Mi chiamo Emily, sono nata tanti anni fa - saranno ormai centoventi o poco meno - in una cittadina inglese.
Mia madre mi ha raccontato spesso di quel freddo giorno di febbraio: piovigginava e in casa la levatrice aveva preteso l’accensione di ben due fuochi al momento del parto.
Il pancione della donna che mi ha partorito era davvero enorme: era ormai chiaro che non ero da sola, eravamo in due a condividere il suo utero.
Infatti, assieme a me, è nata Charlotte, la mia sorellina prediletta.
Mi hanno poi raccontato che è stato un parto difficile, lungo e doloroso.
Più di una volta tutti hanno temuto per le vite nostre e per quella della donna che ci stava mettendo al mondo. Dopo una notte e una mattinata di urla, spinte, preghiere, invocazioni e bestemmie, abbiamo visto la luce.
Ci ho pensato tante volte, negli anni, a come dev’essere stata la nostra nascita, ma non è stato facile e neanche bello scoprirlo.
Dai racconti della nostra madre adottiva ho saputo che la prima cosa che ho toccato è stata la mano di mia sorella, poi che ho sentito il calore di quelle più grandi della levatrice che mi aveva appena presa in braccio. Il racconto procedeva impietoso: ho appreso che la prima cosa che avevo sentito era stato l’urlo della donna che ci aveva messo al mondo.
Quell’urlo è stato la reazione alla vista delle sue due creature. Non ci ha voluto toccare, non ci ha voluto più vedere: aveva partorito due bimbe, coi fianchi e con i glutei uniti. Aveva partorito qualcosa di mostruoso.
La nostra madre biologica era una giovane barista ventenne che viveva in affitto presso una signora benestante, Dorothy Becker. E fu proprio Dorothy che ebbe forse pietà di noi e per non abbandonarci ci accolse in casa sua: insomma, diventammo figlie sue.
Non ho più saputo nulla di quella barista, ma poco importa. Charlotte e io crescevamo felici.
Eravamo contente di fare tutto insieme, la nostra condivisione totale era motivo di stimolo e di orgoglio.
A volte avevo la sensazione che Dorothy volesse tenerci nascoste, quasi avesse vergogna di mostrarci in pubblico. Infatti non andavamo a scuola: un insegnante privato veniva a casa a impartirci lezioni di letteratura e di matematica. Non avevamo nessun’amica, ma non ci importava: Charlotte e io non eravamo mai sole.
Non ci accorgemmo neanche della grande guerra: noi giocavamo in giardino mentre i soldati morivano in trincea sotto una pioggia di bombe. Eravamo due bambine appagate, nel nostro mondo fatto di vestiti graziosi, nastri ai capelli, tè e pasticcini al pomeriggio.
Certo, crescendo non mancavano i problemi. Fin da piccole il mal di schiena ci tormentava: la nostra condizione non ci ha mai consentito una postura normale.
Avevamo da poco compiuto vent’anni.
In città c’era la festa del Lammas: ogni anno si festeggiava la prima mietitura. Tutta la città era in fermento e quell’anno era anche arrivato il circo.
Per la prima volta uscimmo fuori dal giardino di casa nostra, vedemmo il mondo oltre il cancello, coi vestiti comprati per l’occasione e le scarpe nuove - con il tacco un po’ più alto - e ben lucidate.
È stato bellissimo vedere quello spettacolo: l’avvenente ballerina, di sicuro innamorata dell’uomo forzuto, la donna barbuta, la tenera coppia di nani, il pagliaccio coi suoi molteplici giochi di prestigio… erano tutti davvero bravissimi!
Poi iniziò la sfilata dei personaggi strani: l’uomo tronco, senza neanche un arto, la ballerina senza braccia, le sorelle microcefale.
Il pubblico aveva quasi paura di quei tipi strambi. C’era chi li guardava con diffidenza, chi aveva un’aria schifata, chi li osservava con terrore, chi ne rideva.
Charlotte e io, sedute sulla nostra panca, avevamo avuto di colpo un sussulto: quelle persone strane ci facevano sentire normali. Al circo la realtà era davvero capovolta, lì erano tutti uguali proprio perché erano tutti strani.
Non abbiamo avuto bisogno di insistere troppo o di molte spiegazioni: la mamma ci aveva capito subito.
Pochi mesi dopo anche noi facevamo parte di una carovana. Andavamo in giro per tutta l’Inghilterra, riempivamo le panche del nostro tendone di gente che si divertiva e si compiaceva.
Facevamo quel poco che i nostri corpi ci consentivano: una semplice coreografia mentre accompagnavamo in pista pochi cani addestrati; la gente ci applaudiva.
Avevamo finalmente trovato la nostra dimensione: eravamo le Gemelle Siamesi.
Durante uno spettacolo, nel sud dell’Essex, fummo avvicinate da un signore vestito bene, che aveva persino un cappello!
Si presentò come William Oliver.
Billy - si faceva chiamare così - ci convinse a lasciare il circo, che tanta felicità ci aveva dato, per seguirlo negli Stati Uniti.
Fu un viaggio bellissimo: non avevamo mai preso un aeroplano, era la prima volta che affrontavamo un volo; l’oceano immenso sotto di noi ci spaventava ma allo stesso tempo ci affascinava, tanto che non riuscivamo a smettere di guardarlo.
Là in America iniziammo una nuova vita. Grazie a Billy ci esibivamo nei club come cantanti e musiciste: io suonavo il pianoforte e la mia gemella il sassofono.
Diventammo The English Siamese Twins.
Lui era il nostro mentore, eravamo felici, avevamo un lavoro redditizio e stavamo diventando famose.
Poi successe l’inevitabile. Sia io sia Charlotte ci innamorammo di Billy, il quale non disprezzava affatto le nostre attenzioni. Non mi vergogno a dire che abbiamo anche giaciuto, tutti e tre insieme. E questo era stato strano ma bellissimo, dato che ci eravamo ormai praticamente rassegnate a una vita casta e mai avremmo pensato di provare i piaceri di un letto caldo.
La fama portò anche la proposta di lavoro che ci cambiò la vita: avevamo l’occasione di fare del cinema. Naturalmente accettammo senza discuterne poi troppo: eravamo entrambe d’accordo sul fatto che non potevamo perdere quest’occasione.
Billy non fu invece molto contento di essere stato escluso dall’affare, al punto che ci accusò di libertinaggio e ci denunciò dicendo di essere stato costretto a venire a letto con entrambe le gemelle.
Era stato davvero a letto con noi ma nessuno lo aveva costretto. Naturalmente il giudice diede ragione a noi, che dichiarammo che la nostra relazione con lui era solo professionale e lo accusammo di calunnia. Dovette persino pagarci una discreta somma come risarcimento.
Anche senza Billy continuammo la nostra attività nel mondo dello spettacolo: ormai eravamo famose (grazie anche al film che avevamo girato) e molto richieste, in parecchi stati d’America.
Tutto questo durò una decina di anni ancora; poi, come tutto, anche noi passammo di moda. Il lavoro diminuì e la gente iniziò a dimenticarci.
Alla fine degli anni sessanta eravamo due cinquantenni che campavano di rendita e ricordavano con nostalgia i gloriosi tempi passati.
In quei mesi si era diffusa anche negli Stati Uniti un’influenza proveniente dalla Cina. Tantissimi si ammalavano, molti ne morivano.
Prese anche Charlotte e di conseguenza anche me, visto che condividevamo molti organi dei nostri corpi.
La notorietà ci aveva dato qualche soldo ma nessun amico. Nessuno ci venne a trovare durante la convalescenza, non ricevemmo neanche una telefonata. Il medico al quale ci rivolgemmo ci disse che era una banale influenza, che sarebbe passata con un semplice ciclo di antibiotici.
Ma così non fu. Peggioravamo di giorno in giorno, Charlotte era sempre più debilitata e più in fretta rispetto a me.
Una mattina di gennaio mi lasciò da sola.
Io continuai a lottare ancora per qualche giorno, ma ero impossibilitata a muovermi. Oltre alla febbre, la fame si faceva sentire.
Non vedevo l’ora di terminare il mio percorso. Giacevo lì, la mia unica compagnia era l’inerme altra metà di me stessa: per la prima volta in vita mia ero rimasta davvero da sola.
Volevo soltanto raggiungerla.
Il tempo si dilatava sempre di più, ero sdraiata su un fianco, la metà ancora viva del mio corpo era intorpidita. Ormai non sentivo più nulla, né fame né male.
Le ore erano diventate giorni. Ne passarono due prima della resa totale.
Felicemente, dopo aver visto dalla finestra la mia ultima alba, raggiunsi mia sorella Charlotte.
Mia madre mi ha raccontato spesso di quel freddo giorno di febbraio: piovigginava e in casa la levatrice aveva preteso l’accensione di ben due fuochi al momento del parto.
Il pancione della donna che mi ha partorito era davvero enorme: era ormai chiaro che non ero da sola, eravamo in due a condividere il suo utero.
Infatti, assieme a me, è nata Charlotte, la mia sorellina prediletta.
Mi hanno poi raccontato che è stato un parto difficile, lungo e doloroso.
Più di una volta tutti hanno temuto per le vite nostre e per quella della donna che ci stava mettendo al mondo. Dopo una notte e una mattinata di urla, spinte, preghiere, invocazioni e bestemmie, abbiamo visto la luce.
Ci ho pensato tante volte, negli anni, a come dev’essere stata la nostra nascita, ma non è stato facile e neanche bello scoprirlo.
Dai racconti della nostra madre adottiva ho saputo che la prima cosa che ho toccato è stata la mano di mia sorella, poi che ho sentito il calore di quelle più grandi della levatrice che mi aveva appena presa in braccio. Il racconto procedeva impietoso: ho appreso che la prima cosa che avevo sentito era stato l’urlo della donna che ci aveva messo al mondo.
Quell’urlo è stato la reazione alla vista delle sue due creature. Non ci ha voluto toccare, non ci ha voluto più vedere: aveva partorito due bimbe, coi fianchi e con i glutei uniti. Aveva partorito qualcosa di mostruoso.
La nostra madre biologica era una giovane barista ventenne che viveva in affitto presso una signora benestante, Dorothy Becker. E fu proprio Dorothy che ebbe forse pietà di noi e per non abbandonarci ci accolse in casa sua: insomma, diventammo figlie sue.
Non ho più saputo nulla di quella barista, ma poco importa. Charlotte e io crescevamo felici.
Eravamo contente di fare tutto insieme, la nostra condivisione totale era motivo di stimolo e di orgoglio.
A volte avevo la sensazione che Dorothy volesse tenerci nascoste, quasi avesse vergogna di mostrarci in pubblico. Infatti non andavamo a scuola: un insegnante privato veniva a casa a impartirci lezioni di letteratura e di matematica. Non avevamo nessun’amica, ma non ci importava: Charlotte e io non eravamo mai sole.
Non ci accorgemmo neanche della grande guerra: noi giocavamo in giardino mentre i soldati morivano in trincea sotto una pioggia di bombe. Eravamo due bambine appagate, nel nostro mondo fatto di vestiti graziosi, nastri ai capelli, tè e pasticcini al pomeriggio.
Certo, crescendo non mancavano i problemi. Fin da piccole il mal di schiena ci tormentava: la nostra condizione non ci ha mai consentito una postura normale.
Avevamo da poco compiuto vent’anni.
In città c’era la festa del Lammas: ogni anno si festeggiava la prima mietitura. Tutta la città era in fermento e quell’anno era anche arrivato il circo.
Per la prima volta uscimmo fuori dal giardino di casa nostra, vedemmo il mondo oltre il cancello, coi vestiti comprati per l’occasione e le scarpe nuove - con il tacco un po’ più alto - e ben lucidate.
È stato bellissimo vedere quello spettacolo: l’avvenente ballerina, di sicuro innamorata dell’uomo forzuto, la donna barbuta, la tenera coppia di nani, il pagliaccio coi suoi molteplici giochi di prestigio… erano tutti davvero bravissimi!
Poi iniziò la sfilata dei personaggi strani: l’uomo tronco, senza neanche un arto, la ballerina senza braccia, le sorelle microcefale.
Il pubblico aveva quasi paura di quei tipi strambi. C’era chi li guardava con diffidenza, chi aveva un’aria schifata, chi li osservava con terrore, chi ne rideva.
Charlotte e io, sedute sulla nostra panca, avevamo avuto di colpo un sussulto: quelle persone strane ci facevano sentire normali. Al circo la realtà era davvero capovolta, lì erano tutti uguali proprio perché erano tutti strani.
Non abbiamo avuto bisogno di insistere troppo o di molte spiegazioni: la mamma ci aveva capito subito.
Pochi mesi dopo anche noi facevamo parte di una carovana. Andavamo in giro per tutta l’Inghilterra, riempivamo le panche del nostro tendone di gente che si divertiva e si compiaceva.
Facevamo quel poco che i nostri corpi ci consentivano: una semplice coreografia mentre accompagnavamo in pista pochi cani addestrati; la gente ci applaudiva.
Avevamo finalmente trovato la nostra dimensione: eravamo le Gemelle Siamesi.
Durante uno spettacolo, nel sud dell’Essex, fummo avvicinate da un signore vestito bene, che aveva persino un cappello!
Si presentò come William Oliver.
Billy - si faceva chiamare così - ci convinse a lasciare il circo, che tanta felicità ci aveva dato, per seguirlo negli Stati Uniti.
Fu un viaggio bellissimo: non avevamo mai preso un aeroplano, era la prima volta che affrontavamo un volo; l’oceano immenso sotto di noi ci spaventava ma allo stesso tempo ci affascinava, tanto che non riuscivamo a smettere di guardarlo.
Là in America iniziammo una nuova vita. Grazie a Billy ci esibivamo nei club come cantanti e musiciste: io suonavo il pianoforte e la mia gemella il sassofono.
Diventammo The English Siamese Twins.
Lui era il nostro mentore, eravamo felici, avevamo un lavoro redditizio e stavamo diventando famose.
Poi successe l’inevitabile. Sia io sia Charlotte ci innamorammo di Billy, il quale non disprezzava affatto le nostre attenzioni. Non mi vergogno a dire che abbiamo anche giaciuto, tutti e tre insieme. E questo era stato strano ma bellissimo, dato che ci eravamo ormai praticamente rassegnate a una vita casta e mai avremmo pensato di provare i piaceri di un letto caldo.
La fama portò anche la proposta di lavoro che ci cambiò la vita: avevamo l’occasione di fare del cinema. Naturalmente accettammo senza discuterne poi troppo: eravamo entrambe d’accordo sul fatto che non potevamo perdere quest’occasione.
Billy non fu invece molto contento di essere stato escluso dall’affare, al punto che ci accusò di libertinaggio e ci denunciò dicendo di essere stato costretto a venire a letto con entrambe le gemelle.
Era stato davvero a letto con noi ma nessuno lo aveva costretto. Naturalmente il giudice diede ragione a noi, che dichiarammo che la nostra relazione con lui era solo professionale e lo accusammo di calunnia. Dovette persino pagarci una discreta somma come risarcimento.
Anche senza Billy continuammo la nostra attività nel mondo dello spettacolo: ormai eravamo famose (grazie anche al film che avevamo girato) e molto richieste, in parecchi stati d’America.
Tutto questo durò una decina di anni ancora; poi, come tutto, anche noi passammo di moda. Il lavoro diminuì e la gente iniziò a dimenticarci.
Alla fine degli anni sessanta eravamo due cinquantenni che campavano di rendita e ricordavano con nostalgia i gloriosi tempi passati.
In quei mesi si era diffusa anche negli Stati Uniti un’influenza proveniente dalla Cina. Tantissimi si ammalavano, molti ne morivano.
Prese anche Charlotte e di conseguenza anche me, visto che condividevamo molti organi dei nostri corpi.
La notorietà ci aveva dato qualche soldo ma nessun amico. Nessuno ci venne a trovare durante la convalescenza, non ricevemmo neanche una telefonata. Il medico al quale ci rivolgemmo ci disse che era una banale influenza, che sarebbe passata con un semplice ciclo di antibiotici.
Ma così non fu. Peggioravamo di giorno in giorno, Charlotte era sempre più debilitata e più in fretta rispetto a me.
Una mattina di gennaio mi lasciò da sola.
Io continuai a lottare ancora per qualche giorno, ma ero impossibilitata a muovermi. Oltre alla febbre, la fame si faceva sentire.
Non vedevo l’ora di terminare il mio percorso. Giacevo lì, la mia unica compagnia era l’inerme altra metà di me stessa: per la prima volta in vita mia ero rimasta davvero da sola.
Volevo soltanto raggiungerla.
Il tempo si dilatava sempre di più, ero sdraiata su un fianco, la metà ancora viva del mio corpo era intorpidita. Ormai non sentivo più nulla, né fame né male.
Le ore erano diventate giorni. Ne passarono due prima della resa totale.
Felicemente, dopo aver visto dalla finestra la mia ultima alba, raggiunsi mia sorella Charlotte.