmone.”
“È la bestia più grossa di Galena. Ti ingoia intera. C’è un video in cui si vede che prende una e…”
“Ho capito,” alzo una mano per non sentire i dettagli, “Mi fido.”
“E lo hai colpito tu?”
Saetta guarda Artemis con lo stesso sorrisetto malizioso. “Modestamente.”
“Ci aveva sorprese in un tratto scoperto,” continua la volpe, “Pensavamo fosse la fine. Sabri ha avuto il sangue freddo di tirargli contro: un colpo perfetto che lo ha fatto desistere. Sabri infilerà una freccia nella gola di tutte le Erinni che volete, quando verranno qui, e lo stesso faremo noi.”
Sorrido da stronza. “E l’isola non si è offesa che le avete menomato il figlio più abbondante?”
Il suo sguardo serio ha del preoccupante. “L’isola ci ha perdonate. L’isola sa che lo abbiamo fatto per sopravvivere. Cerchiamo sempre di non colpire le bestie quando non è indispensabile.”
Espiro stancamente. “Okay, d’accordo. Confidiamo nel vostro talento con l’arco.”
“Potete slegarci?” Sigrid si scuote nervosa, “Mi fanno male le mani.”
“Ha ragione,” rincaro, “Se le fanno male le mani poi non tira bene il grilletto. È quello che faremo, giusto? Abbiamo un accordo?”
Silenzio.
Si scambiano ancora un’occhiata tra loro, lunghi istanti d’attesa. “Possiamo fidarci di voi?”
“Siamo noi a rischiare. Non il contrario.” Tendo una mano con la maggior calma che riesco a trovare.
Tania la guarda, ci pensa ancora un attimo. Qualsiasi ricordo le attraversi la mente in quei pochi secondi deve avere in sottofondo le grida della loro compagna torturata e uccisa dalle Erinni, o l’immagine di se stessa portata nuda e al guinzaglio da Atreja.
Deve avere una fissa per nudi e guinzagli, a pensarci.
“Vendetta,” scandisce accettando la stretta, un contatto forte, cameratesco, qualcosa di simile a quello che sto cercando.
La volpe si alza, toglie un coltello dalla cintola, si avvicina alle mie compagne, le libera con un paio di tagli decisi. Le guardo sgranchirsi e scrutare le nostre nuove alleate con la dovuta dose di diffidenza.
“Dobbiamo celebrare l’evento,” la Gazza si alza all’impiedi, “Voglio una festa come fosse Beltane.”
So di non aver capito ma non importa. “Sì, cerchiamo solo di non farlo sapere a tutta l’isola.”
“Tranquilla, ne facciamo spesso.”
Le guardiamo alzarsi, muoversi intorno con un certo febbrile entusiasmo. Se ho capito poco poco che tipo di gente sono, le feste devono essere la principale attrattiva della loro vita, e non solo sull’isola.
Mi sale una moderata preoccupazione.
Mai amato le feste. Il calore umano, la calca, il caos, tutti che sorridono come idioti. Ma anche no, davvero, anche no. Mi piacevano a quindici anni, anzi, poi m’è passata la fantasia. La mia festa ideale è diventata il letto, la trapunta, la boxe in tv. Col temporale fuori.
Il fuoco crepita energico, la notte ci osserva con gli occhi di Illumina.
C’è del buono in questo posto.
O così mi piace credere.
Frammento 8 – Intervista a Kabanda, fondatore di Eleuteria (parte 4)
“Svantaggio sociale.”
L’uomo avvolto nella veste nera, celato dietro la maschera di Guy Fawkes rossa, alza un indice con consumata naturalezza.
“Si chiama svantaggio sociale quella disparità di condizioni di partenza che un individuo si trova a dover fronteggiare nel momento stesso della sua nascita. Avere la pelle nera è uno svantaggio sociale nel mondo come lo conosciamo oggi: se hai la pelle nera non benefici delle stesse possibilità di vita di un altro essere umano privo di questa caratteristica.”
Pausa.
“Essere una donna è uno svantaggio sociale. Lo è stato in buona parte della storia umana e continua a esserlo, nonostante tutti gli sforzi che menti illuminate, Eleuteria da ultima, hanno profuso per limare se non azzerare questo increscioso gap.”
Nadia increspa le sopracciglia. “Non ci sono già svariate leggi sulla par condicio?”
“Non abbastanza. La par condicio è inutile se non supportata da un adeguato impianto di sostegno alla parità tra i sessi. Crede forse che una donna abbia le stesse possibilità di trovare un impiego lavorativo rispetto a un uomo nonostante le leggi sulla parità?”
“Direi di no.”
“Esatto. Si chiama svantaggio sociale: non importa il tenore delle leggi, serve un impianto di sostegno alla parità dei sessi che si traduca in azioni concrete. La proposta che Eleuteria si sta battendo per far arrivare in Parlamento è quella di un sussidio mensile permanente a tutte le donne, cittadine o straniere, che risiedano in questo Paese. Perché solo in questo modo la donna può essere tutelata e resa più libera di quanto non sia, al di là delle apparenze.”
“Ma in questo modo non si crea un’ingiustizia sociale piuttosto?”
“Affatto. Si compensa in parte il gap; si colma quella differenza che la società nostro malgrado va a creare. Si riconosce alla donna l’importanza che merita in questo Paese ma anche in questo mondo. Ed è solo uno dei correttivi che andrebbero e andranno applicati nei tempi a venire.”
“Credo rientri in questa categoria anche,” Nadia solleva un foglio con sopra la fotografia di un volto femminile orribilmente tumefatto, “L’inasprimento delle pene per il femminicidio.”
“Esatto. Un’altra delle battaglie che Eleuteria ha orgogliosamente portato a termine.”
“Ora, a conti fatti, uccidere una donna è più grave che uccidere un uomo.”
“Ed è giusto che sia così. Badi bene: non si tratta di ingiustizia sociale, ma solo di una compensazione per quei limiti naturali, di forza, di costituzione, di spirito persino, che la natura ha nostro malgrado imposto. Non è forse più grave colpire chi non può difendersi piuttosto di chi è preparato ed equipaggiato per farlo? Allo stesso modo si deve rendere più grave l’omicidio di una donna poiché essa è per natura svantaggiata e come tale va tutelata e difesa in ogni modo possibile, anche a scapito dell’altro sesso. Questo deve essere chiaro oltre ogni possibile dubbio.”
Nadia annuisce, se c’è del compiacimento è impossibile dirlo dietro il suo contegno professionale.
“C’è un caso di cronaca che ha recentemente scosso l’opinione pubblica.”
“Il caso Varvato.”
“Il caso Varvato, esatto: come si sposa questo particolare delitto multiplo con la filosofia di genere di Eleuteria?”
Kabanda prende un respiro profondo. L’argomento è delicato. Contradditorio, per certi versi.
“Ricordiamo a chi ci segue,” la giornalista aggiusta gli occhiali con un gesto studiato, “Che Monica Varvato è accusata dell’omicidio del suo fidanzato e di quattro amici coi quali stava trascorrendo in baita il Natale. Il tutto sarebbe partito da una questione di gelosia, un tradimento.”
“Il caso Varvato è una peculiarità. Si contano sulle dita di una mano i casi di omicidio perpetrati da donne contro uomini, mentre non è vero il contrario, persino ora che l’aggravante penale è stata approvata con legge. Come tale, pertanto, deve essere trattato.”
“Ciò che risulta particolarmente odioso di questo delitto, comunque, è la modalità d’esecuzione. Monica non avrebbe agito d’impulso, ma anzi, avrebbe premeditato il tutto e causato la morte di cinque persone tentando persino di far ricadere la colpa sul suo uomo, che era poi il vero bersaglio della sua gelosia, assieme all’amica con la quale la tradiva.”
“Ci sono delle imprecisioni in questo quadro clinico.”
Nadia solleva un sopracciglio. “Monica Varvato è un’avvelenatrice, un’assassina a sangue freddo. Eppure Eleuteria non ha mancato di supportarla nel suo iter penale: come si spiega?”
“Nello stesso modo in cui lo abbiamo spiegato, mesi fa, nelle opportune sedi: l’omicidio, inteso come perdita di una vita umana di sesso maschile, non può e non deve essere considerato di pari gravità rispetto a un femminicidio. Quante donne hanno pagato con la vita o la salute la gelosia dei propri partner maschili? Per un singolo caso in cui avviene il contrario si deve indagare le cause di un gesto così estremo e applicare le dovute attenuanti concettuali e pratiche.”
“La Varvato ha avvelenato a morte tre uomini e due donne: questo non pesa nell’equazione?”
“Certamente ha un peso, poiché due giovani ragazze uccise in questo modo non fanno onore a lei e al genere femminile intero. Ma non si può non tener conto che un tradimento è una delusione fortissima per la psiche femminile, e questo può ingenerare, in alcuni rarissimi e circoscritti casi, una follia omicida come quella avvenuta nella famosa baita il giorno di Natale.”
Nadia sbatte più volte le palpebre, perplessa. “Ma se lo stesso atto fosse stato compiuto da un uomo? Un tradimento non sarebbe fonte di delusione per la psiche maschile e non potrebbe ingenerare un analogo gesto di sopraffazione?”
“Potrebbe, certamente, ma la cosa avrebbe una gravità molto maggiore. Ci pensi: il maschio non è per natura portato al tradimento, alla poligamia, all’incesto? Dunque perché deve essere accettata in egual misura una reazione violenta a qualcosa che per il maschio è naturale e per la femmina no? La parità vera e reale tra i sessi passa anche da queste cose, importanti e decisive, e dunque no, una reazione violenta maschile è infinitamente più grave di quella femminile. La nuova legge si basa su questi sacrosanti principi.”
“Non ha per Eleuteria alcun peso il fatto che Monica Varvato abbia prima cercato di far incolpare una delle vittime, poi abbia tentato di far passare per uno sbaglio l’avvelenamento di tre innocenti e infine abbia ammesso le sue colpe con tutta la naturalezza del mondo? Appare più come manipolatrice e opportunista, nonché una schizofrenica, piuttosto che una vendicatrice, come parte della comunità femminista l’ha dipinta.”
“In verità Monica Varvato è proprio una vendicatrice, in certo modo, per quanto il suo gesto sia stato estremo e certamente deplorevole. Il suo è un grido di dolore che il genere femminile tutto intende portare al mondo: basta violenze, basta soprusi, basta ingiustizie. Basta menzogne. Finché l’uomo non rispetterà la donna in ogni singolo aspetto della vita, questi atti potranno capitare ancora, e capiteranno, ora che il genere femminile sta prendendo pian piano coscienza della sua importanza e del suo valore. Ed Eleuteria supporterà ogni donna di ogni razza, credo e cultura nella sua battaglia per i diritti.”
“E le due giovani che la Varvato ha avvelenato?”
“Un piccolo pedaggio da pagare, con infinita amarezza, sulla strada per la vera e reale emancipazione della donna.”