Guardare la superficie in legno del campo lo fece vacillare solo per qualche secondo, poi si riprese. Pensò che se non fosse stato seduto sulla carrozzina avrebbe perso l’equilibrio e si sarebbe ritrovato col culo per terra.
Anche al primo allenamento nella vecchia palestra si era sentito strano, ma lì era diverso: il palazzetto, il parquet, la prima partita di campionato. Il cuore gli martellava nel petto per la paura, l’emozione, i ricordi pesanti. Prima dell’incidente in moto che gli aveva precluso per sempre l’uso degli arti inferiori, era stato un buon giocatore delle serie minori, con tanti punti nelle mani e il sogno di diventare un professionista. Poi il sogno e le gambe si erano sbriciolati lungo una corsia dell’Autostrada dei Laghi, assieme alla vita di Monica. La sua compagna era stata meno fortunata di lui, sempre che si potesse parlare di fortuna nel suo caso.
«Sei teso, Alex?»
Alex voltò la testa. Coach Fanini era dietro di lui e stava sorridendo, le mani appoggiate ai fianchi nella tipica posa dell’allenatore di basket.
«Sì, abbastanza.» Fu questione di un attimo e si corresse. «Anzi, molto.»
«È naturale, è sempre così all’esordio. Ma ti posso garantire che appena entrerai sul parquet tutta la tensione svanirà, come per magia.»
Alex fece una smorfia e scosse lentamente la testa.
«Non so, coach, spero abbia ragione, ma non credo sarà così facile.»
Piero Fanini si accovacciò e portò lo sguardo all’altezza di quello del suo giocatore.
«Cos’è che ti turba? Ti va di parlarne?»
Alex strinse forte i pugni, cercando di trattenere le lacrime, senza riuscirci.
«Sarei potuto diventare un professionista, coach. Magari non nell’Olimpia e neppure nella Virtus, ma in qualche squadra di metà classifica, perché no? Avevo la media di venticinque punti a partita e difendevo come un dannato.»
«Conosco la tua storia, Alex. Ti ho visto giocare. Sì, eri forte, ma lo sei ancora. La pallacanestro si gioca con queste» disse il coach, mettendogli davanti al viso le mani aperte.
«Già, le mani» disse Alex alzando la voce, «ma la forza, la potenza, l’esplosività, stanno qua dentro» continuò battendo i pugni sulle cosce. «E ora queste non servono più a un cazzo.»
Il ragazzo si asciugò gli occhi con la canotta; il gesto sembrò restituirgli un po' di calma.
«Scusi, coach, non volevo alzare la voce. È solo che…Mi sentivo così libero quando saltavo e andavo a schiacciare la palla a canestro. Mi sentivo libero come un uccello e quella sensazione non la proverò mai più.»
«Ne proverai altre, forse ancora più intense.»
Alex sorrise e tornò a guardare il parquet. «Crede davvero che prima o poi mi abituerò a giocare senza gambe? Cioè, riuscirò mai ad accettare la cosa?»
L’allenatore indicò il petto di Alex. «Cosa c’è scritto sulla divisa che indossi?»
Il ragazzo annuì. «Warriors.»
«Warriors, esatto. Perché tu, tutti voi, siete dei guerrieri. Quello che fate, l’impegno che ci mettete, non è da tutti. E bada bene, la mia non è retorica da quattro soldi, le cose stanno davvero in questi termini. Siete dei guerrieri e nulla e nessuno vi può sottomettere.»
Il coach si tirò su e abbracciò Alex, poi gli diede il cinque. «Dai, concentrato adesso. Sono certo che farai una bella partita.»
Alex ringraziò Fanini, quindi indicò il campo da gioco. «Sa qual è l’aspetto più buffo di tutta questa situazione?»
«No, quale?»
«Ci ho pensato tante volte da quando ho cominciato a vedere le vostre partite, ad allenarmi con voi…La carrozzina sul legno non fa praticamente rumore. Non so, sembra tutto così irreale. Mi manca da morire il suono delle scarpe che strisciano sul parquet. Se qualcuno me lo chiedesse direi che è quella la voce più intima del basket, quel cigolio incessante.»
Lì vicino c’era un pallone, Alex lo prese e si diresse palleggiando verso la panchina dei suoi compagni di squadra. Mentre avanzava aprì la bocca e provò a riprodurre il rumore delle scarpe sul parquet.