Il sole sorge.
Non avrei scommesso di riuscire a vederlo di nuovo, ventiquattr’ore fa.
Non avrei scommesso.
Eppure lo sto guardando, mentre sbuca fuori oltre le montagne lontane, dal lato del pendio, e riscalda l’aria.
Abbiamo dormito poco e alla buona, senza neppure chiuderci dentro il sotterraneo: abbiamo fiducia in questo benedetto Pass Bianco che dovrebbe durare fino a stasera.
Sono una buona comandante: la truppa ha il morale alto e sono riuscita a contattare il QG, a far mandare degli abiti nuovi per Serenity, così come uno strumento per forzare le catene. Ma non la maschera. Il lucchetto ha una serratura dal taglio bizzarro, e in ogni caso il Gallo Cedrone dice che deve restarle addosso, almeno per ora, per ragioni di privacy. Guai con la legge. Tutela della riservatezza.
Cazzate del genere.
Non frega niente a nessuno che sia pure imbavagliata; non oso immaginare che voglia dire stare con la bocca tappata per giorni. L’ansia.
“Mercury.”
Il tono già non mi piace.
Vorrei un Pass anche per evitarmi queste incombenze.
Un Pass per stare fuori dal mondo e via da tutto e tutti.
Tutto e tutte.
Mi volto. Cerbera abbassa quasi subito gli occhi. Fa un effetto strepitoso nella sua nuova uniforme Ferox Pious, grigia mimetica, con una specie di camicia legata sotto il seno e i calzoni attillati, lunghi al ginocchio, pieni di strappi. Questa cosa che devono darle i pantaloni strappati è un must.
Ai piedi ha due stivaletti corti, beige, di ottima fattura.
Ripulita dalle miserie, con la tartaruga in mostra, gambe e culo esaltati, con la massa di capelli ricci a cascarle lungo spalle e schiena, sembra davvero un’icona sexy, mezza italiana e mezza africana, in vesti pseudo-militari.
“Cosa?”
Lei torna a guardarmi e lo fa con occhi verdastri cupi. “Non voglio metterti in dubbio, Mercury, però…”
“Però cosa?”
Si guarda attorno, che le altre siano a distanza di sicurezza, poi abbassa il tono. “Per favore, mandala via quella.”
Vago le iridi, d’istinto, su Serenity, che è intenta a medicarsi i polsi dai segni delle catene. Sta bene nel completo forse più sobrio della nostra fottuta sexy-squadra, uno smanicato che assomiglia a un gilet tattico, grigio e nero, sopra calzoni lunghi, non attillati, dello stesso grigio mimetico che ci accomuna tutte, irto di cinturini, scarselle e tasche. Un paio di anfibi neri.
Non ha un gran fisico, sembra anche lei più una modella che una guerriera.
Torno da Taif con un sospiro. “Senti, capisco cosa avete passato in quel dannato forte. Ma io non credo che lei sia dalla parte delle Erinni, okay? Non ha senso.”
“Porsha ha detto così. Che era l’unica di noi che se lo meritava.”
“Ma non vuol dire che lei abbia accettato. Hai visto com’era ridotta? Quando sono entrata nella sua cella, cazzo, l’avevano incatenata al pavimento. Non mi sembra il modo di tenere una che è diventata un’Erinni.”
“Pensaci, Mercury. Potrebbe essere tutto voluto: ci hanno fatto credere di averla liberata, che sta con noi, invece quella… quella ci taglierà la gola nel sonno. O comunicherà a Porsha dove siamo nascoste.”
Brivido.
“Io non lo penso.”
“E quella maschera orribile? Perché mai deve tenerla indosso? Non sappiamo chi è, come si chiama, cosa ha fatto, non sappiamo niente!”
“È una carcerata, è per la privacy.”
“Privacy? Possono mettere i nostri culi su internet per sponsorizzare la crema solare, possono riprenderci mentre veniamo sbudellate da un mostro, e lei non può far vedere la faccia? Non puoi credere a questa cazzata.”
Piego le labbra. “Va bene, allora dimmelo tu perché vogliono che tenga la maschera.”
“Perché non è la nostra vera compagna di squadra: è una che le somiglia che le Erinni hanno messo in quella cella perché noi la liberassimo e portassimo con noi.”
Cristo santo.
Altro brivido.
Occhieggio verso Serenity, lei stavolta alza lo sguardo nel mio.
Terzo brivido.
Distolgo fingendo di guardare il cielo, il sole e l’aria fresca.
“Non l’abbiamo mai vista in faccia, Mercury, non sappiamo se è veramente lei.”
Pensiero subitaneo.
“Non è vero, è lei. Le ho incrociato lo sguardo, prima di partire, sull’elicottero, me lo ricordo bene: ha quei cazzo di occhi sporgenti, a palla, sono inconfondibili. Quante altre donne sul pianeta avranno degli occhi così? Ci metto la mano sul fuoco che è lei.”
“Allora perché la maschera?”
“È una carcerata, santiddio, magari per legge devono fare così.”
“Noi possiamo spararci a vicenda e non c’è legge che valga, ma lei deve tenere la maschera sennò lo show passa dei guai?” Scuote la chioma, grave. “Non puoi dire sul serio.”
Altro pensiero subitaneo.
“Magari è brutta.”
Taif vaga lo sguardo, stranita. “Cosa?”
“Magari è brutta da far paura e allora preferiscono coprirla, che ne so. Siamo tutte fighe, magari quella abbassava la media. Magari è sfregiata in qualche modo orribile. Dai, oh, ci sarà una spiegazione logica.”
Silenzio.
“Ma non ha segni sul collo o niente che si intravveda.”
“Che vuol dire? Magari ce l’ha così di traverso sopra al naso. Oppure è solo brutta forte.”
Penso di averla convinta, Cerbera ci studia un momento, scuote di nuovo la testa, abbassa ancora di più il tono. “A prescindere dalla maschera, Porsha ha detto che quella stava con loro ormai. Io non mi fido, Mercury, non la voglio qui. E mi fa paura, mi dà i brividi.”
“Porsha è una manipolatrice. Sai che ha fatto Atreja quando eravamo sulle rupi? Ha cercato di metterci tutte contro Lucilla, per disunirci. Per confonderci. Sono sicura che qui è lo stesso. E poi non siamo nella condizione di poter fare a meno di una di noi. Okay, non è un bijoux, se la incontri di notte infarti di fisso, ma è una nostra compagna di squadra. E intendo trattarla come tale.”
Serenity ci guarda di sottecchi; ha capito lontano un miglio che parliamo di lei e ne sembra rassegnata, almeno dal modo in cui stanno socchiusi a metà i suoi dannati occhi.
“E se ti sbagli? Se stai facendo un errore madornale?”
Ho perso il conto dei brividi.
“Me ne prendo la responsabilità. Argomento chiuso, per favore.”
Non sembra convinta ma non m’interessa.
Mi scosto da lei per raggiungere Serenity.
Il modo in cui alza lo sguardo nel mio fa gelare il sangue: non è quel tipo di paura che hai di fronte a un mostro, un assassino, qualcuno di pericoloso; è il timore viscerale di quando guardi qualcosa di sconosciuto, di alieno, e non sai cosa aspettarti.
Di lei non sappiamo niente, né di chi fosse prima di venire qui, né ora, sull’isola. Niente.
Ha un che di Hannibal Lecter che ispira reati di cannibalismo: sarà una mia impressione.
Una mia stupida impressione.
“Tutto bene?”
Sorrido d’un sorriso che sa di falso.
Lei annuisce, abbassa gli occhi, non so dire se per timidezza o senso di colpa: in entrambi i casi non ne vedo il motivo.
“Nessuna idea del perché ti abbiano conciato in questo modo, no?”
Fa un paio di gesti che non intendo. Non è sordomuta perché sono sicura che abbia mugugnato almeno un saluto quando ci siamo presentate nell’hangar, prima della partenza.
Mi viene un’idea, tolgo di tasca il telefono, apro il blocco note, glielo porgo. “Scrivi, per favore.”
Mi guarda per un attimo come fossi io l’aliena.
“Scrivi, su.”
Esita, poi comincia a digitare sul touchscreen, poche lettere, mi mostra lo schermo: Detenuta.
Fisso il vuoto sentendomi la vera cretina tra le due.
“No, scusa, questa non è una risposta.”
Alza gli occhi annoiata, cancella, riscrive: Mi odiano.
Ancora più cretina.
“Perché ti odiano? Manco sanno chi sei.”
Mi odiano tutti.
Poi cancella, riscrive: Atreja sa.
Questa cosa che Atreja sa mi manda fuori di testa tutte le volte che la sento; ci dev’essere una spiegazione, e sono sicura sia che qualcuno le passa le informazioni. Ne hanno date a noi per i punti fatti al forte, faranno lo stesso con lei che di punti da spendere ne avrà a carrellate.
Non c’è niente di fuori dal mondo e l’isola non parla.
Cumuli di cazzate.
“Sei dalla nostra parte, non è vero?”
Sì.
Bastava annuirlo invece l’ha scritto.
Guardo intorno e le altre ci osservano, più o meno palesemente, a distanza.
“Come ci hai trovate?”
Tracce.
Guardo la spiaggia che si stende giù dal promontorio.
“Abbiamo camminato spesso sul bagnasciuga, poi è scesa la notte: come hai fatto a seguirle?”
Abbassa il capo, vaga gli occhi. Segnali luminosi.
Come quelli che abbiamo visto noi nella foresta, quando siamo fuggite, quando volevano parlare con noi. “I produttori ti hanno aiutata?” Questo il Gallo Cedrone non l’aveva detto.
Alza le spalle come a dire che non ne ha idea.
È un buon segno, dopotutto. Se vogliono che stia dalla nostra parte vuol dire che non è un pericolo.
O forse fa parte della trama, del film, magari è tutto pilotato.
Colpi di scena, sorprese, dubbi esistenziali.
Penso che abbiamo fatto il calendario in bikini e lei non ce l’hanno messa. Sarebbe stato il calendario più inquietante della storia dei calendari con quella dannata maschera sulla faccia.
Maledizione a me quando ho deciso di iscrivermi.
Maledizione a me.
“Io mi sto fidando di te, Serenity. A nome della squadra. Non c’entra niente il fatto che tu sia una detenuta o la maschera o cazzate così; mi fido perché voglio farlo, perché in sei è meglio che in cinque. E perché ci manca una guaritrice. È quello che sei, no?”
Annuisce.
“Ti intendi di medicina?”
Annuisce, poi Erbe. Indica intorno, all’isola intera. Conosco le piante.
“E allora ci mostrerai qualche cosa di interessante.” Accenno al mio fucile a tracolla. “Non ho un’arma da darti, per ora. Non prenderlo come un atto di sfiducia, vedremo a tempo debito di procurartene una. Intese?”
Annuisce.
Le offro la mano.
“Benvenuta tra le Ferox Pious.”
Lei guarda me poi la mia mano, che rimane lì, nel vuoto per un tempo lunghissimo. Quando accetta la stretta lo fa come dovesse prendere in mano un tizzone ardente: non ha il minimo vigore, mi sembra di stringere cinque dita cadaveri.
Madonna il brio.
In quegli occhi tondi, sporgenti, c’è scritto a caratteri cubitali che nessuno deve averle offerto una stretta da molto tempo. Son piccole cose, ma contano, specie se hai passato anni in carcere.
“Ehi!” Accenno alle altre, tutte quante, “Venite qua.”
Con tutta l’indolenza del mondo, Sigrid, Lucilla, Taif, Rhonda si avvicinano con quell’andatura tipica di chi eviterebbe volentieri un’incombenza.
“Squadra, questa è Serenity. Serenity, questa è la tua squadra.”
Le guardo come si guardano i cani quando non stanno seduti dopo che glielo hai detto, in attesa che le diano una dannata stretta di mano: loro capiscono, patiscono, esitano, tentennano. La prima che si muove, che la mano la tende davvero, è Lucilla.
E lo fa in quel modo sincero, radioso, di chi s’è buttata dietro le spalle le incertezze e sceglie di non pensarci più. Il modo migliore.
Dopo di lei Sigrid, poi Camilla, infine, forse solo perché non ha scelta, Taif.
E lei, Serenity, guarda e accetta una per una quelle strette di mano con la stessa, attonita diffidenza.
Quando il giro è finito, quando sembra guardarsi quella mano come non le appartenesse, incertezza e imbarazzo hanno lasciato il posto a confusione emotiva.
A una qualche forma di misterioso sollievo.
Mi sfugge un sorriso genuino quando alza quei suoi dannati occhi a palla nei miei: sono vitrei e umidi, come le avessi regalato qualcosa d’importante.
Qualche stretta di mano.
Poche gocce d’umanità.
Una sana dose di rispetto.
“Avanti,” Max Tambori attendeva, la camicia hawaiana ancora più brillante del solito, poggiato allo schienale di una delle poltroncine dello studio, “Dillo.”
Gioele fissava il vuoto, il caminetto acceso, la parete in legno del tutto identica a quella della baita.
L’aveva voluta far erigere così, per avere una frazione di quel posto sempre accanto, in ufficio, quando voleva staccare dal mondo esotico delle isole.
“Dillo,” insisté Max, “Che non era quello che volevi.”
Lui taceva, una tazza d’infuso abbandonata sul tavolino.
“Che non è più il tuo show, che si sta deteriorando, sfuggendo al controllo, i carnosauri, i fantasmi, la croce.”
Sollevò il plico di fogli che aveva nella destra.
“Gli abbonamenti sono in impennata. Lo show ha ripreso quota, una bella quota. E tu sai che tutto questo, senza Mercury, non sarebbe stato possibile.”
“Lo so.”
“E sai anche che Mercury è stata una mia idea. L’ho voluta io.”
Silenzio.
“Lo so.”
Max alzò di spalle. “Non voglio nulla da te, Giò. Non voglio riconoscimenti, belle parole, mano libera con Illumina: niente di niente. Quello che voglio è che tu accetti l’idea che lo show ha già dimostrato tutto quello che volevi tu nei mesi passati. Che gli esseri umani fanno schifo, sono pronti a uccidersi per soldi, per gloria, per disperazione. A tradirsi, pugnalarsi alle spalle, uomini o donne che siano. Voglio che la sociologia vada non accantonata, ma spostata un gradino più in basso. Solo un gradino. In favore di una storia decente, una che tenga il pubblico incollato agli schermi.”
Gioele non rispose, lo sguardo alle fiamme del caminetto.
“Tu hai già vinto, Giò. Hai vinto decine, centinaia di volte. Ogni atto di crudeltà che Atreja ha fatto, ogni sua decisione, è una pietra che hai messo sul tumulo dell’Umanità: come volevi dimostrare. E lo hai fatto, Dio se l’hai fatto! Ma Atreja è la tua creatura, Giò, e la tua creatura sta trascinando lo show a fondo.”
Respiro pieno, i fogli come le Tavole della Legge.
“Mercury è la mia. La mia creatura. So che vuoi lasciare che le cose seguano il loro corso, ma non possiamo rischiare così, non possiamo. Non è più possibile, non adesso che ridiscuteremo tutto il piano di finanziamento dello show. Dobbiamo dare al pubblico quello che il pubblico vuole: una storia memorabile. Anche se non ti piace, anche se non è quello che avevi in mente. Io sono sicuro, Giò, ne sono certo, che anche lui la penserebbe come me.”
Lo sguardo di entrambi si spostò all’urna verde smeraldo che campeggiava sopra il camino, sagomata come una delle creature di Illumina.
Gioele accennò un sorriso mesto, tolse il basco in un gesto di rispetto. “L’abbiamo creato noi, Max, io e lui. Superpredatori è la nostra creatura, non Atreja né nessun’altra. Lo show e il messaggio scomodo che porta.”
“Sì. E avete fatto un lavoro memorabile. Ma è tempo di passare oltre, Giò, di elevare tutto a un nuovo livello, prima che sia tardi.”
“Che dovrei fare?”
Max guardava il fuoco e il fuoco guardava lui. C’era una tazza d’infuso abbandonata sul tavolino e quella parete di baita trasposta da un altro tempo e un altro luogo.
“Lascia andare Atreja, Giò. Come tutti i dittatori, non può durare in eterno.”
Lo intuì chiudere gli occhi, ridere senza suono d’un riso amaro.
“Atreja è esattamente l’opposto di un dittatore: ma questo tu e il mondo ancora non lo avete capito.”
“Il mondo capisce ciò che vuole capire: è così da sempre, prima ancora di Superpredatori.”
“Allora,” Gioele s’aggiustò sulla poltrona, un’espressione sinistra sui tratti, “Forse lo show non ha ancora esaurito la sua funzione sociologica. Forse Atreja ha ancora tanto da insegnare, per quanto tu voglia considerarla superata.”
“Il nuovo avanza, Giò, è come nella Storia: tutto si rinnova, presto o tardi. La mia creatura è il nuovo corso dello show.”
Negli occhi piccoli e sottili di Gioele Palazzese avvampò una stilla d’orgoglio come non c’era da tempo. “Mia, tua: non metterla su questo piano con me, Max, sono ancora la guida di questo spettacolo, il Master, sono io che decido.”
“Nessuna decisione che tu possa prendere cambierà l’evidenza: il pubblico vuole questa battaglia, Giò, vuole le Erinni contro le Ferox Pious. Vuole Atreja contro Mercury.”
“Il finale non è scontato. Affatto.”
“Non deve esserlo per nessun motivo.”
“Atreja contro Mercury.”
“È inevitabile.”
“Prima o poi.”
“Prima o poi, sì.”
Erano due re con una sola corona e un’unica terra da contendersi.
Un duello vecchio stile, una partita a scacchi.
Qualcosa che andava oltre i meri valori dello spettacolo, della sociologia, della passione umana.
Della carne.
Atreja contro Mercury.
Scontato.
Inevitabile.
Atreja contro Mercury.
Alla fine di tutto.
Rimasero a guardare le fiamme del caminetto, due scacchisti e un’urna color smeraldo.
Mi sento bene.
Bene come non mi capitava da tempo, parecchio, troppo tempo.
Il sole è sorto e l’aria è una brezza meravigliosa che prende la pelle, i capelli, il viso: sa di mare.
Piccoli pterodattili volteggiano lungo la linea dell’orizzonte, lontano, sembrano felici anche loro.
“L’hai letto?”
Rhonda parla senza guardarmi, a mezza voce, lo sguardo rivolto al mare, tra le colonne, e i capelli mossi in modo cinematografico dal vento.
“Sì.”
L’ho letto.
Me lo sono tolto dalle mutande, il foglietto che Cloe ci ha messo dentro, e l’ho guardato, sdraiata a terra, in modo da coprirlo col mio corpo, che nessuna telecamera inquadrasse e nessuno s’accorgesse di niente.
Non ho idea se ce l’ho fatta. Mi piace credere di sì.
Rhonda mostra un pollice e la lingua tra i denti: madonna quanto odio le smorfie da Instagram. “E che c’è scritto?”
“Le indicazioni per raggiungere un posto.”
“Che posto?”
“Non ne ho idea.”
“E noi dovremmo andarci? Senza sapere cos’è?”
Buona domanda. Cloe ha detto che ci sono risposte, lì. Risposte a domande che non so quali siano, perché sono talmente tante che non puoi tenerle a mente tutte.
“Ci andremo. Quando saremo pronte e meglio organizzate.”
“E dove sarebbe il posto?”
Tolgo di tasca il telefono, vado alla mappa, ingrandisco un’area a nordovest, sul mare e sopraelevata: forse un altopiano. “Da qualche parte qui sopra.”
Rhonda mi guarda, accenna un sorriso. “Posso dirti? Non vedo l’ora.”
“Di che? Farti sparare addosso, inseguire da un dinosauro, dormire su una palma o cosa?”
Ridacchia, ravvia i capelli. “Tutto. Siamo una bella squadra, alla fine.”
Io devo ancora capirlo.
C’è tutto il tempo.
Tutto
il tempo.
Atreja guardò la proiezione di Borea, stagliata con lei, in piedi, in mezzo al circolo di sedie in tek del Gran Consiglio ora deserto. La figura austera di lei, dai ricchi paramenti protettivi in kevlar scintillante, non era in alcun modo sminuita dal candore imperfetto dell’ologramma.
“Voglio che sia tu a occupartene,” scandì adombrata, “Con discrezione.”
“Non contatterò nessuna delle altre.”
“Te ne sono grata. Hanno un compito da portare avanti e, nel caso di Porsha, un orgoglio ferito che renderebbe avventate le sue azioni.”
“Hanno violato Fort Liandra, anche il mio orgoglio è ferito.”
“Hai un equilibrio che neppure io possiedo. Per questo affido a te e te sola la missione: trovale, Diana. Sono certa che si nascondano da qualche parte a sud, nel tuo territorio. Pattuglia le spiagge, i tratti di costa, perché è lì che si spostano.”
“E quando le avrò trovate?”
Sguardo rivolto alla distesa di paesaggio, le rupi, le valli. “Riferisci a me e valuteremo insieme come agire. Non prendere iniziative.”
“Farò come chiedi.”
Scese un breve silenzio; ad Atreja bastò uno sguardo per percepire che c’era dell’altro, uno scrupolo, un elemento da assestare. “Parlami, non tenerlo dentro.”
Borea la guardò per un lungo attimo, l’espressione severa sui bei tratti marcati, i capelli sciolti e fluenti sulle spalle. “Quanto conta Mercury per te?”
Lei increspò un lato delle labbra. “Nulla. Mercury non conta nulla, né per me né per l’isola. Quello che ha fatto è privo di valore, abbiamo affrontato avversarie più valide e sfide molto più grandi. Ricordi Noora, o Libellula, Tilland persino: quelle erano guerriere degne, vere. Che cos’ha Mercury di tutte loro?” Serrò i denti in un moto di collera controllata. “Nulla. Solo la temerarietà dei disperati. Noora, Libellula, Tilland, le abbiamo affrontate e sconfitte, una dopo l’altra. Cosa rimane di loro, Diana? Cosa rimane?”
Tese un braccio alle rocce, poco lontane, le guglie. “Abiti lasciati a scolorire al sole o un piccolo trofeo di carne.” Sollevò tra due dita la collana d’orecchie sul proprio petto, contemplandola, lasciandosi cullare per un lungo attimo dai ricordi, le emozioni, i trionfi del passato.
La gloria di Galena.
La vita nuova.
Un altro mondo.
L’orecchio reciso più lucido, più candido, fresco di trattamento di conservazione, uncinato da poco alla collana, l’orecchio appartenuto a Maya, la riportò alla realtà di quei giorni, quegli ultimi sette giorni.
L’Ondata 9.
Un senso d’inquietudine.
“Quando verrà il momento,” Borea apparve ancora più solenne nella tenuta da battaglia in broccato e kevlar, “Mi permetterai di sfidare Mercury a duello? In nome dei vecchi tempi.”
Atreja chiuse e riaprì gli occhi, un’ombra sui tratti. “Non merita questo onore.”
“Lo so, ma per me,” chinò il capo, oscurata a sua volta, l’ologramma sfarfallò per un attimo, “È importante.”
Lo sguardo cupo della regina delle Erinni tradì qualcosa di diverso dalla consueta, stoica fermezza.
Rimasero entrambe in marziale silenzio, lasciando scorrere dietro le palpebre chiuse i fasti delle vittorie passate. La prima alba di Galena.
Guardo lo stendersi del litorale dal piccolo terrazzo della torre.
Ho già parlato con le altre, una alla volta, spiegato loro che ci prendiamo qualche giorno di riposo e tranquillità, poi ci muoveremo, cercheremo di raggiungere il posto che Cloe ha indicato.
Non sono l’unica a pensare che sia un rischio evitabile, ma è pur sempre un punto d’inizio.
“Silvy.”
Lucilla compare dalla breve scalinata che porta quassù: ha un sorriso che svanisce quasi subito e i capelli argentati mossi dalla brezza.
“Puoi evitare di chiamarmi per nome?”
“Perché?”
“Perché non è un nome figo. Io avrei preferito chiamarmi…”
“Regina o Desdemona,” sorride da ragazzina, “Me lo ricordo.”
Sfugge un sorriso anche a me tra le maglie della corazza.
“A me piace il tuo nome,” insiste, “Sa di bosco.”
“Ancora con questa cazzata.”
“Silvia. È una parola dei boschi.”
Non è più così fastidioso che mi chiami per nome.
Da lei posso accettarlo.
“Stai bene?”
Annuisce appena, scostandosi una ciocca dagli occhi. Il nuovo abbigliamento che le hanno dato, che sarebbe poi la sua uniforme Ferox Pious, è un top grigio scollato con bretelloni militari, mezzi guanti con protezione di kevlar, pantaloncini giro-culo grigi, cinturone, un paio di stivali altissimi, pieni di lacci, neri. Le hanno fornito due pistole col calcio bianco e la croce cesellata sopra. È strafiga e non mi pesa ammetterlo.
Guarda lontano, con la brezza che le scompiglia la chioma. Credo voglia dirmi qualcosa ma non trovi il coraggio, o le parole.
“Ti ascolto, se…”
Si volta con un piglio sottilmente nervoso, vaga lo sguardo, fa un cenno come a minimizzare. “Pensavo a quella scritta, qui sotto.” Indica in basso, al balconcino.
Insulae domum Suam.
Le isole sono la Sua casa.
Brivido.
Avevo rimosso questo dettaglio.
“Magari l’ha solo scritto qualcuna prima di noi. Qualcuna molto religiosa.”
“Magari sì.”
Basta guardarla in faccia per capire che ha ben altri pensieri in merito. “Avanti, sputa.”
“Non lo so, io credo che…” Gesticola, inspira, espira, scuote la testa, ravvia i capelli platinati. “Non so spiegartelo.”
“Non hai molte alternative al provarci.”
Si morde le labbra, fissa il vuoto, pensierosa, nervosa. “Se,” apre le piccole mani, “Se l’isola parlasse davvero?”
“Sono sicura che ci sarebbe una spiegazione logica.”
“Tipo?”
Alzo di spalle in palese difficoltà. “Ma che ne so, è un trucco dei produttori. Poi cosa pensi che succeda? Che all’improvviso senti una voce dal nulla? Sono cose da film, dai.”
Radiosa abbassa ancora di più gli occhi. “Silvy… Se io…”
“Se tu?”
“Se io avessi sentito l’isola parlare?”
Silenzio.
Brivido a cascata.
“Quando?”
“Stamattina presto, nel dormiveglia.”
“Ecco, vedi? Nel dormiveglia succedono un sacco di cose strane, è normale: il cervello mischia i sogni con la realtà e sembra che vediamo o sentiamo cose che in realtà non ci sono.”
“Ne sei sicura?”
Deglutisco. “Ma certo, a me è capitato un paio di volte che ero mezza sveglia e mi sono presa un colpo perché pensavo che ci fosse un estraneo in camera mia: ma non c’era niente, era solo… vedevo qualcosa che era nella mia testa.”
Annuisce appena, come in ipnosi. “E quell’estraneo ti ha parlato?”
“Certo che no.”
“A me sì.”
Gelo.
Ansia.
“C’era un estraneo nel campo stanotte?”
Annuisce. “Ma non so se fosse…”
“Se fosse?”
“…davvero una persona.”
Silenzio orribile.
“E cosa ti ha detto?”
Alza e riabbassa lo sguardo.
“Gliel’ho sentito sussurrare.” Prende un respiro e scandisce come fosse la cosa più importante del mondo. “Le circostanze per le quali si viene al mondo sono irrilevanti. È ciò che fai del dono della vita che determina chi sei.”
C’è un moto che sento crescere, rampante, furioso, un calore che viene dal profondo.
“Che significa?”
“Sono certa che venga dalla Bibbia, o da un Vangelo, ma io, io… Non ricordo quale.”
“Ti verrà in mente, magari quando smetterai di pensarci.”
“Mi ha detto questo perché l’isola sa.”
La brezza è di un tono più fredda sulla pelle.
“Sa che cosa?”
Lucilla si stringe a sé. Quando mi guarda lo fa con occhi che scorgo umidi. “Noi siamo amiche, Silvy?”
Sbatto le palpebre con un vago senso d’angoscia che inizia a montare. “Sì, ovvio.”
“Posso confidarti,” la sua voce è rotta, poco più d’un soffio, “Cosa ho visto quando ero nella teca?”
Ricordo subitaneo, il suo allontanarsi quando ne abbiamo parlato la prima volta.
Brivido.
“Certo.”
Si avvicina di un passo, poi di un altro.
Mi abbraccia in un gesto delicato, sofferto, che contraccambio dopo un lungo attimo d’esitazione.
Mormora al mio orecchio in un silenzio che si è fatto totale.
I miei occhi dilatano, parola dopo parola.
Il cuore si ferma per un lungo attimo.
Rimaniamo così, abbracciate.
Due lacrime gemelle le scendono sulle guance.
Una silhouette femminile osserva di lontano.
Ha alti stivali decorati e una mantella che si agita nella brezza, un tomahawk appeso alla cintura.
Solleva gli indici sul sole, incrociati a formare una X.