Quando, all’età di diciott’anni, Oksana aveva deciso di lasciare la cittadina di Irpin’ nell’oblast di Kiev per venire in Italia aveva in mente un sogno preciso: diventare una modella.
Per lei, che non era mai andata nemmeno nella vicina Kiev, quella di lasciare gli affetti familiari per emigrare in un paese lontano, di cui non sapeva nulla, era stata una decisione difficile.
L’aveva però convinta la prospettiva di un lavoro di successo che le avrebbe consentito di riscattarsi da una vita di stenti e di procurare a sua madre una vecchiaia serena e a suo fratello la possibilità di proseguire gli studi.
Era partita lasciando la vecchia roulotte che era stata la sua casa da sempre.
Da quando cioè la madre Larysa l’aveva partorita senza l’aiuto di una levatrice, di parenti o di amici, sul pavimento di quella stessa roulotte, perché il letto era occupato dal marito Roman, come al solito ubriaco di vodka scadente fin dal primo mattino.
Nascosta in mezzo al carico del TIR che la portava verso la sua nuova vita, ripercorreva mentalmente i diciott’anni della sua breve esistenza.
Il primo ricordo che le tornava alla mente erano i pugni e i calci che, quando era ubriaco, suo padre Roman sferrava a Larysa anche per i più futili motivi.
Poi la nascita di suo fratello Vasyl.
Lei, che aveva solo otto anni, si era data da fare come meglio poteva per assistere la madre che, in preda alle doglie, si lamentava con urla che le mettevano paura…
… e lo shock che le aveva procurato la vista del sesso di sua madre che si dilatava, mentre la testolina di Vasyl scivolava fuori.
Era rimasta così impressionata che quando, più grandicella, i suoi compagni maschi le avevano chiesto di giocare al dottore, si era fermamente rifiutata, andandosi a nascondere nella roulotte.
Ricordava anche quando, nella bella stagione, accompagnava Vasyl al Pravyk’s Park, a passeggiare per i viali ombrosi e a giocare con le tante attrazioni del parco giochi...
… e il giorno in cui suo padre era uscito di casa e non vi aveva più fatto ritorno, lasciandoli senza mezzi di sostentamento, costretti a nutrirsi con quello che racimolavano rovistando nei bidoni della spazzatura.
Intanto lei, nonostante gli stenti, crescendo si era fatta una bellissima ragazza desiderata da tutti i maschi del quartiere… ma nessuno si era mai fatto avanti chiedendola in sposa.
Poi il primo maggio di quell’anno, in occasione della Festa del Lavoro, a Irpin’ si era svolta una gara di motocross e lei era stata scelta come miss incaricata di dare il bacio al vincitore.
Era stato così che aveva conosciuto Konstandin, il vincitore della gara.
La giornata si era conclusa con una festa popolare nel corso della quale in molti si erano esibiti in canti e balli.
Quando anche lei, accompagnandosi col bandura, si era esibita cantando con voce melodiosa canzoni popolari:
«Hai una voce, come te, bellissima» le aveva detto Konstandin.
Poi, abbozzando un inchino: «Mi concedi il prossimo ballo?» le aveva chiesto.
Dopo aver preso parte ad alcuni balli tradizionali di gruppo, quali troike e hopak, avevano finito col fare coppia fissa.
Volteggiando in vorticosi giri di valzer, mazurke e polke, Oksana, dimentica della sua triste condizione, si era sentita felice.
«Sei libera domani?»
«Perché me lo chiedi?»
«Perché mi piacerebbe passare la domenica con te»
«Ti sei fatto un’idea che io sia una ragazza facile, vero?»
«Ma no, cosa vai a pensare… desidero solo passare una domenica in compagnia di una bella ragazza» aveva protestato lui, che poi aveva proposto:
«Potremmo andare a fare un picnic al vicino laghetto così, volendo, potremmo fare anche il bagno»
Alla fine lei aveva accettato e insieme avevano trascorso la domenica al lago.
«Grazie. È stata una domenica meravigliosa» le aveva detto lui al momento di congedarsi «sono stato bene in tua compagnia.»
«Se anche a te è piaciuta la giornata, potremmo trascorrere altre domeniche insieme. Io vengo a Irpin’ ogni quindici giorni»
Da allora, ogni volta che Konstandin era tornato a Irpin’, avevano trascorso la domenica insieme e, pian piano erano diventati sempre più intimi.
Di bell’aspetto, sempre gentile e premuroso, in breve Konstandin era riuscito a fare breccia nel cuore di Oksana, che ogni quindici giorni aspettava, trepidante, l’arrivo del suo cavaliere.
E alla fine lui arrivava a rallegrarle il fine settimana e a farla sognare coi racconti delle meraviglie che rendevano piacevole la vita nei Paesi occidentali e, in particolare, in Italia.
L’estate volgeva ormai al termine quando un giorno: «Hai mai pensato di fare la modella?» le aveva chiesto Konstandin.
«E per chi? Per qualche artista squattrinato?» aveva ribattuto lei con scetticismo.
«No, non per un artista, ma per i rotocalchi o per la pubblicità…»
«Dove? Qui? In questo angolo di mondo abbandonato?»
«Qui forse no, ma in Italia sono certo che avresti successo»
«E come ci arrivo in Italia? Non ho alcuna qualifica o titolo per poter emigrare»
«Se vuoi, ti ci porto io»
«E come?»
«Col TIR, nascosta tra la merce. Il viaggio sarà un po’ scomodo, ma sicuro»
«E come faccio a passare la dogana?»
«Non c’è problema. I doganieri ormai mi conoscono e non fanno mai controlli approfonditi…»
«Ma… se mi scoprissero?»
«Non ti scopriranno ma, se accadesse, al peggio ti consegnerebbero al tuo consolato per essere rimpatriata»
«Ma in Italia non conosco nessuno, non saprei nemmeno dove andare a dormire…»
«Conosco un convento in cui le suore ospitano ragazze immigrate in attesa che trovino un lavoro e si rendano indipendenti» l’aveva prontamente rassicurata lui.
«Pensaci» l’aveva poi sollecitata «la risposta me la darai la prossima volta che torno»
Lei ci aveva pensato e ne aveva parlato anche con sua madre:
«L’Italia è molto lontana e là non conosci nessuno Però ormai sei maggiorenne, devi quindi decidere tu cosa fare. Io non mi sento in grado di darti un consiglio…» le aveva risposto sua madre.
«Hai deciso?» le aveva chiesto Konstandin quando era tornato, quindici giorni dopo.
Lei aveva voluto pensarci ancora quindici giorni, poi alla fine aveva deciso di partire.
Ben presto però aveva dovuto rendersi conto di essere stata ingannata.
Konstandin infatti era un camionista albanese che effettuava, assieme al connazionale Rezart, trasporti internazionali tra l’Italia e i Paesi dell’Est Europa.
Approfittando del fatto che i doganieri, ai quali ogni tanto allungavano una mancia, non sottoponevano più il loro TIR a controlli approfonditi, si erano specializzati nel procurare, alla malavita milanese, belle ragazze dell’Est da avviare alla prostituzione.
La prima sera quando, per passare la notte, si erano fermati in un’area di sosta deserta, Konstandin e Rezart l’avevano raggiunta nello stretto vano a lei riservato:
«Spogliati!» le avevano ordinato.
Lì per lì non aveva capito:
«Perché?» aveva chiesto ingenuamente.
«Poiché non hai i soldi per pagarti il viaggio, ci pagherai in natura»
«Ma… non mi avevi detto che dovevo pagare...» aveva protestato rivolgendosi a Konstandin.
Ma due manrovesci ben assestati erano stati più eloquenti di qualsiasi spiegazione.
A nulla erano valsi, dapprima la sua resistenza, poi le suppliche e il pianto…
… l’avevano violentata, lasciandola poi nuda, infreddolita e disperata a piangere sulle sue disgrazie.
A Milano l’avevano venduta a Vito Guerra, un boss del racket della prostituzione che controllava la zona nord-est della città.
Chiamato un signore di mezza età che indossava un camice bianco, Vito le aveva intimato:
«Togliti le mutande e distenditi su quel tavolo»
«Perché?» aveva chiesto.
«Il dottore deve controllare che tu non abbia malattie veneree. Non voglio puttane malate!»
«Ma io non puttana!» aveva protestato.
«Per ora forse no, ma lo diventerai»
«No, io venuta per fare modella…» aveva cercato di spiegargli col suo incerto italiano.
«No, tu farai la puttana! Almeno finché non mi avrai ripagato il debito che hai contratto per venire in Italia»
Lei si era ancora rifiutata, sostenendo di non aver alcun debito e di essere venuta in Italia con la promessa di fare la modella.
Per tutta risposta Vito l’aveva consegnata a due suoi gorilla che, con metodi assai persuasivi, le avevano fatto cambiare idea.
Ridotta così a più miti consigli, dopo essere stata visitata dal dottore, era stata affidata a un’anziana prostituta, perché l’istruisse all’esercizio della professione.
Consegnata infine al suo protettore, la sera successiva era stata accompagnata in via Porpora, alla postazione assegnatale.
Quando si era ritrovata sola aveva avuto la tentazione di scappare ma, senza soldi, senza documenti, con una scarsa conoscenza della lingua italiana, si era resa conto che non avrebbe saputo dove andare e aveva rinunciato.
Vergognosa del suo abbigliamento succinto, si era ritirata in un angolo semibuio cercando di non dare troppo nell’occhio, per cui diverse macchine erano passate oltre senza averla notata.
Così, quando al termine della sua prima notte di lavoro si era presentata a Vito col misero incasso di due sole prestazioni lui, dopo averla riempita di calci e pugni che l’avevano costretta a sospendere l’attività per i successivi due giorni:
«Meno produci, più tempo impiegherai a ripagare il tuo debito» le aveva spiegato, sequestrandole l’incasso.
Era cominciata così la sua nuova vita e lei, non avendo altra scelta, aveva dovuto rassegnarsi.
Per consolarsi aveva pensato che, in definitiva, i soldi da mandare a sua madre, alla quale avrebbe lasciato credere di aver realizzato il suo sogno, li avrebbe potuti guadagnare anche prostituendosi.
Era ormai trascorso un anno dal giorno in cui Oksana era giunta a Milano.
Un anno in cui tutte le sere le aveva passate in via Porpora cercando di adescare più clienti possibile.
In tutto quel tempo non era riuscita a mettere da parte neppure un centesimo e i soldi inviati a Irpin’ erano stati una miseria.
Una mattina, presa dallo sconforto, dopo essere riuscita a eludere la sorveglianza del suo protettore, era entrata nell’Abbazia di Casoretto.
Seduta su una panca appartata stava piangendo sulle sue miserie quando si era sentita chiedere: «Cosa c’è che non va, figliola?».
«Tutto padre» aveva risposto al sacerdote che l’aveva interrogata.
«Vuoi confessarti? Vuoi provare a liberare l’anima da ciò che ti cruccia?»
«Dovessi confessare tutti i miei peccati non mi basterebbe l’intera giornata» aveva risposto sconsolata «ormai sono dannata!»
«Non dire così figliola; Dio è immensa bontà e immenso amore; nessuno è dannato, se si pente sinceramente!»
Così lei si era sfogata con Padre Floriano, confidandogli tutte le sue pene.
Preso da compassione, vedendo la sua sincera afflizione, Padre Floriano le aveva chiesto:
«Sei sicura di voler abbandonare la vita che fai per intraprenderne una diversa, lavorando onestamente?»
«Sì, padre!»
«Allora vedrò cosa posso fare»
«Intanto ti faccio ospitare dalle suore del convento qui vicino»
«Grazie padre»
Dopo qualche giorno Padre Floriano era riuscito a procurarle un’occupazione come colf presso un’anziana signora che abitava in corso Buenos Aires.
Era già occupata da tre mesi quando un martedì mattina, mentre percorreva via Scarlatti diretta al mercato di Benedetto Marcello, aveva sentito alle spalle una voce che la salutava:
«Ciao Oksana»
Riconosciuta la voce di Konstandin, presa dal panico, aveva tentato di fuggire, ma lui l’aveva afferrata per un braccio e, dopo averle premuto sulla bocca un tampone, l’aveva spinta in un’auto che era ripartita sgommando.
Poi il buio…
Quando si era ripresa giaceva sul pavimento sterrato di un locale illuminato solo dalla fioca luce di una lampadina appesa al soffitto.
Al centro un tavolaccio di legno e, tutt’intorno, attrezzi agricoli e rustiche scaffalature cariche di cesti e cassette, le avevano fatto capire di trovarsi in un casotto di campagna.
Su di lei incombevano, con espressioni in volto tutt’altro che rassicuranti, Konstandin e Rezart.
«Dove sono? Perché sono qui? Cosa volete da me?» aveva chiesto.
«Quante domande!» avevano risposto all’unisono i due con un ghigno.
«Vi prego, lasciatemi andare…»
Incuranti delle sue suppliche, l’avevano afferrata per le braccia e le gambe e l’avevano distesa, ancora mezzo intontita, sul tavolaccio, sotto la luce dell’unica lampadina.
A quel punto, uscito dalla penombra, si era materializzato Vito Guerra.
«Lei!» aveva esclamato spaventata, cominciando a tremare.
«Ora imparerai cosa capita a chi prova a farmi fesso, fuggendo senza avermi completamente ripagato il suo debito…»
Conoscendo per esperienza quanto sapesse essere sadico: «Nooo!» aveva urlato terrorizzata cercando di alzarsi, ma lui, con uno spintone, l’aveva ricacciata giù.
Con la forza della disperazione, tentando ancora di rialzarsi, aveva cominciato ad agitarsi e a scalciare, cercando di tenerlo a distanza.
«Invece di stare lì a ridacchiare come due deficienti, tenetela ferma!» aveva urlato Vito a Konstandin e Rezart.
L’impresa si era rivelata tuttaltro che facile, ma alla fine ce l’avevano fatta.
Mentre la tenevano ferma Vito, per mezzo di robuste funi, le aveva legato i polsi e le caviglie alle gambe del tavolo.
«Negli ultimi tempi hai trascurato un po’ il tuo lavoro…» così dicendo Vito le aveva strappato la maglietta e la gonna, lasciandola in reggiseno e slip.
«… è il caso che recuperi il tempo perduto» aveva aggiunto mentre, fatta scattare la lama di un coltello a serramanico, con colpi ben assestati l’aveva privata degli ultimi indumenti.
Calatosi i pantaloni, l’aveva penetrata con rabbia, affidandola poi a Konstandin e Rezart, che le avevano riservato lo stesso trattamento.
Piangendo per l’umiliazione, era riuscita, mordendosi le labbra, a non emettere nemmeno un lamento, al che Vito:
«In fondo, forse, non ti è neppure dispiaciuto» aveva commentato.
«Ma adesso arriva il bello…» aveva aggiunto, infilandole la testa in un sacchetto nero di plastica, che le aveva poi stretto al collo con un laccio.
Poi silenzio…
Negli eterni secondi che erano seguiti aveva sentito crescere la tensione e si era anche urinata addosso.
«Ahaaiii!» aveva urlato quando Rezart le aveva appoggiato la punta della sigaretta accesa su un capezzolo.
«Ahaaiii!» quando Konstandin le aveva riservato lo stesso trattamento all’interno delle cosce.
Avevano proseguito con quel trattamento mentre lei, urlando per il dolore, consumava rapidamente l’ossigeno.
Sentendo l’aria venir meno, nel tentativo di respirare, a bocca aperta risucchiava il sacchetto che, rientrando, la faceva sembrare un grottesco mascherone.
Quella vista, unita alle pose scomposte che assumeva nel tentativo di divincolarsi, suscitava nei suoi tre aguzzini commenti osceni accompagnati da sguaiate risate.
Prima che soffocasse del tutto Vito l’aveva liberata dal sacchetto che poi, dopo averle fatto riprendere fiato, le aveva di nuovo infilato, mentre i due compari riprendevano il loro sadico gioco.
Erano andati avanti così finché lei, ormai in stato confusionale, al dolore aveva cominciato a reagire solo con flebili lamenti.
Infine aveva smesso anche di agitarsi e, dopo aver sputato una boccata di sangue, era rimasta completamente immobile.
Quando le avevano tolto il sacchetto l’avevano trovata col volto cianotico sporco di sangue.
Avevano provato a farle riprendere i sensi, ma lei non dava più segni di vita.
«È morta» aveva sentenziato Konstandin.
«Sei sicuro?» gli aveva chiesto Vito.
«Non respira più e non reagisce…»
«Beh! Allora io vado. Pensateci voi a far sparire il corpo» aveva detto Vito.
Aveva poi aggiunto: «Fate anche sparire da qui ogni traccia»
«Dobbiamo trovare il modo di far sparire il cadavere» aveva detto Konstandin.
«Bruciarla non possiamo, lascerebbe troppe tracce» aveva osservato Rezart.
«Conosco, nella roggia che affianca la statale, un posto isolato dove scaricarla» si era ricordato Konstandin «È pieno di pantegane fameliche che, quando la ritroveranno, se mai la ritroveranno, avranno già provveduto a renderla irriconoscibile»
Avevano quindi atteso che facesse buio poi, dopo averla caricata nel baule della macchina, avevano imboccato la Padana Superiore e, giunti nel punto indicato da Konstandin, l’avevano scaricata nella roggia.
Mercoledì mattina Roberto, un ragioniere ventiquattrenne di Cologno Monzese, si era svegliato con un forte mal di testa, conseguenza di una sbronza presa la sera precedente.
Dopo aver ingollato un paio di aspirine e un caffè forte, aveva inforcato la moto per recarsi a Zingonia, dove lavorava come impiegato presso un’azienda metalmeccanica.
Aveva da poco superato Vimodrone quando, costretto a fermarsi per liberare la vescica, aveva cercato un punto appartato in riva alla roggia.
Era stato allora che gli era sembrato di intravedere tra i cespugli qualcosa di strano.
Terminata la bisogna si era sporto per vedere meglio e, scoprendo le morbide curve di quel corpo nudo e i tratti di quel viso che, sebbene stravolti, gli erano sembrati bellissimi, ne era rimasto affascinato.
Avendo notato che alcune pantegane, seppure esitanti, stavano avvicinandosi al corpo per iniziare il loro laido banchetto, dopo aver strappato un ramo da un cespuglio infestante, era sceso sul ciglio della roggia allontanando quelle immonde bestiacce.
Si era poi chinato per constatare se la ragazza fosse ancora viva ma, memore di quanto aveva appreso dai libri gialli, rialzatosi senza averla toccata, aveva chiamato col cellulare la vicina stazione dei carabinieri.
Quando i militi, guidati dal maresciallo, erano giunti sul posto, sollevando il corpo avevano constatato che il rigor mortis non era ancora subentrato.
Avevano pertanto dedotto che la ragazza fosse stata gettata nella roggia non più di tre ore prima, cioè all’alba.
Un paio di particolari però non convincevano il maresciallo:
- il primo era che, in base alla sua esperienza, dall’impronta lasciata sul terreno quel corpo doveva aver giaciuto sul posto almeno tutta la notte precedente;
- il secondo era il constatare che, nonostante la loro famelica voracità, le pantegane esitavano ad avvicinare quel corpo.
Mentre rifletteva perplesso su quei due particolari, gli era parso di vedere la morta muovere un dito; si era allora chinato a toccarle la mano, ma era fredda e, al suo tocco, non era successo nulla…
“Sarà stata una mia allucinazione..” aveva pensato.
Ad ogni buon conto aveva fatto chiamare un’ambulanza per far trasportare il corpo al vicino ospedale San Raffaele.
Lì, dopo aver constatato che la ragazza, seppure in condizioni disperate, era ancora viva, avevano disposto l’immediato ricovero in terapia intensiva.
Erano trascorsi ormai tre giorni dal suo ricovero e Oksana non aveva ancora ripreso conoscenza.
Fra le tante segnalazioni di persone scomparse i carabinieri non erano ancora riusciti a stabilire l’identità della ragazza, che ritenevano pertanto trattarsi di una clandestina facente parte delle tante immigrate asservite al racket della prostituzione.
Roberto, che si era infatuato di quella bella, sfortunata ragazza, tutti i pomeriggi, terminato il lavoro a Zingonia, si era recato al San Raffaele con la speranza di assistere, da dietro il vetro della camera della terapia intensiva, al suo risveglio.
Ma tutte le sere era tornato a casa deluso.
Sabato era il quarto giorno che Oksana era ricoverata e, sebbene non avesse ancora ripreso conoscenza, aveva lasciato la camera della terapia intensiva.
Roberto che, data la sua costanza, aveva ottenuto il permesso di rimanerle accanto fin dal primo mattino, ogni tanto le prendeva la mano sperando in un suo cenno di risposta.
Tutto invano; la mano rimaneva inerte.
Erano ormai le diciotto quando Roberto, che si apprestava a lasciare il San Raffaele per far ritorno a casa, si era voltato un’ultima volta a salutare Oksana...
… e in quel momento aveva avuto la sensazione che la mano di lei si fosse mossa in cerca della sua.
Incredulo si era avvicinato al letto e, presa la mano di lei nella sua, l’aveva finalmente sentita muovere.
In preda a un’agitazione incontenibile, si era attaccato al campanello per chiamare il medico di turno, il quale aveva potuto constatare che Oksana stava effettivamente riprendendo conoscenza…
Sono passati sei mesi.
Oksana si è fisicamente ristabilita e ha superato anche il trauma psicologico conseguente all’esperienza vissuta.
Sei mesi prima, quando aveva avuto un breve momento di notorietà, una rivista di moda, avendo notato la sua bellezza, le aveva chiesto di posare per un servizio fotografico che riguardava il lancio di una nuova linea di lingerie.
A quel servizio, che era stato molto apprezzato, ne erano seguiti altri.
È stato così che Oksana, coronando il suo sogno, ha iniziato la professione di fotomodella, che oggi svolge con pieno successo.
Per lei, che non era mai andata nemmeno nella vicina Kiev, quella di lasciare gli affetti familiari per emigrare in un paese lontano, di cui non sapeva nulla, era stata una decisione difficile.
L’aveva però convinta la prospettiva di un lavoro di successo che le avrebbe consentito di riscattarsi da una vita di stenti e di procurare a sua madre una vecchiaia serena e a suo fratello la possibilità di proseguire gli studi.
Era partita lasciando la vecchia roulotte che era stata la sua casa da sempre.
Da quando cioè la madre Larysa l’aveva partorita senza l’aiuto di una levatrice, di parenti o di amici, sul pavimento di quella stessa roulotte, perché il letto era occupato dal marito Roman, come al solito ubriaco di vodka scadente fin dal primo mattino.
Nascosta in mezzo al carico del TIR che la portava verso la sua nuova vita, ripercorreva mentalmente i diciott’anni della sua breve esistenza.
Il primo ricordo che le tornava alla mente erano i pugni e i calci che, quando era ubriaco, suo padre Roman sferrava a Larysa anche per i più futili motivi.
Poi la nascita di suo fratello Vasyl.
Lei, che aveva solo otto anni, si era data da fare come meglio poteva per assistere la madre che, in preda alle doglie, si lamentava con urla che le mettevano paura…
… e lo shock che le aveva procurato la vista del sesso di sua madre che si dilatava, mentre la testolina di Vasyl scivolava fuori.
Era rimasta così impressionata che quando, più grandicella, i suoi compagni maschi le avevano chiesto di giocare al dottore, si era fermamente rifiutata, andandosi a nascondere nella roulotte.
Ricordava anche quando, nella bella stagione, accompagnava Vasyl al Pravyk’s Park, a passeggiare per i viali ombrosi e a giocare con le tante attrazioni del parco giochi...
… e il giorno in cui suo padre era uscito di casa e non vi aveva più fatto ritorno, lasciandoli senza mezzi di sostentamento, costretti a nutrirsi con quello che racimolavano rovistando nei bidoni della spazzatura.
Intanto lei, nonostante gli stenti, crescendo si era fatta una bellissima ragazza desiderata da tutti i maschi del quartiere… ma nessuno si era mai fatto avanti chiedendola in sposa.
Poi il primo maggio di quell’anno, in occasione della Festa del Lavoro, a Irpin’ si era svolta una gara di motocross e lei era stata scelta come miss incaricata di dare il bacio al vincitore.
Era stato così che aveva conosciuto Konstandin, il vincitore della gara.
La giornata si era conclusa con una festa popolare nel corso della quale in molti si erano esibiti in canti e balli.
Quando anche lei, accompagnandosi col bandura, si era esibita cantando con voce melodiosa canzoni popolari:
«Hai una voce, come te, bellissima» le aveva detto Konstandin.
Poi, abbozzando un inchino: «Mi concedi il prossimo ballo?» le aveva chiesto.
Dopo aver preso parte ad alcuni balli tradizionali di gruppo, quali troike e hopak, avevano finito col fare coppia fissa.
Volteggiando in vorticosi giri di valzer, mazurke e polke, Oksana, dimentica della sua triste condizione, si era sentita felice.
«Sei libera domani?»
«Perché me lo chiedi?»
«Perché mi piacerebbe passare la domenica con te»
«Ti sei fatto un’idea che io sia una ragazza facile, vero?»
«Ma no, cosa vai a pensare… desidero solo passare una domenica in compagnia di una bella ragazza» aveva protestato lui, che poi aveva proposto:
«Potremmo andare a fare un picnic al vicino laghetto così, volendo, potremmo fare anche il bagno»
Alla fine lei aveva accettato e insieme avevano trascorso la domenica al lago.
«Grazie. È stata una domenica meravigliosa» le aveva detto lui al momento di congedarsi «sono stato bene in tua compagnia.»
«Se anche a te è piaciuta la giornata, potremmo trascorrere altre domeniche insieme. Io vengo a Irpin’ ogni quindici giorni»
Da allora, ogni volta che Konstandin era tornato a Irpin’, avevano trascorso la domenica insieme e, pian piano erano diventati sempre più intimi.
Di bell’aspetto, sempre gentile e premuroso, in breve Konstandin era riuscito a fare breccia nel cuore di Oksana, che ogni quindici giorni aspettava, trepidante, l’arrivo del suo cavaliere.
E alla fine lui arrivava a rallegrarle il fine settimana e a farla sognare coi racconti delle meraviglie che rendevano piacevole la vita nei Paesi occidentali e, in particolare, in Italia.
L’estate volgeva ormai al termine quando un giorno: «Hai mai pensato di fare la modella?» le aveva chiesto Konstandin.
«E per chi? Per qualche artista squattrinato?» aveva ribattuto lei con scetticismo.
«No, non per un artista, ma per i rotocalchi o per la pubblicità…»
«Dove? Qui? In questo angolo di mondo abbandonato?»
«Qui forse no, ma in Italia sono certo che avresti successo»
«E come ci arrivo in Italia? Non ho alcuna qualifica o titolo per poter emigrare»
«Se vuoi, ti ci porto io»
«E come?»
«Col TIR, nascosta tra la merce. Il viaggio sarà un po’ scomodo, ma sicuro»
«E come faccio a passare la dogana?»
«Non c’è problema. I doganieri ormai mi conoscono e non fanno mai controlli approfonditi…»
«Ma… se mi scoprissero?»
«Non ti scopriranno ma, se accadesse, al peggio ti consegnerebbero al tuo consolato per essere rimpatriata»
«Ma in Italia non conosco nessuno, non saprei nemmeno dove andare a dormire…»
«Conosco un convento in cui le suore ospitano ragazze immigrate in attesa che trovino un lavoro e si rendano indipendenti» l’aveva prontamente rassicurata lui.
«Pensaci» l’aveva poi sollecitata «la risposta me la darai la prossima volta che torno»
Lei ci aveva pensato e ne aveva parlato anche con sua madre:
«L’Italia è molto lontana e là non conosci nessuno Però ormai sei maggiorenne, devi quindi decidere tu cosa fare. Io non mi sento in grado di darti un consiglio…» le aveva risposto sua madre.
«Hai deciso?» le aveva chiesto Konstandin quando era tornato, quindici giorni dopo.
Lei aveva voluto pensarci ancora quindici giorni, poi alla fine aveva deciso di partire.
Ben presto però aveva dovuto rendersi conto di essere stata ingannata.
Konstandin infatti era un camionista albanese che effettuava, assieme al connazionale Rezart, trasporti internazionali tra l’Italia e i Paesi dell’Est Europa.
Approfittando del fatto che i doganieri, ai quali ogni tanto allungavano una mancia, non sottoponevano più il loro TIR a controlli approfonditi, si erano specializzati nel procurare, alla malavita milanese, belle ragazze dell’Est da avviare alla prostituzione.
La prima sera quando, per passare la notte, si erano fermati in un’area di sosta deserta, Konstandin e Rezart l’avevano raggiunta nello stretto vano a lei riservato:
«Spogliati!» le avevano ordinato.
Lì per lì non aveva capito:
«Perché?» aveva chiesto ingenuamente.
«Poiché non hai i soldi per pagarti il viaggio, ci pagherai in natura»
«Ma… non mi avevi detto che dovevo pagare...» aveva protestato rivolgendosi a Konstandin.
Ma due manrovesci ben assestati erano stati più eloquenti di qualsiasi spiegazione.
A nulla erano valsi, dapprima la sua resistenza, poi le suppliche e il pianto…
… l’avevano violentata, lasciandola poi nuda, infreddolita e disperata a piangere sulle sue disgrazie.
A Milano l’avevano venduta a Vito Guerra, un boss del racket della prostituzione che controllava la zona nord-est della città.
Chiamato un signore di mezza età che indossava un camice bianco, Vito le aveva intimato:
«Togliti le mutande e distenditi su quel tavolo»
«Perché?» aveva chiesto.
«Il dottore deve controllare che tu non abbia malattie veneree. Non voglio puttane malate!»
«Ma io non puttana!» aveva protestato.
«Per ora forse no, ma lo diventerai»
«No, io venuta per fare modella…» aveva cercato di spiegargli col suo incerto italiano.
«No, tu farai la puttana! Almeno finché non mi avrai ripagato il debito che hai contratto per venire in Italia»
Lei si era ancora rifiutata, sostenendo di non aver alcun debito e di essere venuta in Italia con la promessa di fare la modella.
Per tutta risposta Vito l’aveva consegnata a due suoi gorilla che, con metodi assai persuasivi, le avevano fatto cambiare idea.
Ridotta così a più miti consigli, dopo essere stata visitata dal dottore, era stata affidata a un’anziana prostituta, perché l’istruisse all’esercizio della professione.
Consegnata infine al suo protettore, la sera successiva era stata accompagnata in via Porpora, alla postazione assegnatale.
Quando si era ritrovata sola aveva avuto la tentazione di scappare ma, senza soldi, senza documenti, con una scarsa conoscenza della lingua italiana, si era resa conto che non avrebbe saputo dove andare e aveva rinunciato.
Vergognosa del suo abbigliamento succinto, si era ritirata in un angolo semibuio cercando di non dare troppo nell’occhio, per cui diverse macchine erano passate oltre senza averla notata.
Così, quando al termine della sua prima notte di lavoro si era presentata a Vito col misero incasso di due sole prestazioni lui, dopo averla riempita di calci e pugni che l’avevano costretta a sospendere l’attività per i successivi due giorni:
«Meno produci, più tempo impiegherai a ripagare il tuo debito» le aveva spiegato, sequestrandole l’incasso.
Era cominciata così la sua nuova vita e lei, non avendo altra scelta, aveva dovuto rassegnarsi.
Per consolarsi aveva pensato che, in definitiva, i soldi da mandare a sua madre, alla quale avrebbe lasciato credere di aver realizzato il suo sogno, li avrebbe potuti guadagnare anche prostituendosi.
Era ormai trascorso un anno dal giorno in cui Oksana era giunta a Milano.
Un anno in cui tutte le sere le aveva passate in via Porpora cercando di adescare più clienti possibile.
In tutto quel tempo non era riuscita a mettere da parte neppure un centesimo e i soldi inviati a Irpin’ erano stati una miseria.
Una mattina, presa dallo sconforto, dopo essere riuscita a eludere la sorveglianza del suo protettore, era entrata nell’Abbazia di Casoretto.
Seduta su una panca appartata stava piangendo sulle sue miserie quando si era sentita chiedere: «Cosa c’è che non va, figliola?».
«Tutto padre» aveva risposto al sacerdote che l’aveva interrogata.
«Vuoi confessarti? Vuoi provare a liberare l’anima da ciò che ti cruccia?»
«Dovessi confessare tutti i miei peccati non mi basterebbe l’intera giornata» aveva risposto sconsolata «ormai sono dannata!»
«Non dire così figliola; Dio è immensa bontà e immenso amore; nessuno è dannato, se si pente sinceramente!»
Così lei si era sfogata con Padre Floriano, confidandogli tutte le sue pene.
Preso da compassione, vedendo la sua sincera afflizione, Padre Floriano le aveva chiesto:
«Sei sicura di voler abbandonare la vita che fai per intraprenderne una diversa, lavorando onestamente?»
«Sì, padre!»
«Allora vedrò cosa posso fare»
«Intanto ti faccio ospitare dalle suore del convento qui vicino»
«Grazie padre»
Dopo qualche giorno Padre Floriano era riuscito a procurarle un’occupazione come colf presso un’anziana signora che abitava in corso Buenos Aires.
Era già occupata da tre mesi quando un martedì mattina, mentre percorreva via Scarlatti diretta al mercato di Benedetto Marcello, aveva sentito alle spalle una voce che la salutava:
«Ciao Oksana»
Riconosciuta la voce di Konstandin, presa dal panico, aveva tentato di fuggire, ma lui l’aveva afferrata per un braccio e, dopo averle premuto sulla bocca un tampone, l’aveva spinta in un’auto che era ripartita sgommando.
Poi il buio…
Quando si era ripresa giaceva sul pavimento sterrato di un locale illuminato solo dalla fioca luce di una lampadina appesa al soffitto.
Al centro un tavolaccio di legno e, tutt’intorno, attrezzi agricoli e rustiche scaffalature cariche di cesti e cassette, le avevano fatto capire di trovarsi in un casotto di campagna.
Su di lei incombevano, con espressioni in volto tutt’altro che rassicuranti, Konstandin e Rezart.
«Dove sono? Perché sono qui? Cosa volete da me?» aveva chiesto.
«Quante domande!» avevano risposto all’unisono i due con un ghigno.
«Vi prego, lasciatemi andare…»
Incuranti delle sue suppliche, l’avevano afferrata per le braccia e le gambe e l’avevano distesa, ancora mezzo intontita, sul tavolaccio, sotto la luce dell’unica lampadina.
A quel punto, uscito dalla penombra, si era materializzato Vito Guerra.
«Lei!» aveva esclamato spaventata, cominciando a tremare.
«Ora imparerai cosa capita a chi prova a farmi fesso, fuggendo senza avermi completamente ripagato il suo debito…»
Conoscendo per esperienza quanto sapesse essere sadico: «Nooo!» aveva urlato terrorizzata cercando di alzarsi, ma lui, con uno spintone, l’aveva ricacciata giù.
Con la forza della disperazione, tentando ancora di rialzarsi, aveva cominciato ad agitarsi e a scalciare, cercando di tenerlo a distanza.
«Invece di stare lì a ridacchiare come due deficienti, tenetela ferma!» aveva urlato Vito a Konstandin e Rezart.
L’impresa si era rivelata tuttaltro che facile, ma alla fine ce l’avevano fatta.
Mentre la tenevano ferma Vito, per mezzo di robuste funi, le aveva legato i polsi e le caviglie alle gambe del tavolo.
«Negli ultimi tempi hai trascurato un po’ il tuo lavoro…» così dicendo Vito le aveva strappato la maglietta e la gonna, lasciandola in reggiseno e slip.
«… è il caso che recuperi il tempo perduto» aveva aggiunto mentre, fatta scattare la lama di un coltello a serramanico, con colpi ben assestati l’aveva privata degli ultimi indumenti.
Calatosi i pantaloni, l’aveva penetrata con rabbia, affidandola poi a Konstandin e Rezart, che le avevano riservato lo stesso trattamento.
Piangendo per l’umiliazione, era riuscita, mordendosi le labbra, a non emettere nemmeno un lamento, al che Vito:
«In fondo, forse, non ti è neppure dispiaciuto» aveva commentato.
«Ma adesso arriva il bello…» aveva aggiunto, infilandole la testa in un sacchetto nero di plastica, che le aveva poi stretto al collo con un laccio.
Poi silenzio…
Negli eterni secondi che erano seguiti aveva sentito crescere la tensione e si era anche urinata addosso.
«Ahaaiii!» aveva urlato quando Rezart le aveva appoggiato la punta della sigaretta accesa su un capezzolo.
«Ahaaiii!» quando Konstandin le aveva riservato lo stesso trattamento all’interno delle cosce.
Avevano proseguito con quel trattamento mentre lei, urlando per il dolore, consumava rapidamente l’ossigeno.
Sentendo l’aria venir meno, nel tentativo di respirare, a bocca aperta risucchiava il sacchetto che, rientrando, la faceva sembrare un grottesco mascherone.
Quella vista, unita alle pose scomposte che assumeva nel tentativo di divincolarsi, suscitava nei suoi tre aguzzini commenti osceni accompagnati da sguaiate risate.
Prima che soffocasse del tutto Vito l’aveva liberata dal sacchetto che poi, dopo averle fatto riprendere fiato, le aveva di nuovo infilato, mentre i due compari riprendevano il loro sadico gioco.
Erano andati avanti così finché lei, ormai in stato confusionale, al dolore aveva cominciato a reagire solo con flebili lamenti.
Infine aveva smesso anche di agitarsi e, dopo aver sputato una boccata di sangue, era rimasta completamente immobile.
Quando le avevano tolto il sacchetto l’avevano trovata col volto cianotico sporco di sangue.
Avevano provato a farle riprendere i sensi, ma lei non dava più segni di vita.
«È morta» aveva sentenziato Konstandin.
«Sei sicuro?» gli aveva chiesto Vito.
«Non respira più e non reagisce…»
«Beh! Allora io vado. Pensateci voi a far sparire il corpo» aveva detto Vito.
Aveva poi aggiunto: «Fate anche sparire da qui ogni traccia»
«Dobbiamo trovare il modo di far sparire il cadavere» aveva detto Konstandin.
«Bruciarla non possiamo, lascerebbe troppe tracce» aveva osservato Rezart.
«Conosco, nella roggia che affianca la statale, un posto isolato dove scaricarla» si era ricordato Konstandin «È pieno di pantegane fameliche che, quando la ritroveranno, se mai la ritroveranno, avranno già provveduto a renderla irriconoscibile»
Avevano quindi atteso che facesse buio poi, dopo averla caricata nel baule della macchina, avevano imboccato la Padana Superiore e, giunti nel punto indicato da Konstandin, l’avevano scaricata nella roggia.
Mercoledì mattina Roberto, un ragioniere ventiquattrenne di Cologno Monzese, si era svegliato con un forte mal di testa, conseguenza di una sbronza presa la sera precedente.
Dopo aver ingollato un paio di aspirine e un caffè forte, aveva inforcato la moto per recarsi a Zingonia, dove lavorava come impiegato presso un’azienda metalmeccanica.
Aveva da poco superato Vimodrone quando, costretto a fermarsi per liberare la vescica, aveva cercato un punto appartato in riva alla roggia.
Era stato allora che gli era sembrato di intravedere tra i cespugli qualcosa di strano.
Terminata la bisogna si era sporto per vedere meglio e, scoprendo le morbide curve di quel corpo nudo e i tratti di quel viso che, sebbene stravolti, gli erano sembrati bellissimi, ne era rimasto affascinato.
Avendo notato che alcune pantegane, seppure esitanti, stavano avvicinandosi al corpo per iniziare il loro laido banchetto, dopo aver strappato un ramo da un cespuglio infestante, era sceso sul ciglio della roggia allontanando quelle immonde bestiacce.
Si era poi chinato per constatare se la ragazza fosse ancora viva ma, memore di quanto aveva appreso dai libri gialli, rialzatosi senza averla toccata, aveva chiamato col cellulare la vicina stazione dei carabinieri.
Quando i militi, guidati dal maresciallo, erano giunti sul posto, sollevando il corpo avevano constatato che il rigor mortis non era ancora subentrato.
Avevano pertanto dedotto che la ragazza fosse stata gettata nella roggia non più di tre ore prima, cioè all’alba.
Un paio di particolari però non convincevano il maresciallo:
- il primo era che, in base alla sua esperienza, dall’impronta lasciata sul terreno quel corpo doveva aver giaciuto sul posto almeno tutta la notte precedente;
- il secondo era il constatare che, nonostante la loro famelica voracità, le pantegane esitavano ad avvicinare quel corpo.
Mentre rifletteva perplesso su quei due particolari, gli era parso di vedere la morta muovere un dito; si era allora chinato a toccarle la mano, ma era fredda e, al suo tocco, non era successo nulla…
“Sarà stata una mia allucinazione..” aveva pensato.
Ad ogni buon conto aveva fatto chiamare un’ambulanza per far trasportare il corpo al vicino ospedale San Raffaele.
Lì, dopo aver constatato che la ragazza, seppure in condizioni disperate, era ancora viva, avevano disposto l’immediato ricovero in terapia intensiva.
Erano trascorsi ormai tre giorni dal suo ricovero e Oksana non aveva ancora ripreso conoscenza.
Fra le tante segnalazioni di persone scomparse i carabinieri non erano ancora riusciti a stabilire l’identità della ragazza, che ritenevano pertanto trattarsi di una clandestina facente parte delle tante immigrate asservite al racket della prostituzione.
Roberto, che si era infatuato di quella bella, sfortunata ragazza, tutti i pomeriggi, terminato il lavoro a Zingonia, si era recato al San Raffaele con la speranza di assistere, da dietro il vetro della camera della terapia intensiva, al suo risveglio.
Ma tutte le sere era tornato a casa deluso.
Sabato era il quarto giorno che Oksana era ricoverata e, sebbene non avesse ancora ripreso conoscenza, aveva lasciato la camera della terapia intensiva.
Roberto che, data la sua costanza, aveva ottenuto il permesso di rimanerle accanto fin dal primo mattino, ogni tanto le prendeva la mano sperando in un suo cenno di risposta.
Tutto invano; la mano rimaneva inerte.
Erano ormai le diciotto quando Roberto, che si apprestava a lasciare il San Raffaele per far ritorno a casa, si era voltato un’ultima volta a salutare Oksana...
… e in quel momento aveva avuto la sensazione che la mano di lei si fosse mossa in cerca della sua.
Incredulo si era avvicinato al letto e, presa la mano di lei nella sua, l’aveva finalmente sentita muovere.
In preda a un’agitazione incontenibile, si era attaccato al campanello per chiamare il medico di turno, il quale aveva potuto constatare che Oksana stava effettivamente riprendendo conoscenza…
Sono passati sei mesi.
Oksana si è fisicamente ristabilita e ha superato anche il trauma psicologico conseguente all’esperienza vissuta.
Sei mesi prima, quando aveva avuto un breve momento di notorietà, una rivista di moda, avendo notato la sua bellezza, le aveva chiesto di posare per un servizio fotografico che riguardava il lancio di una nuova linea di lingerie.
A quel servizio, che era stato molto apprezzato, ne erano seguiti altri.
È stato così che Oksana, coronando il suo sogno, ha iniziato la professione di fotomodella, che oggi svolge con pieno successo.
Ultima modifica di Gianfranco39 il Mar Mar 09, 2021 8:59 am - modificato 1 volta.