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La sconosciuta.
Ci sono persone che non è possibile dimenticare, ti rimangono dentro, tatuate nel cervello, per quanto breve possa essere stato il tratto di strada fatto insieme o tenue il legame intercorso. Come non puoi dimenticarti di te, il loro ricordo ti accompagna, che abbiano attraversato la tua vita un solo giorno o anche meno, un mattino, una sera, lo spazio di un percorso in treno, un’ora sulla panchina di un parco.
Non potevo scordarmi di lei: tanto più che il nostro incontro non era stato fugace.
La incontravo ogni mattina ai giardini. Se ne stava tranquilla, seduta su una panchina a leggere. Sapevo che mi attendeva e anch’io aspettavo il nostro appuntamento muto. Del resto parlavamo poco, spesso mi limitavo a osservarla, la guardavo per imprimere bene in mente i suoi lineamenti delicati, ma ero attratta soprattutto dallo sguardo. Poi, nella tranquillità della mia stanza, sollevavo il panno che ricopriva la testa d’argilla ancora appena delineata e mi davo da fare con stecche, mirette e raschietto. In un primo momento avevo pensato di lasciare le orbite degli occhi vuote. Ma non c’era il vuoto in quello sguardo. C’era di più; qualcosa di tenebroso, inafferrabile.
Quella donna, in apparenza così tranquilla, era inquietante. La prima volta che l’avevo vista era addormentata; con la testa reclinata sul petto come colta di sorpresa dal sonno, mentre le dita della mano, allentata la presa, avevano lasciato scivolare il libro in grembo. Mi ero seduta vicino a lei ed ero rimasta in silenzio ad ascoltarne il respiro, finché non l’avevo vista sollevare il viso e aprire gli occhi. Rivelavano un disagio, una sorta di scompiglio della mente.
«Mi sono appisolata» disse, quasi scusandosene.
«Già» dissi io, «questo tepore primaverile fa venire voglia di dormire».
«Oh, se potessi, vorrei rimanere sempre sveglia».
«Di cosa ha paura?» Le domandai.
«Del sonno», mi rispose. Seppi, in seguito, che assumeva farmaci per non dormire, perciò pensai che potesse soffrire di una forma di narcolessia, ma sbagliavo.
La primavera trascorse e anche l’estate e per tutto quel tempo, più d’ogni altra cosa, era l’appuntamento con la sconosciuta a destare il mio interesse, un’ora in cui pronunciavamo poche frasi, spesso solo una. Una frase al giorno a cui pensare per tutto il giorno.
Eppure, malgrado l’esiguità del nostro dialogo, ebbi modo di capire che l’oggetto delle sue paure non era il sonno, ma la materia mostruosa di cui erano fatti i suoi sogni. Le si dipingeva nello sguardo il terrore dei deliri, la paura di disvelamenti e apparizioni terrificanti che le si palesavano nello spazio onirico, il non luogo in cui irrompeva l’inferno di un mostruoso riempimento d’ombra.
Mi rendevo conto che c’era qualcosa di compulsivo nella mia attesa di lei, ma non avevo amici e lei era l’unica persona che sentivo affine alla mia sensibilità e con la quale fossi riuscita a stabilire un contatto; sentivo in modo oscuro che celava un segreto e avrei voluto carpirlo. Entrare nel suo mistero.
Un giorno le chiesi di raccontarmi uno dei suoi incubi, ma mi disse che non aveva parole per raccontarlo. Anzi, precisò: «Non ci sono parole umane che possano descrivere i miei incubi e spesso dimentico la violenza di quei sogni, ma mi rimane il terrore del loro irrompere e poi di svegliarmi urlando, stracciandomi i vestiti e strappandomi i capelli».
«Possibile che non ricordi almeno un frammento?» obiettai e lei mi disse che sognava spesso un quadrato, un lavoro di trenta centimetri di uncinetto di cui contava e ricontava i punti senza riuscire a progredire d’uno solo, perché non era più un essere umano, ma una cavia. Le avevano raschiato il cervello e galleggiava nel vuoto senza riuscire a orientarsi, ridotta a una specie di zombi, un essere asessuato, sigillato nella sua prigione autistica. Quello non era l’incubo peggiore, ma ricorrente, per questo se ne ricordava.
Venne l’autunno e i colori del parco cambiarono: sembrava un luogo magico nelle giornate in cui il sole scherzava tra le foglie color rame o quando il vento trascinava un lento tappeto di foglie gialle, inaugurando un crepitio di suoni nuovi. Talvolta era il picchiettio di una pioggia sottile che ci bagnava il viso. Il giorno della prima pioggia lei mi disse che adorava quel parco e che mai l’avrebbe abbandonato. La capivo perché anch’io rifiutavo il mondo esterno. C’erano delle affinità tra noi. Quel giorno all’improvviso mi disse: «La mente è come un filo di capello. Che ci vuole a strapparlo? Basta un niente». Anch’io temevo la fragilità della mente. Mi prese la mano e nel mattino la tenne nella sua. Restammo a lungo in silenzio ad ascoltare le gocce cadere. Lei mi piaceva; accettavo le sue paure, la sua angoscia, i momenti in cui assumeva un’espressione inebetita che un giorno era sfociata in tremori e in pianto.
Quanto tempo era durata quella mia ossessione per lei non sapevo dire, forse anni, ma ormai avevo maturato la convinzione che tempo e spazio erano come sogni oltre i sogni e a volte mi sembrava di vivere in un’altra dimensione.
Nella stanza, la mia statua era terminata. Certo il mio ultimo lavoro, perché di una bellezza che mai più sarei riuscita a eguagliare, proprio quello che volevo raggiungere: una bellezza che generava tormento. Avevo dato corpo all’immagine della mia amica sconosciuta che portava nello sguardo i fantasmi dei suoi mostri interiori; a guardarla provavo sgomento e terrore come se avessi avuto di fronte la statua di una Medea. Occhi furibondi, come quelli di un toro assassino pieno di odio, ferocia, sete di vendetta e dolore.
Sul finire dell’autunno la mia amica mancò il primo dei nostri muti appuntamenti e da allora non la vidi più.
All’interno della grande casa, le infermiere e i medici parlavano tra loro a bassa voce; io riuscivo a cogliere solo brandelli di conversazione, ma quel poco che riuscivo a sentire mi terrorizzava al punto di scappare a rifugiarmi nella mia stanza.
Parlavano di una donna dotata d’una gran forza, un potere sinistro celato dietro una parvenza di tranquilla femminilità, una maschera indossata per nascondere delitti mostruosi. Pochi giorni prima, era stato trovato nel parco, un cadavere fatto a pezzi, come se fosse stato sbranato da una belva feroce; ne descrivevano gli aspetti più impressionanti. Era senza occhi, perché le orbite erano rimaste vuote e i miseri resti giacevano a terra accanto alla testa mozzata, come se fossero stati masticati prima d’essere vomitati. Dal ventre squarciato fuoriuscivano brandelli di intestini; dicevano che la scena non si poteva guardare, tanto era raccapricciante.
«Hanno ucciso Marta!» Diceva Aurora, la più anziana delle infermiere.
«So chi è stato. Quella della 32 non la poteva soffrire», aggiungeva un’altra.
Alludevano alla mia amica, ma io sapevo delle inquietanti presenze che al sopraggiungere del buio affollavano il parco; ombre gigantesche assumevano forme inusitate, fantasmi usciti dalle tombe del vicino cimitero evocati dai deliri onirici degli ospiti della casa. Per questo a quell’ora le fronde degli alberi secolari erano scosse da un vento impetuoso e gli uccelli gridavano atterriti.
Una sera, attardatami nel parco, m’ero imbattuta in una massa gelatinosa dall’odore vomitevole che m’aveva avvolto all’improvviso e con la quale avevo sostenuto una lotta estenuante nella notte, fino all’alba. Sembrava un incubo, ma quando i raggi del sole bruciarono quell’entità nauseabonda, dissolvendola, riuscii a rientrare in casa e a raggiungere la mia stanza. Allora vidi sul mio corpo i segni di quell’abbraccio mostruoso. Dappertutto sulla pelle erano apparse ustioni, vesciche doloranti gonfie di liquido puzzolente. Non raccontai l’accaduto, perché nessuno m’avrebbe creduto e macchie e ferite sarebbero state scambiate per atti di autolesionismo. Mi curai da sola, utilizzando l’aloe e le erbe raccolte nel parco; delle infermiere non mi ero mai fidata, anche adesso i loro discorsi mi confermavano sulla propensione al sadismo degli operatori delle case di cura.
A sentirle parlare così, come se provassero un piacere morboso a descrivere i dettagli dello scempio, mi sentivo male; mi veniva nausea e voglia di vomitare. Mi rifugiavo nella mia stanza e sollevato il panno che ricopriva la mia statua, mi tranquillizzavo nel contemplarla: lì almeno c’era della bellezza, pur nell’orrore. Lì si chetava un poco la paura che mi durava nel lago del cuore.
Quell’oggetto era la sola cosa che mi rimaneva della mia amica; sembrava più giovane di com’era quando l’avevo conosciuta e stranamente somigliava a me quando avevo vent’anni. Perciò sul piedistallo avevo voluto incidere due lettere: Io. Se mai dovessi lasciare questo posto, quello sarebbe l’unico oggetto che vorrei portare con me. Mai però avevo visto qualcuno uscire vivo da questo luogo e comunque non volevo andarmene.
Mi piaceva la casa popolata di sussurri e grida e il grande giardino; in fondo durante il giorno era un posto tranquillo, dove potevano trovare pace quelli che emergevano dai recessi della notte. Solo mi atterrivano gli occhi, le stanze ne erano piene ma anche i corridoi, perfino i muri e dal buio emergevano ovunque grossi uccelli dai cento occhi dipinti sulla coda, anche il giardino di sera ne era pieno. Come gli infermieri, si aggiravano silenziosi tanto che sembravano non esserci, ma li vedevi comparire di colpo, ti guardavano, ti scrutavano, sempre svegli come se avessero avuto i cento occhi di Argo e dormissero chiudendone solo la metà. Alla mia amica quegli uccelli mostruosi non piacevano; diceva che mangiavano gli occhi dei dormienti e li trasferivano sulla coda. Doveva essere questo uno dei motivi per cui aveva paura di addormentarsi.
Un giorno mi svegliarono all’alba le voci che provenivano dal corridoio, mi alzai per origliare dietro la porta. Poi entrambe le ante della porta si spalancarono di colpo, lasciando intravedere due uomini in divisa nel corridoio. Entrarono due robusti infermieri che mi afferrarono; uno dei due brandiva una grossa siringa, mi iniettò il liquido mentre gridavo di terrore, poi entrambi mi misero la camicia con le cinture prima di caricarmi su una barella. Già sentivo in lontananza la sirena dell’ambulanza che stava arrivando. Sapevo quel che mi attendeva; non era la prima volta che capitava. Tutto si ripeteva come nel più temibile dei miei incubi ricorrenti.
E non era un sogno.
La mia statua era rimasta là nella stanza 32, ma di lei, la sconosciuta che l’aveva ispirata, mi ricordavo eccome. Impossibile dimenticarla.
La ritrovavo nella notte della coscienza. Nel baratro ignoto e tremendo del sonno generatore di mostri, era lei ad armare la mia mano per uccidere il dolore. Lo facevo; ma poi paura e angoscia tornavano ad aggredirmi e dovevo uccidere ancora. E ancora. Quella notte non conosceva alba. Non ricordavo quando era cominciata, ma sentivo che non sarebbe finita.