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SUPERPREDATORI - parte 40 (Epilogo 1/2)

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1SUPERPREDATORI - parte 40 (Epilogo 1/2) Empty SUPERPREDATORI - parte 40 (Epilogo 1/2) Gio Set 09, 2021 1:25 am

Fante Scelto

Fante Scelto
Cavaliere Jedi
Cavaliere Jedi


***


Epilogo
 
Atreja chiuse per un momento gli occhi, lasciando che il vento della tarda sera le scompigliasse i capelli neri e folti.
Era da parecchio che non convocava il Gran Consiglio: non c’era più stata una vera ragione per trovarsi tutte assieme e lei quasi non ci aveva fatto caso.
Assuefazione al successo.
Indolenza.
Abitudine.
Guardò le cinque elaborate sedie in tek che erano state disposte a cerchio, egualmente distanziate, con il suo scranno personale a completare la figura: una vecchia poltroncina in mogano con gli inserti in buon tessuto, rossi ma lisi dal tempo e dalle intemperie.
Faceva ancora la sua figura, specie alla base della parete di roccia, sotto l’arco di rampicanti, sotto le grandi ali di pterosauro essiccate che erano state il suo primo giaciglio in Illumina.
Altri tempi.
Altre sensazioni.
Controllò l’orologio e, a passo lento, solenne, andò a sedere al suo posto, su quel vecchio e vissuto seggio che aveva voluto lì: le ricordava la vita di prima, al di là del mare.
I minuscoli proiettori al centro del cerchio presero vita, disegnando in ologrammi nitidi le figure delle sue cinque luogotenenti, ognuna seduta sulla propria sedia.
Porsha, Flamia, Annakonda, Borea, Tyrrena: come ai tempi migliori, quando il Gran Consiglio fremeva d’entusiasmo e s’incendiava per ogni vittoria.
Altri tempi.
Altre emozioni.
Atreja aprì una mano nel saluto alato, “Domo minore.”
“Coro mannu,” la risposta dissonante delle sue migliori compagne, quelle di più lunga data, con le quali aveva costruito un piccolo impero.
Il suo impero.
Illumina.
Inclinò il capo poggiandolo su un indice, lo sguardo rivolto verso l’ologramma di Porsha e quello di Arpa, in piedi accanto a lei. “La situazione?”
Porsha piegò le labbra in una smorfia di contenuto fastidio. “Normalizzata. Il varco nel perimetro è stato chiuso con una sistemazione provvisoria, in attesa di ripristinare la recinzione elettrificata.” Tossì leggermente, schiarì la voce. “Al proposito, siamo…”
Arpa roteò una mano come a darle manforte.
“…dispiaciute per quanto è capitato quest’oggi. Non abbiamo saputo immaginare uno scenario come quello che…”
“No,” Atreja la fermò con un cenno seccato, “No, no, no, no: non devi scusarti, non devi farlo. Sono io la prima ad aver sbagliato. Sono stata io a dirvi che era improbabile le nuove si mostrassero dalle vostre parti, che si sarebbero nascoste, impaurite e inoffensive. Sono stata io a farvi abbassare la guardia. E di questo io, e io sola, devo scusarmi. Con tutte voi.”
Silenzio costernato.
“Abbiamo davvero permesso a tre fuggitive d’entra’ in Fort Liandra fino alla baia e portar via le amiche loro?” Flamia accavallò le gambe in un gesto studiato, incassò lo sguardo torvo di Porsha.
Atreja pretese l’attenzione di entrambe con un movimento ampio della mano. “Lo abbiamo permesso, sì. Ma non è successo nulla. Un cancello rotto, un paio di prigioniere evase: non significa niente nell’economia della nostra guerra.”
“Ma le clown dei boschi?” Annakonda mosse una mano inanellata. “Perché non le hanno intercettate?”
“Le clown dei boschi non sono mai state particolarmente affidabili. E compensarle con allucinogeni, alla lunga, non ha pagato.”
“Che fine hanno fatto?”
Porsha alzò di spalle nell’uniforme verde oliva. “Due sono morte, una scomparsa, una fuggita con le nuove e l’ultima…” Un urlo disperato, in sottofondo, echeggiò nell’audio per un lungo momento; Porsha storse le labbra, disgustata. “…sta rispondendo a qualche domanda.”
“Fa’ con calma, non abbiamo fretta.”
“Io credo che le guardiaboschi non siano state molto affidabili, Atreja, nonostante le promesse. Le ho sempre viste un po’ distratte.”
“’Sta cosa delle orge, poi.”
“Sì, e i costumi? Vogliamo parlare di quei costumi?”
“Oh, per carità.”
“Abbiamo capito dove hanno preso l’esplosivo?”
“La Volpe,” un urlo lancinante la interruppe, seguito da una serie di suppliche, “La Volpe giura che ci hanno sempre consegnato tutto, non hanno tenuto nulla che fosse un’arma da fuoco o una bomba. Men che meno una carica di quel potenziale.”
“Le nuove saranno state rifornite, allora. Dagli stronzi dei produttori.”
“Possibile. La suora aveva dei vestiti, buffi ma pur sempre dei vestiti.”
“Sono state aiutate, è evidente.”
“Non è meglio andare a pijarle per i capelli subito, finché so’ vulnerabili?”
“Pensateci: adesso saranno cariche, euforiche, chiuse nel loro covo e pronte a riceverci. Avranno sicuramente preso dei bonus e dei rifornimenti. No, è meglio aspettare; prima o poi si sentiranno sicure abbastanza da muoversi, e a quel punto commetteranno degli errori.”
“Questa Mercury,” Annakonda incupì, “Sembra una capace.”
“Lo è. Ma ha delle vistose lacune, molto vistose. L’ho avuta per le mani, e ne ho avute altre come lei: alla fine cadono tutte, è solo questione di toccare i tasti giusti. Io ne ho già uno pronto.”
Atreja sorrise e fece un segno elegante della mano oltre il circolo, nello spazio semibuio. Candy-Kane la raggiunse dopo un attimo d’esitazione, lo sguardo basso, gli occhi delle Erinni migliori puntati su di sé.
Se la mise accanto, in piedi, una mano a cingerle il fianco in un gesto cameratesco: lei, nella sua nuova e caricaturale tenuta rossa e nera, umettò le labbra, a disagio.
“Chi è ‘sta ritardata?”
Atreja rise di una risata garbata, strinse di più a sé la ragazza, rigida come un pezzo di legno.
“Oh, via, quale ritardata. Erinni, vi presento Candy-Kane, la Farfalla Monarca, l’anti-Mercury.”
“Quella.”
“È una ex-Ondata 9. Ha tradito le sue compagne per stare con noi: e lo ha fatto perché crede nel progetto, perché sa che Illumina appartiene a noi. Non è vero, tesoro?”
Candy annuì plateale.
“Dice sempre di sì, è adorabile. Sarà lei a farci trovare Mercury e le sue amichette, al momento opportuno. E chissà, se si distinguerà con merito potremmo farla diventare una di noi a tutti gli effetti, magari. Un’Erinni vera, intendo.”
Qualche riso leggero tra gli ologrammi assisi.
“Candy qui ha promesso che ci porterà Mercury al guinzaglio, e io le credo. So che si impegnerà per non deludere nessuna. È in debito con me, dopotutto: le ho evitato una brutta sorte, e per questo dovrà ripagare il suo debito. Corretto, farfallina?”
Altro umettare di labbra. “Sì, Atreja.”
“E la suora?”
Scese un silenzio grave, pesante, per qualche istante.
“La suora è un elemento ancora da valutare. Un pezzo fuori posto.”
“È vera questa cosa che ha fermato il Baryonyx usando una piccola croce?”
Silenzio tetro.
Carico.
“È solo un’ipotesi.”
“Perché di cose assurde ne abbiamo viste tutte, ma questa…”
“Ho avuto per le mani anche lei. Non è niente di speciale. Va solo presa nel modo giusto.”
“Quindi adesso si aspetta e basta? Senza fare niente?”
“Adesso sì, è il momento di aspettare. Continueremo tutte con i nostri programmi e routine, come se niente fosse successo. Non dovranno pensare neanche per un attimo di averci colpite duro. Ma terremo gli occhi aperti,” un indice alzato a monito, “Perché loro prima o poi si muoveranno. E a quel punto sfrutteremo i loro errori.”
Porsha prese la parola con un cenno. “Che devo fare coi corpi delle due guardiaboschi morte? Li vuoi?”
“No, non mi servono. Mandami i loro costumi, però: li offrirò all’isola.”
“I cadaveri dalli a me,” Flamia si accese una sigaretta, “Sò a corto di salme, qui.”
“Te li vieni a prendere: non ho personale libero con tutti i lavori da fare dopo oggi.”
Lei soffiò il fumo dalle labbra con una risata sottile. “Tesò, non te se pò chiedere niente. Ti mando una squadra domani allora.”
“Ti farò recapitare io i corpi.” Atreja oscillò una mano a far cadere gli attriti personali. “Sono contenta che ci siamo riunite tutte, come ai vecchi tempi. Mi è mancato lo stare assieme, nello stesso luogo.”
“Eh, una volta era più facile. Non c’era neanche bisogno degli ologrammi.”
“Una volta sì, era tutto più facile. Tranne le nostre avversarie: con loro non è mai stato facile, no.”
“Il livello è decisamente peggiorato.”
“Ma de brutto. Mo’ ce mandano contro dieci faggiane alla volta e sai che sfida.”
“Almeno queste nuove hanno movimentato un po’.”
“Un po’, sì.”
“Quando le prendiamo che je famo? Perché le vojamo vive, no?”
“Sarebbe opportuno. Hanno un posto da riprendere nei meccanismi dell’isola.”
Atreja incupì, spostò lo sguardo al cielo stellato sopra di loro e strinse di più Candy-Kane a sé.
Qualcosa non aveva funzionato.
Una piccola crepa nel sistema.
Le urla e le suppliche di Foxx la Volpe risuonarono nell’audio per un lungo, viscerale momento.
 
***
 
La notte è calata.
Abbiamo acceso un fuoco, nel mezzo della torre, ma solo perché abbiamo questo benedetto Pass Bianco e non dovrebbe succedere niente. Ce lo hanno garantito.
Prima e ultima volta che ne accendiamo uno, l’ho già detto.
Con un fuoco il buio fa meno paura.
Poi c’è la torre, c’è il pendio, la ridicola palizzata, ci sono le foglie secche. C’è di che sentirsi sicure, alla fin fine.
Mi sento sicura, più che in qualsiasi altro posto su questa dannata isola.
Ho persino un paio di stivali nuovi, gli stivali più cazzuti del mondo. Col rinforzo in kevlar.
Dio, non riesco a smettere di fissarli.
Li adoro.
Me ne sto seduta, poggiata contro una colonna, e così le altre, lì intorno, a godersi la serata libera. Eccetto Jade: lei la libertà l’ha persa; se ne sta seduta in un angolo, ammanettata, a fissare il vuoto. Continuo a sentirmi in colpa.
C’erano dei drink nella cassetta dei rifornimenti, qualcosa di poco alcolico che però ha vivacizzato l’ambiente.
Io non bevo, no, ho smesso molto tempo fa, quando ho visto come si riduceva mia madre.
Da allora zero alcol, non una goccia.
Mai più.
Mai
più.
“Ehi,” Rhonda mi s’accoscia vicino, una mano poggiata sul mio ginocchio. Sto vizio delle mani addosso: soprassiedo in nome dell’unità nazionale.
“Hey.”
Lei sorride, esibisce una bottiglietta di mojito con un’alzare di sopracciglia: faccio segno di no.
“Neanche un sorsetto?”
“Sono astemia.”
Anche Lucilla, a quanto pare, che se ne sta seduta dall’altro lato del cerchio e annuisce alle conversazioni: il massimo del contributo che riesce a dare.
Non la biasimo.
Rhonda siede pesantamente al mio fianco e con un verso scomposto, segno che di mojito deve averne già mandato giù parecchio. Poi ridacchia, s’aggiusta.
“Allora?”
“Allora che?”
“Aiuto, non sei una conversatrice.”
“Proprio no.”
Manda giù un sorso secco, poggia la testa sulla pietra della colonna. “Non so niente di te.”
“Non c’è molto da sapere.”
“Ti manca l’esercito?”
“Ti manca la kick-boxe?”
Ride del suo riso ampio e luccicante. “Cazzo, sì! Ma il ring non mi bastava più, volevo qualcosa…”
“Di più.”
“Già.”
“Tipo scardinare la faccia di una senza un arbitro che te lo impedisca.”
“Qualcosa del genere, sì. E tu? Sparare alla gente non era già il tuo mestiere?”
Brivido.
Sparare alla gente.
“Senti, io non ho niente a che spartire con voi. Non sono una modella, una figlia di papà, una poser da Instagram, non sono venuta qui perché mi prudeva la voglia di ammazzare qualcuno o per fare la figa. Ho le mie ragioni del cazzo e sono diverse dalle vostre. Amen.”
Lei strabuzza gli occhi, piega le labbra in una smorfia stranita, annuisce. “Aiuto, non sei decisamente una conversatrice.”
“No, infatti.”
“Allora raccontami qualcosa di più banale, che ne so.”
Che ti devo raccontare.
Che mai t’interesserà della mia vita.
“Che facevi nel tempo libero? Quando non eri in servizio, voglio dire.”
Guardavo il wrestling, in tuta sul divano.
Litigavo con mia madre.
“Niente di che.”
“Un po’ di sport?”
“Sì, qualcosa.”
“Eh, sei bella tonica, si vede.”
Si vede.
“Io comunque,” manda giù un altro sorso, “Ti ci vedo come modella. Sai di cosa? Dell’intimo.”
“Sì, vabbé.”
“No, aiuto, dico sul serio. Sai, quei completini di pizzo, ti ci vedo a far la pubblicità di quelli: stesa tra le lenzuola, tutta seria, arcuata, sai, una cosa del genere.”
I completini di pizzo.
A me.
“Ma Cristo santo.”
Ride di gusto. “Neri. Anzi rossi, natalizi: ti ci vedo proprio.”
Immagini poco edificanti, in intimo di pizzo rosso tra lenzuola bianche.
Bestemmie mentali.
Incupisco di botto, un pensiero subitaneo, venuto fuori da chissà dove. Rhonda se ne accorge, s’acciglia, “Che c’è?”
Alzo un indice fissando il vuoto. “La pubblicità.”
“Che pubblicità?”
“Hai detto che ho fatto una pubblicità. Degli integratori per lo sport.”
“Sì, era sul blog dello show.”
Io che sto con una mano sul fianco e il botticino nell’altra, un top sportivo, la tartaruga in mostra e un sorriso da cretina.
Mi ricordo di quella foto.
Era per la pubblicità degli integratori, prima di partire.
Brivido.
“Mercury, che c’è?”
Scuoto il capo, attonita. “Ti avevo detto che non ho mai fatto quella pubblicità.”
“Sì, ma ci sta. Lo show ha i tuoi diritti d’immagine, possono usarti per pubblicizzare cose, se vogliono.”
“No, no, io…” Altro brivido. “Io l’ho fatta. Mi ricordo quella foto.”
“E quindi?”
Fisso il vuoto, sconvolta.
Perché non me lo ricordavo?
Perché avevo rimosso?
Sarà stato dieci giorni fa.
Neanche.
Posso averlo dimenticato?
“Adesso mi ricordo di quella pubblicità, degli integratori. Sì, ero imbarazzata da matti, sorridevo come una cretina. Non so come ho fatto a non ricordarmelo prima.”
“Vabbé, succede. Sarà lo stress, ne abbiamo preso a pacchi in questi ultimi giorni.”
Sarà lo stress, sì.
Forse è l’isola, questa cosa del tempo che scorre in maniera diversa. Magari ti brucia il cervello, che ne sappiamo.
Infatti qui non si va al bagno, non crescono peli e capelli, ci sono le bestie preistoriche e in due ore per me sono passati dieci minuti per le altre.
Quindi i mostri potrebbero anche essere reali.
Potrebbero.
“Dai, oh, capita,” taglia corto lei con un altro sorso dalla bottiglietta, “Tanto qui è tutto folle. Non starei a pensarci troppo sopra.”
“Eh, mi sa.”
“Hai qualcuno dall’altra parte del mare?”
“Una pessima madre e una pessima sorella.”
“E un uomo?”
Brivido.
“No.”
“Neanche qualche scopamico?”
Altro brivido. Fastidio. Pizzicorii vari.
“No. Senti, non è che…”
“Ma neanch’io. Avere una relazione di qualsiasi tipo, oggi, è un casino.”
“Sì, infatti.”
“Non ti puoi fidare di nessuno. A me gli uomini non s’avvicinano neanche, in realtà. Sembra che abbiano paura.”
“Eh, sì, succede anche a me.”
Silenzio imbarazzato. Odio la conversazione qualunque.
Sempre odiata.
“Hai pensato che, quando torneremo a casa, avranno tutti paura di noi? Dico: più di prima.”
“Tanto io già odio tutti.”
“Vabbé, ma mica puoi odiare per tutta la vita.”
“Lo dici tu.”
Ride di quel sorriso bianchissimo, fin artificiale. “Fidati: arriva un momento in cui devi seppellire l’ascia di guerra. È fisiologico.”
“Quando avremo vinto questo gioco e sarò piena di soldi, allora ne riparleremo.”
“Già.” Scruta in alto, al cielo stellato che sta sopra di noi. “Mi spiace per Rita. Come è successo?”
Freddo abissale. Le immagini della sua morte stampate da qualche parte dentro.
Fisso il fuoco con gli occhi dilatati.
“Non vuoi saperlo, fidati.”
“Non può essere peggio di quello che capitava nella rada.”
“Sì che può.”
C’è come una puntura dalle parti del cuore, uno spillo ficcato dove non può essere raggiunto.
È andata per prima. Si è offerta di andare per prima, per dare l’esempio. Ha persino cercato di salvarci la vita dando la propria.
Come fanno a esistere persone del genere?
“Beh, noi siamo ancora qui, no?”
Mi cinge le spalle in un gesto cameratesco: sto vizio delle mani addosso.
“Almeno per ora.”
“Aiuto, che cinismo violento.”
Vorrei replicare, mi fermo a metà respiro.
C’è un suono.
Un suono leggero, strascicato, un rumore che conosco.
Faccio segno a tutte di tacere e il mio sguardo allarmato aiuta a imporre il silenzio in una frazione di secondo: c’è un rumore inconfondibile nel buio, fuori dal perimetro della torre.
Rumore di foglie secche.
Foglie secche calpestate.
Foglie
secche
calpestate.
Ci alziamo quasi all’unisono, in silenzio, attonite; cerco a tentoni il fucile, con la mano che trema.
Qualcuno o qualcosa sta salendo dal pendio e calpestando le foglie.
In pochi secondi penso un milione di cose tra le quali il Pass Bianco, Grimmone, Panzer-2 e altre meno logiche.
Scatto come in ipnosi fino al perimetro, il fucile tra le mani, mi appoggio contro la roccia della parete mentre le altre fanno velo.
Non so cosa aspettarmi.
Mi sento tradita, colpita a freddo.
Avevano detto che per ventiquattro fottute ore non ci sarebbe capitato nulla.
Punto l’arma verso qualsiasi cosa stia salendo dal pendio, appena oltre la barricata, e la cosa guarda me di rimando.
Ho conosciuto molti tipi di paura da quando sono qui, in Illumina, ma quella che sento adesso è ancora diversa da tutte le altre. È un senso di vuoto, di stordimento, un respiro che non si riempie.
Dura il tempo di capire cosa ho davanti, a pochi metri, nel buio.
Ho visto il diavolo, una volta, in Iraq.
Ma fantasmi no, non ne ho mai visti.
Fino ad ora, adesso, stanotte, qui: ora un fantasma ce l’ho davanti.
Un fantasma esattamente come sono i fantasmi.
Illuminato appena dalla luna e le stelle.
Una cazzo di figura bianca, in una veste candida, senza volto e coi capelli lunghi agitati dalla brezza notturna.
Con un coltello in mano.
Madonna santissima il cuore che mi sale fino in gola.
Ho il fucile teso con la canna che oscilla per il tremore alle mani.
E una mano il fantasma la solleva, anzi due, perché sono incatenate assieme.
Una cosa a metà tra un saluto e un laconico non spararmi.
Guardiamo allucinate, tutte, e forse dovrei spararle sul serio, perché cazzo, non puoi uscire dalla notte ed essere uguale sputata a un film horror, un’allucinazione cacata fuori dal più brutto degli incubi.
Non puoi.
Non è giusto.
Per le mie coronarie, i miei nervi, i nostri nervi, la nostra sanità mentale.
Non puoi.
Non è giusto.
“Cristo santissimo,” abbasso il fucile e reclino il capo cercando di ossigenare i polmoni.
È lei.
Serenity.
La reclusa.
Serenity.
Con la sottoveste bianca carezzata dal vento, la maschera di kevlar sigillata al volto, le catene trascinate e i suoi fottuti occhi a palla sgranati.
Madonna Cristo.
Non è già tutto orribile su quest’isola, no.
Ci mancava la donna fantasma, lo spirito irrequieto, con le catene addosso e la maschera sulla faccia.
Ci mancava.
Le vado incontro, ancora lottando per normalizzare il respiro, fino a starle di fronte, a squadrarla per intero senza sapere cosa aspettarmi, se un’insidia, un pericolo, se niente.
“Come sei arrivata fino a qui?”
Nella luce fioca della luna lei alza di spalle e accenna verso l’alto, al cielo stellato. Mi sono scordata che non può parlare e in ogni caso non ho capito cosa intenda.
A dirla tutta, mi ero dimenticata della sua esistenza, di averla incontrata, tentata di liberare. Di quello che ha detto Taif, che sta con le Erinni.
Con le Erinni.
Ho davanti una ragazza che s’è fatta non so quanti chilometri per tutto il giorno, fino a qui, scalza, incatenata mani e piedi, con una maschera orribile sulla faccia e un bavaglio in bocca.
E mi dicono che sta con le Erinni.
Adesso
che
cazzo
faccio?
L’ansia.
L’unica cosa che mi sembra sensato fare.
“Vieni,” rimetto a tracolla il fucile, le faccio strada verso il circolo di pietra che è la torre, “Vieni.”
Le altre mi guardano attonite, Cerbera più di tutte.
È una delle nostre. Non posso mandarla via, non dopo che mi sono scordata di lei lasciandola nel forte, non dopo che s’è fatta tutta questa strada in condizioni pietose.
Cammina a passi stanchi, strascicati, con lo sferragliare di catene a farle eco; la guido al falò, la faccio sedere lì, accanto al fuoco. Jade, al vederla, ha uno sguardo inorridito.
Il modo in cui siede, guardandosi attorno coi suoi dannati occhi a palla, la fa sembrare una gazzella: sospettosa, inquieta, tesa.
Siedo accanto a lei: mi sento in colpa e assieme ne ho una paura fottuta.
“Stai bene?”
Annuisce appena.
“Non sei arrivata in tempo, noi abbiamo aspettato un po’, poi…”
Mostra le mani incatenate, senza guardarmi, come a dire che ha qualche problema di mobilità.
Che vuoi dirle?
Mi offre il coltello, la lama appartenuta a Foxx la Volpe che le ho lasciato prima di abbandonarla al suo destino. L’accetto dopo aver ricacciato a fondo l’idea che una coltellata voglia ficcarmela nello stomaco dopo quel che le ho, le abbiamo fatto.
“E sei arrivata fin qui camminando tutto il giorno?”
Altro annuire accennato.
“Come sei fuggita dal forte? Cioè, cazzo, non puoi neanche correre.”
Alza di spalle, mima un paio di gesti con le mani che credo vogliano dire camminando.
Madonna il fastidio che mi dà il fatto che non si riesca a comunicare in modo decente.
“Ehi,” accenno alle quattro cretine che ci fissano impalate, “Venite qua. È una nostra compagna di squadra, cazzo.”
Cerbera fa segno di no ma non voglio sentire ragioni: faccio segno di venire a sedersi qui, con noi, e loro ubbidiscono dopo una lunga esitazione. Serenity sembra a disagio attorniata da noialtre.
“Tranquilla,” cerco un sorriso affabile che viene fuori patetico, “Sei con noi adesso. Qui siamo al sicuro.”
Mi guarda soppesando le mie parole, poi solleva le mani a mostrare la catena, gli anelli tintinnano tra loro.
Come gliele apriamo quelle dannate cose?
“Non abbiamo un grimaldello, qualcosa?”
Si guardano tra loro come se avessi parlato in farsi.
Madonna santa.
“Senti,” la guardo, lei mi guarda, “Ti libereremo, d’accordo? Dobbiamo solo capire come fare. Promesso.”
Annuisce appena.
Rhonda le controlla il retro della maschera e il lucchetto che la tiene chiusa. “Perché ti hanno ridotta così?”
Alza di spalle che non ne ha idea.
Non riesco a immaginarlo io stessa. Questo non è un film, anche se lo sembra.
Vorrei che lo fosse, un film.
La guardo per bene, nella luce del falò; ha un corpo slanciato, filante, non particolarmente lavorato, le mani dalle dita lunghe e snelle, un seno discreto. I capelli, lisci e di un colore castano brillante, le cadono fin oltre le spalle.
E gli occhi. Occhi verdi, di un verde strano, quasi brillante, tondi, sporgenti.
Dei dannati occhi a palla.
Sembra che la nostra squadra abbia il suo sesto componente. Che la missione al forte abbia avuto ancor più successo del previsto.
Le offrirei da bere, se solo potesse bere con quella dannata maschera indosso.
“Tratterò con i produttori,” prometto cercandone lo sguardo, “Ci devono dare un qualcosa per aprire le catene e dei vestiti da farti mettere. Okay?”
Mi scandaglia con quei due fanali verdi, poi annuisce.
È una reclusa, ha avuto problemi con la giustizia. Che diavolo di crimine possa aver commesso una così non lo so e forse non lo voglio neanche sapere. Non mi stupisce neppure con quegli occhi da bambola assassina.
Sarà quest’isola.
Sarà Illumina.
 
***
 
L’interno della casetta detentiva era vuoto e volutamente mal illuminato con solo una lampada da garage.
La luce del primissimo giorno di fatto non filtrava dal paio di finestrelle sbarrate.
Arpa si accosciò davanti alla figura seminuda, seduta su una seggiola troppo piccola, legata con fascette di plastica: i segni rossi scavati su polsi e caviglie se li era fatti strattonando con foga. La squadrò, china in avanti: tremava come una foglia.
“Ehi.” Schioccò le dita. “Ci sei?”
Ottenne solo un rantolo sommesso; l’interrogatrice, piantata a braccia conserte dietro di lei, accennò con disprezzo. “È una senza-palle.”
Porsha guardò lei poi la prigioniera tremante, fece un cenno torvo.
L’Erinni sollevò il capo della ragazza per i capelli, brusca: il volto di Foxx la Volpe, già tumefatto, si era arricchito di segni più freschi. Aveva gli occhi gonfi di pianto e mezzi chiusi; un fiotto di sangue le sbrodolò dalle labbra sulle cosce nude.
La comandante di Fort Liandra arricciò il naso, disgustata.
“Ci sei?”
Foxx emise un mugolio soffocato. “Basta…” La sua voce era un soffio tremulo. “Per favore, basta…”
“Vogliamo solo la verità, Francesca. Soltanto questo.”
“L’ho detta tutta… tutta quanta…”
“Me l’hanno riferita, sì. Ma voglio che tu mi guardi e mi assicuri che è andata proprio come hai detto. Avevate catturato le nuove, le avete portate al campo, loro si sono liberate, vi hanno prese di sorpresa e costrette a collaborare. È corretto, Francesca?”
Lei annuì, gli occhi chiusi in un lungo momento di dolore.
“Quindi Jade il Procione era sotto minaccia quando ha accompagnato Mercury al forte, corretto?”
“Sì…”
“E l’esplosivo non sai da dove l’abbiano preso.”
“No, lo giuro, lo giuro.”
Porsha ravviò i capelli al lato della testa, un modo per mettere in risalto l’ornamento ad ala di pipistrello assicurato sopra l’orecchio. Lisciò il mento e fece trascorrere i secondi in uno studiato silenzio da orazione.
“Cosa devo fare con te, Francesca?”
Lei sussultò per un attimo, scossa da un singhiozzo. “Ti prego…”
“Siete state inefficienti e improduttive, vi siete fatte sorprendere da tre nuove disarmate. Vi siete piegate ai loro ricatti. Queste cose non vanno bene, Francesca, non vanno bene per nulla.”
“Ti prego…”
“Dovrò spiegare tutto ad Atreja, fare il resoconto dei danni e delle perdite che la vostra incompetenza ha prodotto, e sentire cosa vuole che faccia con te. O meglio, quanto tempo vuole che tu rimanga viva a riflettere sugli errori che avete commesso.”
“No, per favore, no…”
“Ti ricordi cosa ha fatto con Miriam, sì? Quella ragazza-Panda ha urlato per giorni, ti ricordi, Arpa? Non si dormiva la notte, una cosa orribile.”
 Lei annuì cupa, le labbra increspate. “Mi ricordo sì, orribile davvero.”
“Ti prego, Porsha… ti prego…”
Un altro silenzio prolungato, voluto, nel vuoto mal illuminato della casupola.
Porsha mosse qualche passo intorno, pensierosa, alternando gli sguardi tra la figura emaciata, sanguinante, di Foxx e il pavimento di assi di legno.
“Però,” scandì fermandosi in un’elegante posa a mani dietro la schiena, “Atreja non è qui, ora. Potrei dirle che ti ho mandata a lavorare nella caletta, potrei dirglielo, e invece io e te potremmo trovare una soluzione diversa, Francesca.”
Lei annuì appena, il respiro affannoso. “Sì…”
“Potrei darti un’occasione di riscatto. Se ti renderai utile per trovare le nuove, ora che si sono nascoste, potrei lasciarti andare quando tutto sarà finito.”
Gli occhi della Volpe s’illuminarono di un vigore disperato. “Le troverò per te, Porsha…”
“Me lo auguro. Però io ho bisogno di garanzie, ragazza, devo essere sicura che se ti lascio vivere non fuggirai o, peggio, non passerai dalla parte delle nuove. Lo capisci questo, sì?”
“Te lo giuro, non lo farò!”
La zittì con un cenno della mano aperta. “Non voglio giuramenti. Voglio solo una prova che sei affidabile, una sola.”
Foxx annuì, attonita, scossa dai singulti.
Porsha la guardò per un lungo momento prima di scostarsi, andare alla porta della casupola, aprirla. Dietro di lei entrarono due coppie di Erinni, ciascuna portando a braccia un cadavere; la Volpe fissò inorridita i corpi senza vita di Tania e Ginger essere scaricati senza cerimonie sul pavimento, uno accanto all’altro. Avevano ancora l’espressione di sofferenza, d’agonia, che era rimasta impressa sui loro volti ormai rigidi.
Il lezzo del sangue le invase le già provate narici.
Porsha congedò le quattro guardie che uscirono senza proferir parola, mentre una nuova figura, incappucciata, era entrata al loro posto: una silhouette femminile, alta, chiusa in una giacca lunga di pelle scura.
Foxx guardava senza capire, tremante, il dolore dell’interrogatorio ancora più che vivo sulle membra.
“Vedi, io vorrei fidarmi di te sulla parola, Francesca. Ma viviamo in un mondo in cui la parola non è sufficiente, serve di più.”
La nuova venuta sembrava guardarla, confusa con le ombre, osservarne con curiosità il corpo quasi nudo, seduto su una seggiola troppo piccola, i segni delle torture sulla pelle, gli sfregi a polsi e caviglie laddove le fascette avevano segnato la carne.
“Ti prego, Porsha, ti supplico… Farò tutto quello che vuoi…”
“Ma certo, lo so. È solo una piccola prova, per essere sicure che posso fidarmi di te. Atreja non ne saprà nulla, se andrà tutto per il meglio.”
Arpa, Porsha, spostarono l’attenzione sulla donna incappucciata; lei si chinò, lenta, sfiorò con una mano la salma di Tania, il suo costume insanguinato, la ritrasse. Lasciò vagare la stessa mano in cerchio pochi centimetri al di sopra dello squarcio aperto sul suo ventre, come cercasse di percepire un calore fuggito ormai da tempo.
La Volpe respirava fitto, scossa da piccoli singulti di tensione e paura.
Guardò la nuova venuta spostarsi accanto al corpo di Nancy, fare le stesse identiche movenze, poi tastarla, allargare le labbra della ferita da lama sul fegato. Era come se stesse cercando qualcosa.
Foxx fissava lei e i cadaveri ormai pallidi di due delle quattro donne che avrebbe chiamato sorelle, uccise a tradimento, assassinate. C’era un breve idillio che avevano vissuto, loro, la Gang-Bang del Bosco, fatto di comunione, condivisione, amicizia, passione, legami forti, indissolubili. Un idillio finito troppo presto, di notte, alla luce del fuoco.
Un idillio che giaceva morto e assassinato come la Gazza e lo Scoiattolo.
Si erano fidate delle persone sbagliate.
Avevano pagato un prezzo altissimo.
Un prezzo smisurato.
Ci fu come un fremito, nel silenzio, un impulso emotivo che la Volpe non seppe dire se appartenesse a se stessa o meno.
L’Erinni incappucciata si mosse, lasciò la ferita ormai dissanguata di Ginger e si accostò al suo volto, si chinò su di lei.
Nancy aveva gli occhi chiusi, le labbra aperte e uno scolo di sangue secco al lato della bocca. Foxx fu certa che la donna, inginocchiata, le stesse sussurrando qualcosa.
C’era un silenzio orribile.
Porsha, Arpa, attendevano immobili, a lato della scena, come semplici comparse.
Le sussurrava qualcosa d’incomprensibile, accanto all’orecchio.
Il senso di disgusto e fastidio che quella scena le provocava aumentava secondo dopo secondo. La Volpe respirava al ritmo serrato dell’ansia.
Sembravano un quadro crepuscolare: loro statiche, in religiosa attesa, la nuova venuta, i corpi uccisi delle sue migliori amiche.
Un teatro del macabro.
Un brutto sogno.
Foxx fece per parlare, per rompere l’angoscia, per chiedere cosa significasse quello spettacolo, ma non ci riuscì mai: la voce le morì in gola e il respiro si mozzò di netto quando si rese conto che le labbra di Ginger si stavano muovendo.
Che stavano parlando.
Scandendo qualcosa.
Che aveva gli occhi aperti, sgranati, fissi al soffitto.
Un senso d’orrore le prese il ventre.
Ginger parlava senza suono, scandendo con le labbra livide.
L’orrore.
L’abisso in una casupola senza arredo, con l’odore del sangue e quello muschiato della paura.
L’orrore.
Tutto finì in pochi, concitati secondi. L’Erinni incappucciata s’alzò da terra, lenta, si spostò accanto alla Volpe prigioniera: si chinò davanti a lei e il suo fremere di tensione e sgomento, gli occhi dilatati.
Un lungo attimo di silenzio.
“L’isola mi ha parlato, attraverso Nancy,” scandì la nuova venuta in tono quieto, “Mi ha raccontato ogni cosa.”
Foxx spostò le iridi sul cadavere della compagna, congelato nel rigor mortis, gli occhi ora chiusi e le labbra cianotiche.
“Mi ha detto tutto: avevate un accordo con le nuove, vi eravate alleate con loro, prima che vi tradissero.”
“No…” Lei scosse la testa, un pigolio di sgomento.
“Sì, invece. Lei ha detto la verità, tu no. L’isola non mente, dovresti saperlo.”
“No, no, no, no…”
La voce sempre più rotta dalla disperazione.
“Così non va bene, Francesca.”
La donna abbassò il cappuccio, svelando un volto pieno, dalle labbra e gli zigomi marcati. Dai folti capelli neri in disordine. Gli occhi scuri come ossidiana. “Non va bene per nulla.”
“NO!”
Il sangue della Volpe divenne neve causandole un formicolio negli arti. Impallidì di colpo e il respiro le andò in iperventilazione. “No, ti prego, ti prego, ti supplico…”
Atreja tornò eretta con un movimento maestoso che ne esaltò la silhouette atletica. “Forza e coraggio, Francesca. Hai davanti una strada che sarà molto impegnativa. E farà male. Male in un modo che non puoi ancora immaginare.”
Sorrise con solo un lato della bocca, mentre il relitto di donna che aveva davanti scoppiava in un pianto disperato, allucinato, strattonando i legami in un violento attacco di panico.
“Più di tutto, sarà lunga.”
“TI PREGO, ATREJA, TI PREGO! TI SCONGIURO!”
Porsha e Arpa guardavano in silenzio, a qualche passo di distanza.
“Così lunga che non ti assicuro abbia davvero una fine.”
Le ultime urla di Foxx la Volpe svanirono dietro un cappuccio di tela che le fu calato sul capo dall’interrogatrice.
La regina delle Erinni si scostò con un gesto austero e uscì fuori, nella prima luce dell’alba, le sue compagne seguirono da presso.
“Sempre detto che le clown dei boschi non erano affidabili,” scandì Porsha attestandosi dietro la propria comandante.
Atreja alzò di spalle. “Hai più cinismo di me.”
Rivolsero tutte e tre lo sguardo ai lavori che iniziavano a fervere sul tratto di recinzione provvisoria con la prima luce del giorno, una breve fila di prigioniere in arrivo da oltre la Porta per accelerare i tempi di ricostruzione.
Le guardie entrarono nella casupola per portarne fuori i cadaveri della Gazza e dello Scoiattolo e caricarli sul vano di uno dei due grossi pick-up Volkswagen mimetici, corazzati, che attendevano lì accanto.
“Ricordate quello che ho detto ieri notte,” Atreja scandì con qualche ombra sul viso, l’espressione corrucciata, “Niente fretta, niente azioni avventate. Lasciamo che siano queste nuove a fare la prima mossa, e vediamo cosa succede.”
“Al proposito,” Porsha storse le labbra in un’espressione torva, “Pensavo di mandare delle squadre a controllare i principali punti d’interesse in zona. Non credo che si nascondano in questa regione, ma è solo per scrupolo.”
Lei fece segno di no, fosca. “Niente iniziative. Continueremo tutte con le attività di routine, come se loro non esistessero.”
“Ma è per portarsi avanti, cominciare a chiudere il cerchio.”
“No. Le fuggitive saranno da qualche parte a sud, su questo non ho molti dubbi, ma lascerò che se ne occupi Borea, è la più vicina. Tu penserai a rimettere in sicurezza il forte, e null’altro, per ora.” Si voltò a guardarla, i capelli neri smossi dalla brezza mattutina. “Sento che qualcosa non va, Porsha.”
Lei stranì: il suo piglio cupo, che non ricordava da molto tempo, la lasciò di sasso. “Di che stai parlando?”
Atreja fece un cenno dell’indice come a circondare l’intera Galena. “La voce dell’isola: è strana, anomala. È restia.”
Il silenzio costernato che seguì durò svariati secondi.
“Che significa?”
“Che qualche meccanismo non sta funzionando come dovrebbe. E questo mi preoccupa. Molto.”
Occhiata carica.
“Ma tu… tu sai di cosa si tratta?”
Atreja non rispose, avviandosi al pick-up più vicino; aprì la portiera del passeggero e si issò con un piede sulla pedana sottoporta, aggrappata al maniglione esterno. Rimase a guardare il nulla per un lungo momento prima di tornare a rivolgersi verso Porsha, in fervida attesa.
“Solo uno sgradevole sospetto.” Batté sul tettuccio del mezzo in uno scarico di tensione. “Porto i corpi a Flamia, poi me ne torno sulle rupi. Devo riflettere. E parlare ancora con l’isola.”
Lo sguardo di Porsha, corrucciato, tradiva una certa tensione. “Ma corriamo qualche rischio?”
La regina delle Erinni accennò un sorriso solo dopo un’attesa interminabile. “No, nessuno concreto. Prenderemo queste nuove, Porsha, al momento opportuno. Sai cosa faremo di loro? Le cuciremo tutte assieme e ne faremo una grande bandiera, da issare sul punto più alto di Galena: per far vedere al mondo chi è che governa Illumina. Chi sono le più forti, sempre e comunque.”
Si sporse a stringerle una spalla, l’espressione di nuovo energica, fiera.
“Restate vigili e attendiamo che si muovano loro per prime. Niente imprudenze, niente fretta. Tienimi informata.”
“Certo.”
Atreja sedette sul sedile del passeggero, la portiera richiusa con un movimento sicuro. La guardò dal finestrino abbassato.
“Non fate parola di quel che ho detto, con nessuna. La mia è solo una sensazione.”
Attese il loro assenso prima di dar voce all’Erinni alla guida.
I due pick-up si mossero sul terreno polveroso, avviandosi al cancello del forte.
 
***

[continua]

Petunia

Petunia
Moderatore
Moderatore

Finalmente in scena Atreja e le Erinni.
Continua? Continua l’epilogo oppure inizia un nuovo “volume”?
Non tenermi sulle spine, ormai mi hai presa all’amo!
Epilogo che getta le basi per nuove avventure. Potrebbe essere un prodotto perfetto per Netflix o addirittura per il cinema di genere.
Le battute sono già scritte, i personaggi caratterizzati e leggendo si ha l’impressione che il meglio (o il peggio) debba ancora venire.
C’è tanto da scrivere e da leggere ancora!
Ti segnalo una cosa che mi ha colpita in questo pezzo.
“Controllò l’orologio”
mi è sembrato un aggancio con la realtà molto forte. Come se si aprisse uno spiraglio. Penso sia voluto. È così?
Oh, e mi garba davvero questa storia non te lo dico per dire. Se hai imparato a conoscermi sai che sono sincera.
Sinceramente bravo. @Fante Scelto

Fante Scelto

Fante Scelto
Cavaliere Jedi
Cavaliere Jedi

Ti ringrazio molto, @Petunia

Sì, l'orologio è un richiamo alla realtà (ma anche al tempo che sull'isola è una variabile diversa dal resto del mondo), come lo sono gli smartphone che vengono usati spesso dalle protagoniste.

E sì, l'epilogo continua, è spezzato in due, trovi la seconda parte sempre qui in questa sezione.
Very Happy
Ma è l'ultimo, perché su quella si chiude il primo volume della saga.

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