***
Comunque, la sua figura in piedi, eretta, in qualche modo artistica, il fucile poggiato su una spalla, Charlie’s Angels è proprio un nome di merda.
Sto ricordando.
Ricordo la notte trascorsa e l’orrore.
Sto ricordando.
Fisso il vuoto consapevole che quest’immagine è piantata dentro la mia testa e non se ne va.
Eravamo in piedi al limite del campo, lì dove ora il dinosauro attende con sempre meno pazienza, io e questa Sigrid Montego di vent’anni, una che, invece di sfondarsi di canne e alcolici come tutti i suoi fottuti coetanei, va a caccia di animali per sport. Cose da ricchi. Cose da persone crudeli.
Nel ricordo il dinosauro non c’è.
La guardo seduta dove l’ho lasciata, col braccio contro il corpo, il viso sudato e i capelli in disordine sotto il berretto sempre portato all’incontrario. Non ha niente della spocchia che aveva stanotte.
Sto ricordando.
Comunque, la sua figura in piedi, eretta, in qualche modo artistica, il fucile poggiato su una spalla, Charlie’s Angels è proprio un nome di merda.
Il fucile in spalla ce l’ha messo con un gesto teatrale, studiato, da film. Ce lo ha messo dopo averlo avuto tra le mani, basso. Dopo averlo avuto tra le mani, teso.
Mancavano due colpi nel suo caricatore.
“Contro chi,” mormoro guardandola, “O contro cosa hai sparato, stanotte?”
I suoi occhi glaciali vagano per un momento poi tornano a fissarmi, consapevoli.
È come un film fatto andare in rewind, le immagini scorrono nel verso contrario e a velocità rallentata.
L’ampio sorriso bianchissimo di questa Artemide dei nostri giorni illumina il buio mentre appoggia il fucile in spalla con gesto artistico.
Comunque, scandisce, Charlie’s Angels è proprio un nome di merda.
La guardo, ci guardiamo.
Prima di metterlo in spalla ce lo aveva in mano. Basso, prima ancora teso.
Una donna corre attraverso il campo e verso il bosco, supera il perimetro, si lancia nella notte. Io, io le sto correndo dietro, sull’erba.
Corro ma quella è più veloce, è un gatto, so di non riuscire a raggiungerla. Freno brusca e mi fermo a ridosso del limite del campo, imprecando. Oltre il confine si muore, dentro si è al sicuro.
Non inseguirò una fuggitiva nei boschi, di notte, tra gli orrori di Illumina.
Follia.
“Ho cercato di prenderla,” mormoro come in trance.
Sigrid dischiude le labbra. “L’ho presa io…”
Guardo la ragazza scendere a rotta di collo il pendio erboso, saltare gli arbusti, agile come una scimmia. Si vede appena nel chiarore delle fiaccole.
Persa, andata, imprendibile ormai.
“La prendo io.”
Sigrid, Artemis, irrompe al mio fianco come la dea della caccia, berretto all’incontrario e fucile tra le mani. Ha un braccio sanguinante ma non sembra importarle. Si sistema in una posizione di tiro artistica, elegante, carabina tesa e allineata verso quel bersaglio che corre e salta nella notte.
“Stendila!”, la voce è la mia, alterata, euforica, assatanata, “Buttala giù, Cristo, abbattila!”
Ogni secondo che passa è adrenalina selvaggia, per me, per lei, è furia sregolata, senso di potere.
La sua espressione concentrata è quanto di più immagino simile alla trance agonistica.
Quando preme il grilletto e il colpo sibila nel silenzio, nella notte, tutto il mio corpo si ferma come in attesa, un brivido, l’istante più lungo della mia vita.
Baleno.
Posso seguire la traiettoria rallentata del proiettile mentre schizza libero verso il bersaglio, la notte, l’oscurità quasi completa.
Per un attimo è il nulla, poi il suono. È come un rantolo polmonare, un verso che viene dal petto, un germoglio sonoro che per un secondo, uno solo, spezza il silenzio e colma la notte.
La donna, la fuggitiva, rallenta brusca, si inarca per un attimo, ondeggia, le sue mani vanno di scatto alla schiena, come a cercare di raggiungere un punto nel mezzo, scacciare un insetto molesto. Brancica e artiglia a vuoto per un attimo, poi crolla su un ginocchio, l’altra gamba scivola di lato.
Poggia le mani a terra e il suo respiro è diventato un raschio che udiamo anche da tutti quei metri di distanza. Si accascia con un gesto pietoso.
Esulto.
Caccio un urlo da stadio, le braccia aperte, come fosse la finale, come un’intera curva avesse appena vomitato con me tutta la propria becera e faziosa gioia.
Sto esultando per la morte di un’altra donna. Un’avversaria.
Una nemica.
Adrenalina pura.
“Non ci credo,” sorrido, i pugni ancora stesi, esibiti, “Cazzo, non pensavo che avresti avuto il coraggio!”
Artemis mi guarda e nei suoi occhi c’è una soddisfazione che trascende l’umanità, che supera la comune ebbrezza.
“L’ho presa,” scandisce come in estasi, “L’ho presa.”
“Sì che l’hai presa, stronzetta! Allora lo sai usare il fucile, lo sai usare davvero!”
“Te l’avevo detto,” abbassa l’arma, le trema la mano, “Te l’avevo detto!”
“Sì che me l’avevi detto!”
“L’ho presa, l’ho presa!”
Alzo le braccia e improvviso due movimenti dei fianchi in una danza della vittoria. Non sono in me. Tutto gira, vortica, è ubriachezza.
Non sono io.
Quando riguardo verso il basso, al pendio erboso, il sorriso idiota mi svanisce dalla faccia. “Oh!” Afferro Sigrid per la spalla, la scuoto con forza, “Si sta rialzando!”
La donna, la fuggitiva, sta tornando in piedi. A fatica, come un animale ferito, sta cercando di riguadagnare la posizione eretta. Barcolla, trema, zoppica un passo in avanti. I suoi respiri ansanti, polmonari, arrivano fino a noi.
“Stendila, oh, ammazzala!”
Guardo Artemis rimettersi in posizione di tiro.
“Se la manchi la vai a inseguire tu, cazzo!”
Lei non ascolta le mie minacce, se ne fotte dell’agitazione: fissa il bersaglio attraverso il mirino dell’arma e trattiene il fiato, un bersaglio che si sta ora trascinando piegato in due, con la forza della disperazione, verso la tenebra.
Adrenalina.
Attesa.
Follia.
Lo sparo sibila per la seconda volta: un singolo istante e poi un verso sommesso.
La donna, nella culla della notte, irrigidisce di nuovo. Ha un tremito, una scarica elettrica, rimane come sospesa in avanti per un singolo passo ancora, poi cade.
Cade in avanti, di sasso, accasciandosi al suolo e lì rimane.
Prorompo di nuovo in un verso sguaiato, i pugni alzati in trionfo. Sono una pazza che gode della morte d’un’altra.
“Sei la dea del tirassegno,” rido scuotendo Sigrid per le spalle.
“Sono la dea della caccia.”
“Ti adoro.”
Lei si scosta, ebbra, sorridente. Negli occhi ha la soddisfazione del campione ma anche la fame del cannibale. S’appoggia il fucile in spalla con un gesto artistico. “Comunque,” scandisce, “Charlie’s Angels è proprio un nome di merda.”
***
Abbiamo sparato noi a una fuggitiva. Chi fosse non riesco a recuperarlo dai miei ricordi.
Il suo corpo è da qualche parte giù dal pendio, oltre il sauro che ha ripreso a vagare lungo la linea immaginaria del campo.
“Hai sparato a una persona,” mormoro guardandola a metà tra soggezione e sorpresa, “Benvenuta nel club.”
Il suo sguardo stanco balugina fiero. “Dicevi che non ce l’avrei fatta.”
Sorrido a disagio. “Mi sarò sbagliata.”
“Non mettermi mai più in dubbio.”
Stronza. “Avevi già il braccio ferito. Ti hanno colpita prima. E il fucile lo reggevi comunque.”
“Non sentivo dolore.”
“Eravamo strafatte.”
Perché abbiamo sparato a una fuggitiva?
Non ho mai desiderato ricordare qualcosa quanto ora. Rivedo immagini sfocate, dettagli, nessuna circostanza. Sento l’adrenalina nel sangue, l’eccitazione dello scontro, le mie mani tremano ancora leggermente per lo sforzo profuso.
Le mie mani.
La mano destra.
I segni rossi sul dorso.
Sulle nocche.
No, no, no, non è quello che penso.
No, non ho fatto quello che penso.
Le nocche fanno un male porco.
Mi sono alzata da terra e scagliata sul nemico.
Sto ricordando anche se una parte di me non vuole affatto farlo.
L’avversaria è di schiena. È di schiena e gettata sopra qualcuno, quel qualcuno è Sigrid.
L’avversaria ha un coltellaccio nella mano e lo ha appena calato su di lei, trovando un braccio alzato a protezione. La lama lacera giacca e pelle.
Sangue schizza.
La afferro per le spalle e, con un verso animale, la trascino via da lei. Non ricordavo di avere tutta questa forza. Ha colpito la mia compagna e sono intervenuta. Da leader, da esempio. Da compagna.
La affronto.
Siamo una squadra.
Restiamo unite.
Siamo una squadra.
Lei ha un coltello, io niente.
Lei ha un coltello, io l’addestramento.
Caccia un verso e affonda la lama, schivo, rispondo col miglior destro dritto al petto.
Lei ha un coltello, io la boxe. Sono brava con la boxe.
Il suo verso sguaiato tradisce dolore, sorpresa, scarsa lucidità; mi è addosso con un balzo, cerca il cuore, le blocco il polso, mi travolge. Cadiamo sull’erba, avvinghiate, sudate, tutto ha di nuovo un assurdo sapore sadico e saffico. Digrigna i denti e un fiotto di saliva cade sulla mia guancia.
Siamo vicine, viso a viso, e non posso non riconoscerla.
I tratti forti, peculiari, la mascella marcata.
Siamo vicine, viso a viso, e quel volto è di Foxx, la volpe.
Foxx.
La volpe.
È forte, la più forte della sua gang. I muscoli le si tendono nel tentativo di spezzare la mia difesa. Reggo quel polso armato a fatica. La sua sinistra, libera, mi schiaccia il volto, cerca di cavarmi gli occhi. Potrei fare lo stesso, dovrei fare lo stesso, invece tiro indietro il pugno, glielo scarico al lato della testa.
Il suo capo ondeggia a sinistra per un momento, la sua presa perde forza. Punto le gambe e, di rabbia, me la levo di dosso.
Ci rialziamo, la aggredisco, non trovo il varco.
Lei barcolla intontita dal colpo, affonda ancora cercando il ventre, schivo, la afferro per il cappuccio e tiro, tiro forte, per farla sbilanciare, tutto in un’unica sequenza. Lei ringhia, tenta di accoltellarmi il braccio, incespica, non aspetterò il terzo fendente. Una finta, la disoriento, poi è jab, jab, tre, quattro diretti in sequenza allo stomaco, infine uppercut alla mascella.
Sono brava con la boxe.
La volpe rimane per un attimo spaesata, confusa, con la mano armata che ciondola e un rantolo che le sale dal ventre. Ho tutto il tempo per una postura figa a guardia alta, solo per tirarmela, perché ci starà osservando il mondo ed è bello fare le cose come nei film.
“Guardami, guardami, guardami,” le cantileno muovendo il pugno, “Guardami bene.”
Ho vinto, me la sto solo tirando, è una sensazione incredibile.
Le scarico il destro al lato del volto, il sangue schizza dalle labbra, caldo, lo sento sulla mano. Foxx barcolla come fulminata, rimane un istante eretta poi crolla di sasso, s’accascia di faccia nell’erba.
Apro le braccia in un gesto di trionfo, annuendo con la lingua tra i denti e nessuna cognizione di cosa ho intorno. Neanche m’importa.
La notte è un’arena che invoca Mercury, Mercury, Mercury.
Mai stata così bene.
Mai stata.
Così.
Bene.
Sento freddo.
Guardo la mano destra che è sporca di sangue. Sotto il sangue ci sono le nocche abrase.
Le nocche fanno un male porco come tutto il resto.
Ho pestato di pugni un’avversaria e quell’avversaria era Foxx, la volpe.
“Non è possibile.”
Sento freddo, qualcosa dentro, un orrore, un panico, un senso di miseria e dissesto.
“Dio Santo.”
Sigrid mi guarda, se c’è della sorpresa riesce a nasconderlo molto meglio di me. “Ha cercato di uccidermi.”
“L’ho stesa a pugni.”
“Perché sei un’animale, ma va bene così.”
Sono un animale. Ho massacrato Foxx la volpe.
Perché?
Perché ci ha aggredite?
Cosa voleva?
È stata la droga? Quel che abbiamo inalato?
Reclino il capo con la mano stretta al petto. “Abbiamo fatto un casino.”
“Ci ha aggredite, ci siamo difese.”
“E le altre?!”
La volpe ci ha aggredito.
C’è un motivo, c’è per forza.
Continuo a ricordare, le immagini si affollano nel caos della mia testa. Ricordo come è iniziato, la vedo, lì, lei, seduta e poi di colpo all’impiedi, senza motivo, con la mano che va al coltello.
Lo sguardo folle, impazzito.
Ricordo che siamo sedute, sfatte, che lei si alza di scatto, estrae la lama.
Anche io mi alzo di scatto ma non ho una lama da estrarre.
“Che cosa è successo qui?” Mormoro sapendo che le risposte stanno arrivando, affiorano una dopo l’altra, incasinate e contorte.
Rivedo la scena perché è nella mia testa, l’ho vissuta, ero lì.
La volpe si alza di scatto, la sua mano va al coltello, lo manca per la foga, lo agguanta, estrae. Ha due occhi da pazza, fuori di sé, mi guarda. Ci guarda allucinata, ha tutta la rabbia del mondo.
Ci guarda e grida qualcosa, di furia, follia, coi denti serrati e gli occhi sgranati.
Non è l’unica.
Davanti a me, accanto a me, dove sto seduta, fatta, in balia dei fumi, lo scoiattolo, Nancy, getta via il flauto, il flauto d’osso di dinosauro. Le cade malamente mentre si scuote come da un incubo, con occhi folli anch’essa, mentre afferra un coltellaccio dalla cintura e, con un soffio da gatta, mi si avventa contro.
È tutto assurdo, impossibile.
Ci siamo fidate delle persone sbagliate.
Sono pazze, drogate, fuori di sé.
Mi alzo alla come viene, con l’istinto che schizza a mille e un’allerta generale dei sensi nonostante il caos dei fumi.
Mostrar le mani in un patetico tentativo di ragionare è inutile: Nancy, Ginger, lo scoiattolo, scatta con la lama in avanti cercando il mio ombelico.
La foga d’alzarsi, l’adrenalina; imprecisa e avventata mi si scaglia addosso, schivo alla meno peggio, le blocco il braccio, le giro il polso verso il basso e a lato, ma lei non molla la presa sulla lama. Restiamo avvinghiate e contorte per un momento, uno solo, prima che di foga mi si avventi contro col sinistro libero, m’arriva un pugno sopra la nuca, dolore, non mollo la mano armata, rispondo di ginocchio, d’istinto, mirando a cacciarle la rotula nello stomaco.
Il mio ginocchio si alza, prende il suo polso girato, manda tutto in alto. Mano, polso, coltello. Il verso che Nancy emette è un risucchio polmonare, un suono orribile: venti centimetri di lama d’acciaio le sono entrati nel fegato.
La lascio inorridita, la guardo barcollare con due occhi stralunati, arretrare, il sangue che scola sul ventre nudo. La lama piantata nella carne.
Quegli occhi, quegli occhi, c’è tutta la paura, l’orrore del mondo. Mi guarda atterrita, come fossi un mostro, un sauro, con la sua stessa arma piantata sotto il seno e un respiro osceno, affannato, un suono grottesco.
Mi dispiace, scandisco senza sentirmi, senza capire, Mi dispiace, cazzo!
Crolla seduta nell’erba e poi di schiena, le gambe che si divincolano e raspano il suolo. La testa reclinata fissa il cielo e si agita seguendo piccole convulsioni, i denti digrignati.
Il sangue zampilla sotto l’acciaio.
Le sue mani brancicano l’erba e vi si aggrappano come a restare attaccate alla vita.
Mi dispiace, mi sono difesa, è stato istinto!
Istinto che mi obbliga a voltarmi, il grido di rabbia e disperazione della volpe mentre si getta su Artemis per esigere vendetta. Mentre lottano e affonda la coltellata al suo braccio alzato.
È vita o morte, sopravvivenza.
Intervengo, c’è rabbia nei miei polmoni, nelle mani che fremono.
La afferro per le spalle e, con un verso animale, la trascino via da lei. Non ricordavo di avere tutta questa forza. Ha colpito la mia compagna e sono intervenuta. Da leader, da esempio. Da compagna.
La affronto.
Siamo una squadra.
Chiudo gli occhi per un attimo.
Li riapro.
Sposto lo sguardo, con orrore, sul corpo di Nancy, lo scoiattolo, che giace poco più in là, insanguinato.
Lì dove è caduta ed è rimasta a morire tra gli spasmi. Si vedono, a terra, i segni delle convulsioni che sono state il suo calvario finale.
“Dio Santo.”
Non ha il coltello nella ferita, non lo vedo.
Non fa differenza.
L’ho ammazzata io. Uccisa, per fatalità, per foga, per circostanza. È colpa mia, non è colpa mia. Ho trucidato Nancy e massacrato Foxx.
Sono venuta qui, in Illumina, per questo: per uccidere. Sono un soldato, ero un soldato, dovrebbe essere normale. Ero qui per questo, per uccidere, adesso è tutto folle, tutto insensato.
La testa mi gira.
“Perché ci hanno aggredite?”
“Perché sono pazze e strafatte.”
“C’è dell’altro. Me lo ricordo. Lo sto ricordando.”
“Sono pazze, ti dico.”
Ricordo.
La volpe rimane per un attimo spaesata, confusa, con la mano armata che ciondola e un rantolo che le sale dal ventre. Ho tutto il tempo per una postura figa a guardia alta, solo per tirarmela, perché ci starà osservando il mondo ed è bello fare le cose come nei film.
“Guardami, guardami, guardami,” le cantileno muovendo il pugno, “Guardami bene.”
Le scarico il destro al lato del volto, il sangue schizza dalle labbra, caldo, lo sento sulla mano. Foxx barcolla come fulminata, rimane un istante eretta poi crolla di sasso, s’accascia di faccia nell’erba.
Apro le braccia in un gesto di trionfo, annuendo con la lingua tra i denti e nessuna cognizione di cosa ho intorno. Neanche m’importa.
La notte è un’arena che invoca Mercury, Mercury, Mercury.
Sento lo sguardo inchiodato addosso d’una terza presenza, mi volto. Pochi metri e Saetta, la lepre, è lì. Fissa la mia figura arrossata, magnifica, guerriera, e nei suoi occhi c’è l’orrore, l’orrore di chi ha visto crepare due compagne tra le mani di un mostro senza scaglie né denti aguzzi.
Il mostro sono io.
L’arco di Saetta è vuoto, la freccia già scagliata altrove; la mano va alla faretra per cercare un altro dardo ma non gliene darò il tempo.
Scatto. Corro su di lei come un predatore, un superpredatore, le mani che fremono per colpire ancora, distruggere, istinto di sopravvivenza, di guerra.
Saetta, la Sabri, ha solo due scelte: tentare d’incoccare la freccia e tirare, in un paio di secondi, o correre.
Sceglie la seconda. Si lancia in corsa, una corsa disperata, verso il confine del campo.
Sono veloce, lo sono sempre stata, ma lei di più. Corro ma quella è più rapida, è un gatto, so di non riuscire a raggiungerla. Freno brusca e mi fermo a ridosso del limite del campo, imprecando. Oltre il confine si muore, dentro si è al sicuro.
Non inseguirò una fuggitiva nei boschi, di notte, tra gli orrori di Illumina.
Follia.
Guardo la ragazza scendere a rotta di collo il pendio erboso, saltare gli arbusti, agile come una scimmia. Si vede appena nel chiarore delle fiaccole.
Persa, andata, imprendibile ormai.
“La prendo io.”
Sigrid, Artemis, irrompe al mio fianco come la dea della caccia, berretto all’incontrario e fucile tra le mani.
“Era Saetta, la lepre.”
Sigrid annuisce appena, lo ricorda anche lei. Deve averne impiombati di conigli, conigli veri, quando ha iniziato a far pratica con la caccia.
Bastarda.
Mi piacciono i conigli. Più degli esseri umani.
La sua prima vittima, ironia della sorte, è un coniglio umano. Una donna-coniglio.
Saetta, la Sabri, la lepre.
Freddata alla schiena con due colpi di fucile da caccia.
Ironia del destino.
“Che cazzo abbiamo fatto,” mormoro per l’ennesima volta.
“Ne manca solo più una.”
“Cosa?”
Artemis accenna col capo. “Una. Il procione.”
Il corpo di Tania giace lì, poco distante, insanguinato.
Vorrei poter dimenticare tutto.
“Ne manca una.”
Sigrid accenna dietro di noi, al campo, il fucile in spalla.
Getto un’ultima occhiata al pendio erboso al fondo del quale biancheggia, appena visibile, il corpo abbattuto di Saetta. Mi avvio a passo marziale e lei segue da presso.
Raccolgo da terra un grosso bastone nodoso.
I miei passi sono i più sicuri che ricordo di aver mai mosso. Non c’è niente nella mia testa: solo marmorea determinazione, assenza di stimoli; seguo un pensiero e quel pensiero è meccanica esecuzione di un istinto, un istinto di supremazia, di sopraffazione. Non ho idea né voglio sapere quanto sia mio e quanto dettato dai fumi che impregnano i nostri sensi.
Marcio come l’araldo della giustizia verso l’ingresso della piccola caverna che la Gang-Bang usa come riparo: Jade, il procione, appare in quel momento sulla soglia. Ha gli occhi strizzati nella luce delle fiaccole, in viso i segni di una qualche alterazione da sostanze, in mano una scatoletta di latta con alcuni di quei funghi azzurri che devono essere la loro principale fonte di divertimento.
Gli spari l’hanno riportata a noi da qualsiasi mondo alternativo stesse visitando, sicuramente uno nel quale le sue compagne sono ancora vive. Nel quale io, il mostro, l’assassina, non esisto.
Jade ci guarda, mi guarda, senza capire, senza immaginare. Non sarebbe un pericolo neanche avesse un M16 in mano.
“Sorridi,” dico solo, prima di vibrarle una mazzata epica col legno sul lato della testa, un colpo che, fatta com’è, neanche vede arrivare.
Il suo squittio acuto è tutto ciò che risuona nella notte: crolla al suolo come un mucchio di stracci, scomposta.
Adesso è finita, finita qui.
“Potevo spararle,” Sigrid umetta le labbra, eccitata, “Sarebbe stato divertente.”
La guardo di storto. “I proiettili costano.”
Cingo le tempie con le mani.
Abbiamo fatto un casino.
Distrutto la Gang-Bang. Non eravamo in noi.
Neanche loro, ma noi di più.
Dio Santo.
“Non è colpa nostra,” Artemis scuote il capo, ravvia i capelli biondi, “Non abbiamo iniziato noi.”
“Io non lo so come cazzo è iniziata. Non lo so.”
“Tania.”
“No, no, abbiamo ballato, era tutto a posto. Me lo ricordo, Dio, me lo ricordo. Sorrideva, okay? Era tutto a posto.”
Guardo Sigrid e nei suoi occhi c’è stupore misto a una vibrazione che non interpreto.
“Ci eravamo coricate, ero stanca e mi pulsava la testa. Era tutto a posto.”
“Mercury…”
“Cosa?”
Annuisce. “Avete ballato, sì. Ma poi…”
Non posso credere di aver fatto del male anche a lei. Non posso, non lo accetto.
La ricordo ridere, mentre siamo prostrate a terra, intontite; poi lei si alza, si allontana.
“Voi siete malate a fare una cosa del genere, qui, in questo posto…!”
“È l’isola, è Illumina,” Nancy, la donna-scoiattolo, ride e mi atterra accanto, col volto arrossato dal calore e la nevicata di lentiggini che ha in faccia riluce d’improbabili riflessi aurati, “La comunione con il tutto.”
“Siete pazze e drogate.”
“Pensa alla vittoria, sorella, al bagno di sangue che ci sarà!”
Penso al bagno di sangue e tutto va ancora più veloce, più forte, s’incasina con le peggio pulsioni violente.
“Goditela, porca troia,” la voce collassata della volpe flagella il mio ego cosciente o quel che ne resta, mentre la sua mano m’accarezza i capelli come il manto d’uno spaniel.
“Me la godo, sì,” ma non ho più controllo alcuno e mi sembra di respirare acqua corrente.
Mai amato perdere il controllo di me stessa, mai.
La Gazza si accosta a Lucilla, le tende una mano, “Balla con me, tesoro, balla con me!”
Lei scuote la testa, attonita, ma la mano, le mani, la prendono e aiutano ad alzarsi.
“La notte è stellata stasera!”
Stelle cantano una cacofonia sgraziata arrotandosi l’una con l’altra.
La notte di Illumina è un macello onirico che vortica e fluttua intorno a me, a noi, che sa di caos primordiale.
Chiudo gli occhi e il carnevale dei pensieri mi travolge.
Li riapro.
Percepisco un moto di disappunto, d’incredulità, che non dovrebbe esserci. La voce stranita della Gazza.
“Cos’hai qui…?”
Mi volto a guardare dove Tania e Lucilla hanno interrotto la danza. Tania allunga una mano verso di lei, brusca, prende la croce che balugina nello scollo della maglietta.
Lucilla la fissa con occhi vibranti.
“Qui non si portano simboli religiosi. L’isola non accetta questi feticci, l’isola non accetta una fede artefatta.”
Radiosa storce le labbra. “Lasciami.”
In risposta, Tania le strappa la croce dal collo, ignora il suo tentativo di trattenerla. “Ridammela!” Si scosta, brusca, marcia verso il limite del campo, accelera il passo, quasi corre: scaglia via la collana nel buio, lontano, dove non c’è luce. Nel nulla notturno di Illumina.
Torna sui suoi passi sotto lo sguardo allucinato della suora. Si ferma a qualche passo da noi.
“Niente simboli religiosi,” la avverte con tono carico, poi si volta nella nostra direzione, “Anche voi: niente simboli religiosi, buttateli se li avete. Buttateli nel buio.”
Apro le mani con un gesto disinvolto. “Non sono credente.”
Sigrid scuote la testa nello stesso modo.
“Non fate una cazzata del genere,” la Gazza ravvia i capelli, tesa, “Galena non accetta altre fedi. Non fate questo errore, mai.”
Guardo Lucilla, più dietro, i suoi occhi tondi e luminosi sono sgranati, l’espressione stralunata; le faccio segno di stare calma, che è tutto a posto, che non c’è problema, una soluzione la troviamo.
“Lei è molto religiosa,” spiego in tono conciliante, “Era una suora, capisci? Ci crede proprio; se quella croce se la tiene, non so, in una tasca? Che fastidio darà mai all’isola?”
“Una suora?” Jade si alza, sorriso ebete sui tratti, “No, vabbé, ragazze, ho sentito abbastanza, vado a rilassarmi.” Si avvia alla grotta con un cenno civettuolo.
“Non scherzo, bella,” Tania non muta espressione, “Le divinità di merda del mondo oltre il mare io qui non le voglio. In questo campo, in questo rifugio, alla mia presenza, non le voglio. Guadagnare il favore dell’isola è dura, non lo perderò per le vostre credenze di carnevale. Se la cosa non vi sta bene, potete andarvene.”
Annuisco, sobria smorfia d’accettazione. “Va bene. D’accordo, non c’è problema. Me la vedo io con lei, ci ragiono appena si calma,” accenno verso Lucilla, gelida come una statua di sale, là dietro, nella penombra, “Non vogliamo andare contro l’isola, ci mancherebbe.”
Tania annuisce. Si rilassa, scioglie i muscoli dopo l’attimo di tensione. “Scusa se sembro brusca, ma qui non siamo nel mondo normale. Qui le cose succedono e spesso non hanno spiegazione.”
“Vero,” fa eco la volpe, lo sguardo perso dietro un tiro d’erba secca che ha appena finito di arrotolare con maestria, “Non dovete sfidare Galena con queste cazzate. Vi fate male solo voi.” Mi offre la stecca, faccio segno di no, che ho già un alveare nella testa.
Lei ride senza suono, tira di nuovo.
“Te lo dico, Mercury: c’è di che avere paura di questo posto. Ma se lo capisci, se lo capisci veramente,” Tania apre le braccia tatuate con in volto un’ombra e assieme la luce, “Questo è il Paradiso.”
È un attimo, uno solo.
La cosa che le esce dal ventre, di getto, d’improvviso, è rossa, lunga e fredda.
È un attimo d’orrore puro, di sgomento, nel quale manco un respiro e forse anche più d’uno.
Sangue fiotta avanti dal suo addome perforato.
Sangue.
Guardo atterrita la figura della Gazza Ladra che, le braccia rimaste aperte nel suo ultimo volo pindarico, fissa se stessa con occhi sgranati, dilatati, fissa la morte che è schizzata fuori dalle sue interiora.
Morte in forma di una lucente, implacabile spada.
Dalle labbra le sgorga un fiotto rosso che sono le sue ultime parole.
Io, Mercury, Silvia Irace, fatta e strafatta, guardo Tania che muore infilzata e, dietro di lei, la figura impossibile, regale, dell’angelo vendicatore.
Pelle candida e capelli platinati, Lucilla, Radiosa, ex suora, residuo di un’altra epoca, ha il viso solenne dei martiri militanti, gli occhi stretti in fessure dorate, i denti serrati nel più fine e sacrale odio.
Vorrei imprecare all’infinito ma non riesco a scandire parola.
I suoni si confondono e diventano un fischio sordo.
Nancy, lo scoiattolo, sgrana gli occhi e grida tutto il suo muto orrore. Getta via il flauto, il flauto d’osso di dinosauro. Si scuote come da un incubo, con occhi folli anch’essa, mentre afferra un coltellaccio dalla cintura e, con un soffio da gatta, mi si avventa contro.
È tutto assurdo, impossibile.
Ci siamo fidate delle persone sbagliate.
Sono pazze, drogate, fuori di sé.
Realizzo con orrore: si sono fidate loro delle persone sbagliate.
Mi volto, lenta, attonita, verso Lucilla. Sigrid fa lo stesso.
Lei se ne sta lì, in piedi, assente, consapevole. Forse ricorda tutto, da prima di noi. Il suo atteggiamento diverso, l’ostruzionismo, ora hanno un senso.
Questo luogo è folle.
Noi siamo folli.
“Sei stata tu,” mormoro incredula, attonita, “Hai causato tu questo macello…”
Lei mi guarda, indifferente, alza di spalle. “Se l’è cercata.”
Copro la bocca con una mano, un tocco di nausea. “Tu sei pazza…”
Lei si volta, smette di guardarmi, siede su uno dei massi con tutta la tranquillità del mondo, il suo mezzo culo di fuori, le gambe nude e pallide, i capelli che riverberano nella fioca luce del fuoco. “Lo siamo tutte.”
Scorre veloce, un turbinio d’azione e reazione, di violenza. Di adrenalina.
Tania crolla in ginocchio con Lucilla la Vendicatrice alle spalle e mezzo metro di spada fuori dal ventre.
Nancy, lo scoiattolo, fuori di sé, mi assale. Le giro la sua stessa lama nel fegato.
Mi scaglio su Foxx, la volpe, che intanto ha pugnalato Sigrid.
Saetta, la lepre, attonita, solleva l’arco e scaglia: la freccia sibila nel buio, sfiora il collo di Lucilla e si perde oltre. Saetta, la Sabri, la lepre, l’arciera che ha preso l’occhio di Grimmone, sbaglia il colpo. Anche senza croce Lucilla ha la protezione del suo Dio, o forse l’orrore ha tradito l’avversaria.
Massacro la volpe a pugni, poi punto Saetta. Ha una sola scelta: tentare il tiro o correre.
Scatto, sono veloce.
Sceglie la corsa.
È più veloce di me.
Le vado dietro ma m’inchiodo al limitare del campo: non inseguirò una fuggitiva nella notte.
“La prendo io,” Sigrid appare al mio fianco, punta, spara.
La lepre crolla impallinata.
Esulto, lei si rialza, si trascina.
Sigrid punta di nuovo, spara. Stavolta la lepre non si rialza più.
Charlie’s Angels è un nome di merda.
Torniamo sui nostri passi.
Jade, il procione, esce strafatta dalla grotta che è il loro dormitorio.
Le sfascio la testa col miglior bastone che ho trovato.
Fine del film.
Passeggio, senza fretta, con l’adrenalina che scarica, graduale, in un tremolio delle mani.
Lei è lì.
Non si è mossa da dove è iniziato tutto: in piedi, con le dita sull’impugnatura della spada; a terra c’è il corpo riverso e in sangue di Tania, la Gazza Ladra.
Vorrei coprire la suora d’insulti, chiederle quale buco di culo infernale l’abbia mai messa al mondo. Vorrei darle un pugno, forte, perché ha appena distrutto l’unica cosa buona che eravamo riuscite a costruire in Illumina.
Invece no.
La guardo, lì, assente, concentrata sulla spada che continua a stringere per l’impugnatura.
La guardo e rido.
Senza suono, solo un sussultare delle spalle; rido perché in un casino come questo, che sa di sangue e disperazione, puoi solo ridere o uscirne pazza.
Mi avvicino, senza fretta, finché non le sono accanto.
“Cosa stai facendo?” Chiedo, in un filo di voce. “Cosa cazzo stai facendo?”
Lei neanche mi guarda; storce il muso in un’espressione infastidita. “Non viene via.”
“Cosa non viene via?”
“La spada.”
Rido ancora, più forte, sempre senza suono.
La abbraccio. Un abbraccio illogico, ebbro, mentre ficco la faccia contro la sua e continuo a ridere. La spada non viene via dal cadavere nel quale è infitta: piccoli, grandi problemi della vita in Illumina.
La spada non viene via dal cadavere di Tania ed è la cosa più divertente del mondo, così rido, e rido ancora, abbracciata a lei, Radiosa, che sopporta in silenzio.
“E fai così,” prendo l’impugnatura, la guido nel muovere l’arma in tutte le direzioni, a strattoni decisi, prima di poggiare il piede sulla schiena della fu Gazza Ladra e tirar fuori la lama, ora libera. Il suono della carne lacerata è orribile ma neanche me ne accorgo dietro la barriera della Lacrimosa.
Pianto la spada nel terreno, senza cura, la guardo oscillare per un attimo: sembra né più né meno una croce. Una croce insanguinata.
“Siamo delle fottute assassine,” sorrido scostandomi, “E tu la peggiore di tutte.”
Lucilla abbassa lo sguardo, impossibile dire se per senso di colpa o volgare disinteresse: s’inginocchia di fronte alla spada, giunge le mani, inizia a pregare in silenzio.
Prega: ne abbiamo bisogno, tutte.
Io cammino, mesta, vado a sedere dove sedevo prima, accanto al fuoco. Nancy, lo scoiattolo, è ancora tra noi: stesa alla mia sinistra respira duro, a gorgoglii, mentre gli occhi sbarrati fissano le stelle. Un piede le si muove, su e giù sull’erba, in un qualche riflesso incontrollato. Dalle labbra, livide, sbrodola sangue scuro e denso.
Osservo indifferente.
“Abbreviamo la cosa?”
Allungo la mano al coltello che le spunta dal costato, prendo, lo estraggo con un movimento deciso. Lei si scuote in una convulsione orribile, sgrana di più ancora gli occhi, un verso soffocato si confonde in un rigurgito, poi s’abbandona di nuovo, inerme. Getto via la lama, nell’erba, lontano.
Il suo sguardo assente m’inquadra per un breve momento e in quegli occhi c’è tutta la paura del mondo, l’orrore, l’agonia. Non provo nulla, neanche quando il suo piede ricomincia a strusciare il terreno e i respiri le si fanno più grumosi, sofferti. Si dissanguerà entro pochi minuti.
M’appoggio a un grosso sasso, la testa che pulsa e vibra.
Sigrid fa lo stesso a poca distanza, il braccio sanguinante stretto a sé.
“Dovresti medicarlo,” ammonisco a mezza voce.
“Non ho il coraggio di guardare.”
“Problemi tuoi.”
Sorrido.
La testa cavalca ancora più forte.
“Mercury, sto per svenire…”
“Anche io, bella, anche io.”
Stiamo per svenire. Troppa adrenalina, dolore, caos. La testa non regge più.
Chiudo gli occhi.
Sprofondo nel baratro di colpo, cado in qualsiasi forma di sonno o incoscienza sia il rifugio ultimo della mia anima tormentata.
***