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Frammento 1 – Intervista a Kabanda, fondatore di Eleuteria (parte 1)
Nadia lisciò una piega del vestito, a disagio, seduta su una poltroncina di pelle candida.
L’uomo, al contrario, stava assiso su una sedia di legno grezzo, dalla seduta in vimini, nel mezzo della stanzetta priva di mobilia, illuminato solo dal busto in su, ad un paio di metri da lei.
L’unica telecamera gli puntava direttamente contro, dalla distanza; il cameraman fece segno che si poteva cominciare. Lei assentì, rivolgendo un nuovo sguardo insicuro alla maschera di Guy Fawkes, rossa, che copriva il volto dell’interlocutore. I suoi abiti scuri sembravano confondersi con la scarsa luce dell’ambiente.
“Inizio col ringraziarti, Kabanda, per aver accettato questa intervista. Eleuteria, come organizzazione, ha molti portavoce ma nessuno che sia te, il Fondatore. Credo tu non abbia più rilasciato un’intervista a televisione o giornali ormai da quanto, cinque anni?”
“Anno più,” la voce di lui suonò calda, del tutto esente da inflessioni, senza età, “Anno meno.”
Un sorriso imbarazzato; la donna lisciò di nuovo il vestito e raschiò la gola.
“Si parla molto del reality Superpredatori in questo periodo, forse più che al suo lancio, sei mesi fa. Eleuteria si è espressa più volte contro quella che definite un’aberrazione, ma una posizione ufficiale, una che venisse da te, non è mai stata presa. Oggi sei qui per rompere questo silenzio.”
“Sì.” Pausa. “Sono stato molto combattuto, devo ammetterlo. Il reality aveva del potenziale, era più che un semplice show, meritava una possibilità che andasse oltre la mera barbarica apparenza. La possibilità di Superpredatori è stata data.” Altra pausa. “Senza però portare al beneficio sperato.”
“Puoi spiegarci dal principio?”
“Sono qui per questo.” Una mano guantata s’alzò in un gesto conciliante. “Eleuteria ha fatto in cinque anni quello che nessun governo e nessuna amministrazione locale ha fatto in sessanta. Abbiamo vinto molte battaglie sociali e politiche, alcune date per impossibili: l’aggravante penale per omofobia, il reato di supremazia culturale, la riapertura dei porti, l’abolizione della schedatura per migranti e rifugiati, la creazione di villaggi autogestiti, le cooperative. Ma un campo nel quale Eleuteria è sempre stata molto attiva, tanto quanto nei diritti umani, è quello dei diritti della donna. Eleuteria crede nella donna, e se me lo chiede, sì, personalmente, da uomo, credo che una società a guida femminile, una femminicrazia come è indicata nel manifesto della nostra Costituzione Alternativa, sia preferibile e auspicabile.”
“Ritieni che Eleuteria sia in grado, un giorno, di arrivare a questo traguardo?”
Respiro pieno.
“Abbiamo vinto battaglie date per impossibili: non escludo che un giorno si possa arrivare anche a questo. Dopotutto molte comunità pre-cristiane, europee ma soprattutto africane, erano matriarcali: società nelle quali il conflitto era inesistente e il benessere radicato e diffuso come nessuna società patriarcale ha mai potuto replicare. Il mondo avrebbe solo da guadagnare da un avvento della femminicrazia, e non dovrebbe stupire che questo concetto sia nato, in forma più basilare, proprio in Africa. Se è l’Europa, l’Occidente, ad aver vinto la grande battaglia della supremazia culturale nei secoli passati, è tempo che l’Africa si prenda una doverosa, per quanto graduale, rivincita.”
“Qui ci colleghiamo a Superpredatori: uno show nel quale le donne sono protagoniste assolute e indiscusse. In che modo lo consideri una possibilità sprecata?”
“Il programma aveva tutti i requisiti per confermare ciò che Eleuteria sostiene da sempre: se le donne fossero realmente padrone del proprio destino trasformerebbero anche un inferno verdeggiante come Illumina in un luogo meraviglioso dove vivere in pace e in armonia. Se quelle donne, quelle ragazze, avessero seguito la propria natura e il proprio istinto non sarebbe stata versata una sola goccia di sangue: avrebbero generato una comunità matriarcale perfetta e in questo momento sarebbero tutte vive e in ottima salute.”
Nadia batté un paio di volte le palpebre per celare un certo senso di disagio. “Tuttavia, abbiamo visto cosa sta succedendo laggiù, e fin dal principio. Non c’è mai stata collaborazione tra le protagoniste del reality: l’idea di una comunità autogestita in quel luogo appare vagamente… improbabile.”
Kabanda scosse il capo, il sorriso di Guy Fawkes per un attimo apparve come suo, compassionevole e beffardo. “Lei, come la maggior parte degli spettatori di Superpredatori non considera l’unico elemento che ha determinato la rovina dello show: il capitale. Se non ci fosse stato un premio in denaro non avremmo avuto alcun conflitto tra le partecipanti. Ci pensi: se le promettessero una cifra tale da farla vivere per sempre nel lusso non sarebbe disposta a colpire un’altra donna? A mutilarla? A privarla della dignità e infine della vita?”
“Io non credo d’avere il coraggio di…”
“Il coraggio è relativo. Il capitale, i soldi, portano il coraggio. Lo fanno crescere come un frutto su un albero altrimenti sterile. È un coraggio falso, disperato, che non ha nulla a che vedere col coraggio vero, quello dei resistenti, di chi lotta tutti i giorni per sopravvivere all’ordine autoritario della società Occidentale, ma è pur sempre una forma di sostegno psicologico per affrontare l’orrore. Senza un premio in denaro ad alterare gli equilibri mentali, quelle donne non si sarebbero mai colpite a vicenda, ma avrebbero anzi cooperato per restare tutte in vita, per creare una comunità che le protegga dai pericoli dell’arcipelago. La donna non è l’uomo, non sente il bisogno di opprimere il prossimo.”
“Ma può un premio in denaro, per quanto cospicuo, portare delle persone a commettere le cose terribili che stanno avvenendo laggiù?”
“È lampante di sì.”
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Candy-Kane grida, ormai da alcuni minuti, a intermittenza.
Grida, smette, frigna, supplica, grida di nuovo più forte.
Non so cosa le stiano facendo, la intravvedo appena, di fronte, tra le tre che le stanno intorno, e non voglio saperlo.
Guardo altrove, guardo il cielo, guardo per terra, mi guardo gli stivali; poi lei grida e lo sguardo la va a cercare, d’istinto, la mente cade dalle nuvole, ti chiede d’indagare cosa stia succedendo. Vedo solo il suo viso che si alza, la testa che preme contro la parete di roccia, gli occhi strizzati e i denti digrignati nell’ultimo strascico del dolore.
Sudo.
A ogni urlo la maglietta e il giubbotto tattico mi s’incollano di più alla pelle.
Sento freddo nonostante la calura del tardo pomeriggio.
Candy-Kane grida.
Le Erinni ridono.
Non guardo, per principio, per rallentare i battiti del cuore; Rita invece guarda, con occhi rassegnati. Poi Candy urla di nuovo e mi ritrovo a cercarla, con le labbra serrate per non dire nulla, per non ammettere che ho paura, una paura infernale.
Passi la morte, ma la tortura no, quella proprio no.
In Afghanistan si parlava di queste cose; era raro ma capitava che un occidentale finisse in mano ai Talebani. Allora si diceva che piuttosto meglio spararsi, meglio avere dietro del veleno, ma non dare la soddisfazione a quegli animali di tagliarti la testa.
Qui è diverso.
Qui il nemico non sono dei bastardi con la pelle più scura e un Dio con un altro nome. Qui sono altre come me, uguali a me, che avrei potuto incontrare per strada due mesi fa e non sospettare che demone si celasse dietro un bel viso, un fisico scolpito, un vestito da sera. Forse non lo sospettavano neanche loro stesse.
Candy grida di nuovo, un urlo stridulo, a occhi serrati, che le arrossa il volto e la fa singhiozzare convulsa.
Non guardare, m’impongo per l’ennesima volta, allora osservo la suora, che se ne sta di fronte, alla mia destra, a diversi metri, e fissa il vuoto. Riesce a essere figa anche nel mezzo di uno scempio.
Non prega, non fa nulla: fissa il vuoto e basta, con gli occhi leggermente dilatati. Vorrei darle un pugno, solo per il gusto di deturparle quel viso levigato, scolpito, dalle labbra piene. Mi urta e offende che esistano creature con una faccia così curata.
“Basta, basta!” Candy innalza la sua personale bandiera bianca, si contorce tra i legami, ha le guance rigate di lacrime, “Ti prego, basta, ti prego!”
C’è una di quelle streghe che riprende tutto con un telefono. Ora che Candy piange e supplica si avvicina di più tra le compagne per un primo piano, per catturare il momento.
Si parlano.
Una tra le Erinni scandisce qualcosa in un tono che non mi arriva, Candy annuisce.
Parla ancora, Candy annuisce di nuovo.
Una parte di me ucciderebbe per ascoltare cosa le sta dicendo. Guardo Rita, la suora, ma nessuna delle due sembra aver captato il discorso.
Sta succedendo qualcosa e ne sono all’oscuro: questo mi divora, mi lacera, mi mette addosso un’ansia che nemmeno le selezioni dell’esercito. Confabulano, Candy annuisce solo, tra i singhiozzi, e non mi piace. Non mi piace perché hanno cominciato dalla più debole di noi, perché ci parlano assieme dopo pochi minuti di urla, e chi urla e piange troppo in fretta poi fa di tutto per salvarsi.
Parlano ancora, Candy annuisce.
Poi lei, la più stronza, collana-d’orecchie, si volta verso di me. Sorride.
Lo sapevo, ne ero sicura, lo sapevo.
Sapevo che finiva così.
Qualunque cosa sia c’entro io, io, e questa cosa mi fa impazzire.
Guardo lei, loro, guardo Candy, guardo Rita e pure la suora, e tutte guardano me.
Morite, bastarde, tutte quante. Guardatevi le vostre facce di cazzo, maledette.
Un ampio cenno e il capannello si muove nella mia direzione; Candy-Kane viene slegata e portata a strattoni. Si fermano tutti intorno a me, e so che il mio sguardo saetta intorno con un misto di terrore e imbarazzo. Sai che prima o poi toccherà a te, ma quando il tuo turno arriva la sensazione che parte è qualcosa di indescrivibile, simile a quella che senti da piccola quando ti sbattono davanti a un pranzo matrimoniale da cinquanta invitati e Dai, Silvì, da brava, recita la poesia che hai imparato a scuola.
Tutti ti guardano e sorridono e aspettano solo di poter ridere.
Odio le poesie, vaffanculo alle poesie.
Ma non hai scelta, così devi fare un bagno di vergogna e dolore spirituale e Pigia, pigia, col pigiare / Sono i chicchi ben schiacciati / Dentro i tini preparati / Sta già il mosto a fermentare.
Odiavo quella poesia, la odio ancora, odio l’idea che per fare il vino devi pigiare l’uva coi piedi, odio il verbo pigiare, mi dà in testa. Quando me la facevano ripetere davanti a tutti mi vedevo nuda dentro un fottuto tino pieno di grappoli a pigiare l’uva sotto ai piedi. Un’immagine che mi urta ancora adesso. Un’immagine che quando mi entra in testa poi non se ne va per ore.
Fottuta uva.
Fottuto vino.
Fottuta Candy-Kane.
Sudo. Sto sudando mentre la piccola platea osserva divertita, mentre il maledetto telefono riprende la mia faccia pallida e il mio sguardo dilatato.
Quella che è stata la mia compagna d’Ondata per poche ore viene trascinata avanti, me la sbattono quasi addosso. Ha il volto segnato dal dolore e parte del trucco le si è sciolto con le lacrime: questo portento di avventuriera vestita da pallavolista si è anche truccata prima di salire sull’elicottero.
Si è truccata.
Nell’altra vita, il mondo civile cui appartenevamo, doveva essere una troia epica.
“Scusa,” biascica lei col labbro che tremola, “Scusami, scusa, lo devo fare, lo devo fare.”
“Avvicinati e,” le parole mi rotolano sulla lingua, incespicano tra un respiro affannato e l’altro, “E ti spacco la faccia. Ti rompo i denti. Lo faccio, giuro su Dio.”
Ha i gomiti che sanguinano, due rivoletti rossi che le scolano sulle braccia; so che esistono torture del genere, le ho sentite menzionare in Iraq: aghi che toccano i nervi, cose da esperti, da maestri. Guardo collana-d’orecchie e non capisco, non so decidere, se è qualcuno che sa il fatto suo o solo una che improvvisa dannatamente bene.
“Scusa, scusa,” frigna Candy coi gomiti che scolano fluido rosso, “Ti prego, ti prego, lo devo fare…”
Mi prega, come pregava quei demoni-donna poco fa.
Adoro essere pregata, supplicata, è una cosa che amo. Ma qui, ora, su questa dannata isola, qui la preghiera non basta a farmi sentire potente, padrona della situazione. Qui è tutto diverso.
Lei alza due mani che tremano vistosamente, non solo per l’imbarazzo, le avvicina, le ritrae.
“Se mi tocchi…” minaccio a vuoto, con la testa che vaga su sentieri di collera e disperazione.
Le avvicina, le ritrae, poi stropiccia il viso e quella sua bocca larga in una smorfia di pianto; alla fine, con le spalle che le sussultano appena, me le preme sui seni e si protende con la foga di chi deve togliersi un obbligo, una penitenza.
Le nostre labbra s’incontrano in un goffo e maldestro bacio.
È un attimo, uno solo, quello della rabbia e del fastidio; poi tutto scivola in un gesto consono, rientra sul binario della quasi normalità, per un attimo annulla il pensiero della morte e del dolore.
Urla sguaiate di festa echeggiano intorno, un applauso sarcastico, il telefono riprende.
È un bacio lungo, strascicato, privo di qualsiasi passione. La lingua di Candy danza e si contorce con foga, la mia è un animale morto. Ho baciato una donna solo un’altra volta, ma avevo rhum e Redbull nelle vene.
La sua saliva sa d’amaro e di lacrime.
Vorrei spaccarle il naso con una testata ma sarebbe un errore. Nella mente mi si fa strada la consapevolezza che finché dura il bacio non ci sarà dolore, non ci saranno aghi né lame. Allora chiudo gli occhi e rimango passiva, assecondando lo stretto indispensabile, sopportando quelle dieci dita premute sul seno. Cerco di non pensare che mezzo mondo ci sta guardando limonare tra povere stronze moriture, per pietà, per ritagliarci qualche minuto senza paura, senza dolore. Che siamo e saremo ancora la festa per gli occhi di pervertiti e sadici.
Cerco di far piovere sui sensi le parole vogliose e il corpo scolpito d’un maschio mediterraneo, ma tutto ciò che arriva è Pigia, pigia, col pigiare e il fottuto tino pieno d’uva dentro il quale pigio nuda e sudata.
Odio le poesie.
Odio l’uva e il vino.
Odio Candy-Kane e la sua bocca larga, come quell’attrice bionda.
“Rallenta, signorina,” ride collana-d’orecchie prendendo Candy per i capelli e staccandomela di bocca, “Vuoi succhiarle via anche l’anima?”
Ridono, applaudono.
Ma cosa avete da ridere e applaudire, che se le parti fossero invertite vi starei cavando gli occhi e sparando in fronte.
Respiro, guardandomi intorno come un animale in trappola, in attesa di qualsiasi cosa debba ancora succedere.
Ti prego, fa’ che baciare questa cogliona sia l’unico supplizio che mi tocca.
Un’Erinni si avvicina con in mano uno spillone da balia mezzo avvolto nella stoffa, aperto, la cui punta è rossa da quanto è arroventata. Apre la mano di Candy e le fa stringere il fagotto. “Comincia pure,” la irride, “È tutta tua.”
“Tutta tua un cazzo!” Strillo col panico che comincia a farsi strada, strattonando le corde, invano, “Se ti avvicini,” pianto due occhi da pazza in quelli di lei, “Se ti avvicini ti faccio a pezzi, lo giuro, ti faccio saltare i denti.”
“Calma, bionda,” fa collana-d’orecchie, prendendomi il viso e piegandolo da un lato: occhi negli occhi e questa stronza ha due abissi al posto delle iridi. C’è dentro tutto il male del mondo, l’inferno che brucia, rosso come la punta dello spillone.
“Sparami, ammazzami, non,” deglutire sommesso, “Non voglio questo scempio, non voglio.”
“No, no, che dici?” La sua voce è melliflua, tagliente, “Io ti voglio fare ancora più bella, vuoi?”
“Un cazzo, no, no,” strattono ancora le corde, invano, “Sto bene così, sto bene così!”
“Adesso vedrai.”
Un cenno e Candy si avvicina di più; ha la mano che trema, trema come una pazza, lo sguardo allucinato. “Ti prego, ti prego, scusami, Mercury, scusami, ti giuro, ti prego…”
“Io ti ammazzo, ti sventro!” Minaccio a vuoto mentre l’Erinni mi tiene la testa piegata di lato. Rita e la suora guardano attonite, guardano tutta la malvagità della nostra fottuta razza raccolta in pochi metri di paradiso tropicale.
Vedo il rosso dello spillone incandescente.
Vedo il telefono che riprende.
Pigia, pigia, col pigiare.
La mano che mi serra la testa di lato.
“Perdonami, devo farlo, devo farlo…”
Muori, ammazzati, impiccati, o lo farò io quando mi libererò da qui.
Le risa e gli incoraggiamenti.
Il telefono che riprende.
Pigia, pigia.
Persino la mia immagine nuda dentro un tino pieno d’uva inizia a sembrare meglio di ciò che sta per arrivare.
“Scusa, scusa…”
La mano che mi tiene la testa.
Poi arriva.
Il dolore: bollente, rovente, un ago che fora la carne dell’orecchio e irradia un calore d’inferno.
Il verso che mi esce rotolando dalle labbra è qualcosa che non pensavo di poter emettere, un misto tra un latrato e un grido.
Non gridare. Sta’ zitta, non dargli soddisfazione.
L’ago esce, l’ago rientra, lì accanto.
L’orecchio va in fiamme per la seconda volta.
Resisto un singolo attimo in silenzio poi mi tocca latrare di nuovo, come una cagna.
Strattono, divincolo, bestemmio.
La presa si serra, Candy si china di nuovo.
Un terzo foro incandescente e il calore s’irradia anche alla testa, alla tempia. Stringo i denti e ansimo, i pugni sono così serrati da far male. I pugni, i polsi legati, il collo piegato.
Dopo il terzo arriva il quarto e così ancora, ogni colpo un po’ meno grave del primo, ma la somma è un massacro.
Passa un tempo che non so definire.
Dopo sette buchi, dal lobo fino al punto più alto del padiglione, il supplizio finisce. Mi ritrovo a ciondolare la testa finalmente libera sul petto, ansimando, con lacrime di dolore che rotolano sulle guance.
Candy viene disarmata e allontanata di peso.
“Tutto bene?” La mia personale nemesi ammicca sorridendo fredda, scostando l’unica ciocca di capelli che tengo libera dalla coda. Cerco di non pensare allo stato del mio orecchio destro.
Annuisco nella vana speranza di sembrare meno patetica.
“Qual è il tuo nome, bionda?”
Odio essere chiamata bionda. Lo detesto. Mio padre mi chiamava bionda, prima d’alzare le mani.
“Mercury.”
“Il tuo vero nome, intendo.”
Non le dirò il mio vero nome, non voglio che lo conosca. Per orgoglio, per principio. Perché sappia che non sono una stupida troia cacasotto come Candy.
“Silvia.”
Mi odio.
Lei annuisce. “Ho un regalo per te, Silvia.”
Quando dicono così, nei film, di solito si mette male. Malissimo. L’orecchio brucia da morire.
Trattengo il respiro e la guardo frugare in una scarsella; ne tira fuori una manciata di piccoli gioielli, di orecchini, che sparge sul palmo e mostra con malcelato orgoglio. “Sono per te.”
“Non li voglio,” mormoro.
Sono un mix di bigiotteria e gioielli veri, a occhio, e la provenienza non può che essere sempre la stessa.
Lei, la strega, la belva umana, ammicca leggiadra. “Tanto non hai scelta.”
Si volta verso le compagne, fa un cenno: il telefono smette di riprendere, le Erinni si allontanano, puntano verso Rita che ora sgrana gli occhi. È il suo turno.
“Parliamo, ti va?” fa lei mettendosi al mio fianco con un gesto studiato.
“E parliamo, sì.”
Giocherella con gli orecchini, agitandoli sul palmo. Fa trascorrere almeno mezzo minuto di silenzio che mi corrode d’ansia le viscere. Tremo leggermente, l’orecchio pulsa.
“Tu mi piaci, Silvia,” la sua voce è quieta, consapevole, non ha il minimo senso di squilibrio eccetto un leggero, leggerissimo accento sardo. “Sei diversa dalle tue compagne. Guardale,” mi prende il mento, delicata, voltandomi verso le figure sofferenti e spaventate delle altre. “Loro non valgono nulla, sono donne annoiate, finite qui per appagare il loro ego o dimostrare qualcosa a qualcuno. Tu sei diversa, lo vedo: so riconoscere una brava ragazza quando la incontro.”
La sua mano lascia il mento e si sposta verso l’alto, all’orecchio martoriato; tento di sottrarmi e la sua stretta si fa più dolorosa. Tutto brucia come l’inferno, allora resto ferma col cuore che batte più veloce.
“Mi chiamo Atreja. Nome vero, nome di battaglia: per me è lo stesso.”
Atreja.
Questa è Atreja.
Bloody Atreja.
Atreja la Sanguinaria.
L’ansia.
Creatura mitologica.
Atreja.
“Sei una ex militare, vero?” Azzardo ancora, vagando lo sguardo, “Gli aghi nel gomito,” preciso, “È roba da servizi segreti.”
Atreja ride, senza suono. “Sei sveglia. Niente servizi, no, ho lavorato per Tuxedo molti anni: Iraq, Yemen, Cirenaica. Imparato molto.”
Stringo i denti mentre le sue dita giocherellano vicino al mio orecchio e incominciano a chiudere il primo orecchino nel foro più basso.
“E tu? Esercito? Marina?”
“Esercito.”
“Magnifico. E quante missioni?”
“Tre.”
“Cirenaica?”
Deglutisco al chiudere del secondo orecchino. “Sì, ma solo logistica, niente operazioni sul campo.”
“Bella la Cirenaica,” sorride maliziosa, “Tutti quei morti per la strada. Hai visto la fossa comune di Shamarsat?”
“Non l’ho vista, no.”
“Sai di cosa è piena la fossa comune di Shamarsat?”
Punta di dolore, il terzo orecchino si chiude nel buco con un clic fastidioso. “No.”
“Piena di negri morti. Uccisi dai ribelli. Non dal rais, dai ribelli. E non è neanche una fossa vera, è più un,” increspa le labbra, s’acciglia, “Un vallone. Una conca di cemento sotto un ponte, a cielo aperto. Uccidono i negri, in Cirenaica, perché il rais è morto, e lui proteggeva quella gente; ora nessuno li protegge più. Li uccidono per qualsiasi cosa, anche senza ragione, perché li odiano. Il rais li proteggeva quindi gli altri li odiano, è normale: se prendi uno e gli regali una coperta e dici Lui non deve essere toccato, che ottieni? Che gli altri lo odieranno, e penseranno Ma anche io dovrei essere aiutato, perché non mi aiuti? Anche io ho freddo ma a me una coperta non la dai. Sai cosa mi ha colpito di quella fossa?”
“Non lo so.”
Un quarto orecchino si chiude e sopporto a denti stretti.
“Ci sono solo uomini in quella fossa. Niente donne. Le donne non le uccidono, ne fanno altro. Così io stavo lì, sul ponte, a guardare di sotto la fossa piena zeppa di corpi mezzi decomposti, e pensavo: se io avessi il potere di fare una cosa del genere, la farei? Mi sono detta: no. No che non lo farei. È orribile, non lo farei.”
Lo sguardo mi cade su una delle tante magliette che sventolano nella brezza, tra i massi che costeggiano il sentiero. “Qua è un carnaio. E lo avete fatto voi,” mormoro.
Atreja sorride. Ha il volto di un’età indefinibile, forse è più vicina ai quaranta, con qualche segno che le rovina la pelle, visibile anche sotto le pitture nere, una pelle indurita dal sole di qui e dell’Africa. I capelli, scuri, ariosi e arruffati, le incorniciano un viso dai tratti pieni, sagomati, con labbra cariche e un naso pronunciato. Due occhi profondi.
A guardarla così da vicino, senza fermarsi sulle pitture o i segni del logorio di Illumina, dev’essere una donna magnifica. Bella come poche.
“Illumina mi ha dato tanto, cara, ma più di tutto mi ha dato consapevolezza. Mi ha dato libertà. Mi ha fatto comprendere che ci sono barriere, nella testa, che erigiamo soltanto noi. Guardiamo le cose orribili che succedono dove c’è la guerra e pensiamo: no, sono sbagliate, io non le farei. Ma poi in qualche modo la guerra viene a trovarci in una delle sue molteplici forme, e allora succede qualcosa qui,” si tocca la tempia, “E imitiamo quello che abbiamo visto, perché d’improvviso ci sembra la cosa più giusta, la cosa migliore. Facciamo quello che pensavamo non avremmo fatto mai, e scopriamo che è bello, che è doveroso, che ha un senso farlo.”
Socchiude gli occhi; il quinto orecchino mi si aggancia alla carne con un altro dolore acuto.
“Sono venuta quaggiù pensando che sarei morta quasi subito, mangiata da una bestia, ammazzata da quelle dell’Ondata 1. Invece no, io e le altre siamo sopravvissute. Ho incontrato le bestie e sono rimasta intera. Ho incontrato le ragazze della prima batteria, almeno quelle sopravvissute all’orrore: mi hanno combattuto, mi hanno ostacolata o mi hanno supplicato di aiutarle. A prescindere, io le ho uccise. Ed è stato bello. E così ho fatto con quelle dell’Ondata 3, poi la 4, e via tutte le altre, e lo stesso farò con voi. Io vi ucciderò tutte, Silvia, e appenderò i vostri vestiti su quelle pietre. Darò da mangiare i vostri resti, vivi o morti, alle bestie di Illumina. Hai mai visto i denti di una di quelle cose giganti chiudersi sul corpo di una donna? Il modo in cui lo trafiggono e lo stritolano? È una cosa,” chiude gli occhi e giunge le mani per un attimo, respira a fondo, “Impressionante.”
“Sei malata,” sibilo con una certa voglia di ridere, un riso forzato, disperato, “Totalmente malata.”
“Non malata. Libera. A differenza vostra.”
“Sparaci e basta. Dacci una morte veloce, indolore: hai già stravinto il gioco, il premio sarà tuo, sarà vostro, chi ve lo toglie più? Chi se ne fotte di quante Ondate ancora manderanno, le ammazzerete tutte. Sparami, anche ora se vuoi, ma non,” la voce esita, tentenna, sento la voglia di piangere farsi strada, “Non farmi patire un supplizio. Te lo chiedo per favore.”
Un sesto piccolo gioiello si stringe alla carne; l’orecchio pulsa e brucia come su una piastra rovente.
Atreja ciondola, mi accarezza una guancia. “Non hai capito, cara. Il premio finale è solo un accessorio: il mio vero premio siete voi. Tutte quante, tutte quelle che sono passate da qui. È voi che voglio.”
Il settimo e ultimo orecchino entra nel buco e mi sfugge un verso. Un istante dopo il grido di Rita spacca il silenzio per diversi secondi gelandomi il sangue. Paura e orrore tornano prepotenti, s’insinuano tra un respiro e l’altro, tra un battito e l’altro.
Rita grida di nuovo e si contorce. Vedo un martello e dei chiodi.
Il telefono riprende.
“È solo un gioco, Silvia mia,” Atreja scuote la testa, sorniona, “Siamo tutte un gioco. Come la guerra, il mondo, come la fossa di Shamarsat. Possiamo solo scegliere come giocare, le regole le hanno già fatte per noi.”
Rita urla ancora, tossisce, c’è del sangue che sgocciola allegramente a terra.
“Ti prego,” so di avere una faccia miserabile, un’espressione supplichevole, “Hai detto che sono diversa, che valgo più di quelle altre idiote, allora ti prego, ammazzami veloce. Niente agonia, ti prego.”
Lei sorride appena, come una sorella maggiore comprensiva, quello che io non sono mai stata per Alessandra. Odio mia sorella, odio le sue cazzate comuniste. Odio la sua tessera di Eleuteria.
Non è stata in Iraq, in Afghanistan, Alessandra, non sa niente di cos’è la guerra, l’odio razziale, la violenza. Legge, guarda foto su internet e scrive su un blog, e crede che questo la renda una combattente, una partigiana, una no-global, una fottuta persona migliore delle altre. Le aveva trovato un posto come operaia tessile, mia madre, lei ha detto di no, che l’operaia non la voleva fare. Mia sorella è comunista, dice. Mia sorella non lavora. Come mia madre.
Io ero l’unica a portare a casa uno stipendio. Un bello stipendio, grazie alle missioni.
Odio mia sorella.
La odio quando mi dà della fascista perché so usare un fucile d’assalto e porto una divisa. La odio quando non crede alle cose che ho visto in quei posti di merda, tra quella gente di merda, perché sono un soldato e un soldato non è un vero essere umano. Un soldato è servo del capitalismo e delle multinazionali.
Mia sorella è serva della sua cultura parziale.
Dei paraocchi che ha scelto di mettersi da sola.
Mia sorella non è libera, come non lo sono io, come non lo è quasi nessuno.
Atreja è libera, lei sì. Ha completa libertà di scelta, su tutto.
Atreja è la vera signora di Illumina.
Io solo un pezzo di carne alla sua mercé.
Chiudendo gli occhi posso già vedere la mia tuta tattica appesa sulle rocce, a sbiancare al sole. Il mio orecchio ora colmo di gioielli attaccato alla sua collana.
Reprimo un conato di vomito mentre Rita grida di nuovo.
Un vecchio film di guerra diceva così.
L’orrore.
***