Mamma mia, avrei un mucchi di cose da dire su questo racconto!
Partiamo dalla sua origine. Questo è uno spin-off, il seguito di un racconto brevissimo nato lo scorso anno per il concorso “La venticinquesima ora”. Un racconto che mi piace molto e che, in qualche modo, sentivo “premere” dentro di me. Dato che nel contest sarebbe mancato l’aggancio con il racconto originale, ho dovuto integrare qui le informazioni contenute nella storia precedente e rendere il tutto coeso e coerente.
Il racconto originale nasceva da una suggestione, questa volta della vita reale.
Due anni fa, in una mia prima superiore, un ragazzino che dagli insegnanti della terza media era stato inviato all’ASL per una eventuale diagnosi per DSA, a metà anno scolastico ha ricevuto una valutazione in cui si diceva che rientrava nei parametri della legge 104, vale a dire che a scuola poteva avere l’insegnante di sostegno.
Allora, la legge 104 è una legge sacrosanta e ottima: per fortuna che in Italia esiste! Abbiamo un sistema di inclusione scolastica che il mondo ci invidia. Io stessa sono stata sia educatrice che insegnante di sostegno. Di fronte a questa valutazione, però, sia la famiglia che noi insegnanti (compresa l’insegnante della terza media) siamo rimasti basiti, per tanti motivi di cui non parlerò qui.
La diagnosi probabilmente era corretta ma comunque non è facile dire a un adolescente di quattordici anni, all’improvviso, che avrà l’insegnante di sostegno, per quanto sia la cosa giusta per lui.
A parte queste vicende, il mio cervello ha però fatto il solito “cortocircuito” che porta allo sviluppo di una storia: una realtà in cui una diagnosi di QI limitato o di una qualche altra forma di disabilità porti all’eliminazione fisica in età infantile, sulla base della giustificazione razionale che la persona condurrà una vita inutile e che sarà un peso per se stesso e per gli altri. Certo, è facile collocare questi ragionamenti in eventi del passato del secolo scorso e dire che sono cose che non possono più accadere, ma ci sono forme molto più sottili di pensiero, in questo senso, che rischiano di farsi strada e che mi sembra di vedere avanzare in certe parti del mondo.
Comunque, da qui è scaturita l’idea del racconto: bambini che vengono valutati a otto anni (la scelta dell’età è legata all’acquisizione delle abilità scolastiche di base, per giustificare in modo ancora più “logico” quello che viene fatto) ed eventualmente uccisi sulla base della diagnosi, all’interno di un sistema sociale in cui la vita ha valore solo se è “utile”, se non si è “di peso agli altri” (e qui riprendo la mia riflessione di prima: non sono così sicura che siamo tanto lontani da pensieri di questo genere).
Anche qui ha giocato la suggestione del fatto reale da cui era scaturita la scintilla del racconto: quanto è giusta la diagnosi? Che cosa valuta? Certo, nel nostro mondo reale, in cui è la base per mettere in atto azioni di aiuto, va bene, ma in un mondo distopico, a che conseguenze può portare?
Ero convinta di avere spiegato tutto questo anche troppo, invece…
I dubbi sono fioccati lo stesso, non solo su questo, anche su tante altre cose.
Sì, il racconto è distopico, un genere che mi piace probabilmente anche proprio perché mi permette di non essere precisa su luoghi e date, elementi che sono praticamente superflui per la mia mente, che di solito costruisce narrazioni basate strettamente sull’inconscio (dove non esistono spazio e tempo). Mentre per Fante non avere riferimenti concreti è una sofferenza, per me lo è darli, motivo per cui se posso li evito.
Fante e Asbottino hanno comunque individuato la collocazione geografica che in modo molto vago avevo in mente, il Nord America. Forse per questo mi ha lasciato di stucco la faccenda dei nomi. I film, i fumetti, i libri ambientati nell’America settentrionale mi hanno abituato alla compresenza lì di nomi di tutti i generi, anche tanti di origine biblica (anche moltissimi nomi italiani sono di origine biblica: io ho due fratelli e una sorella che si chiamano Davide, Elisabetta e Gabriele).
Questo per dire che non avevo nemmeno pensato a un riferimento ebraico; ho semplicemente usato nomi che mi piacevano, per diversi motivi.
Dopo tante bacchettate di Aki sul narratore onnisciente, ho cercato di fare in modo che tutte le informazioni arrivassero dai personaggi stessi, tramite i dialoghi. Questo vale anche per i nomi, che ho iniziato a usare solo dopo essere stati pronunciati per la prima volta.
Non che io pensi che il narratore onnisciente non si possa usare: secondo me ha pieno diritto di cittadinanza nella scrittura. Questa volta però è andata bene così, e ho cercato di lavorare in questa direzione anche nella concatenazione degli eventi, dando cioè meno spiegazioni possibile.
C’è un unico punto (individuato in modo preciso da Valentina) che mi rendevo conto poteva creare difficoltà: il passaggio temporale dalla sera della conversazione con Caleb alla sera seguente, quella della vigilia di Natale.
D’altra parte, per chiarire il salto temporale alla sera seguente avrei dovuto sacrificare la scena di Harlan e Caleb che si fermano dietro l’angolo perché vedono i lampeggianti della auto.
Ho sperato che la frase di Caleb sul fatto che fosse la sera di Natale avrebbe rimesso tutto a posto nella testa del lettore, ma mi rendo conto io stessa che avrei dovuto risolvere meglio, in modo più chiaro, il passaggio da un giorno a quello successivo.
Provo a rispondere ad altri dubbi e domande.
- La scuola non è per forza cattolica: è una scuola primaria in un contesto che sì, può essere anche cattolico, ma non è detto; io lo pensavo vagamente più protestante, avendo in mente l’America settentrionale. Lo spettacolo natalizio è un po’ un classico “internazionale”.
- L’inutilità non è legata alle doti artistiche, ma alla disabilità fisica o intellettiva, o comunque nel collocarsi al di sotto di certi livelli dei criteri di selezione
- Russell.
Non è che abbia una “maschera da cattivo”. Non è una maschera, lui è così; non è cattivo, fa il suo lavoro, lo stesso che faceva Harlan fino a pochi giorni prima. Senza cattiveria, senza coinvolgimento emotivo, fanno applicare la Legge non perché odino i bambini ma perché è il loro lavoro. Harlan gli indica una strada diversa, che Russell prende in considerazione solo perché anche lui ha una figlia che sa verrà uccisa entro un anno. Al contrario di Harlan, la sua prospettiva è meno universale e più personale, però il personale lo porterà forse a riflettere sull’universale.
Perché non si rivela subito a Caleb? Anche io mi ero chiesta la stessa cosa, mentre scrivevo. Siamo però in un mondo in cui il governo uccide in modo legale i bambini. Caleb si sarebbe fidato o avrebbe pensato a un inganno per convincerlo a portarlo da Harlan?
Russell lo capisce subito e taglia corto: ha bisogno di fare tutto in fretta e di non trovare ostacoli sulla sua strada.
L’unico vero dubbio è perché non se ne sia andato lasciando libero Caleb di fare quello che voleva. Forse in questo caso Caleb avrebbe pensato di essere seguito. Poi, forse Russell aveva voglia di vedere Harlan e controllare che avesse il modo per fuggire. Dargli una mano, per quel che poteva.
- Lo scrupolo verso i bambini, che vengono portati via mentre dormono.
Lo scrupolo non è tanto verso i bambini, quanto verso le famiglie, e non è uno scrupolo: è il tentativo di non fare agitare le acque, suscitare meno resistenza possibile. Questa è una cosa che ho sentito una volta in un’intervista non ricordo a chi: i sospettati da interrogare si vanno a prendere la notte perché fanno meno resistenza, mezzo addormentati hanno meno risorse per reagire. Ho sfruttato questa idea.
- Perché Harlan salva solo Ethan?
Questa è forse la domanda che ho trovato più strana.
Harlan salva chi può.
Ognuno di noi salva solo chi può, chi riesce. Nessuno di noi salva in una volta il mondo intero.
Ognuno di noi, quando gli va bene, riesce a prendersi cura del suo piccolo pezzo di mondo, una persona alla volta, e tante volte nemmeno quello: quante persone conosciamo che, al posto di costruire, passano la vita a distruggere ciò e chi sta loro intorno?
Harlan conosce Ethan, ha la possibilità di salvare lui e lo fa. Con la speranza che un giorno qualcun altro ci provi. Magari proprio Russell, che ha una figlia di sette anni a cui vuole bene, quindi anche lui è pronto a prendere decisioni difficili.
- Perché Ethan, perché non un altro?
La vita di ognuno di noi è fatta così, di incontri quotidiani con eventi e persone specifiche. La vita non è astratta, quello che ci fa prendere decisioni vere, concrete, non è astratto.
Magari andiamo avanti in un certo modo per anni, mentre in noi si prepara un cambiamento di cui magari non siamo consapevoli. Poi un giorno scatta qualcosa, innescato anche solo da una parola, un suono, un’immagine, un incontro, un gesto. Non sappiamo perché, ma succede, e in quell’istante si focalizza e si riversa tutto quello che ci eravamo preparati a diventare senza rendercene conto.
A me è capitato, immagino anche a tanti altri.
Per Harlan questo è l’incontro con Ethan, che diventa un’evidenza che non può più ignorare.
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@supergric. Harlan non spiega tutto a Caleb, lascia parecchi sottintesi (che infatti hanno gettato nel dubbio molti commentatori) proprio perché dà per scontato che tutti conoscano la Legge e quello che accade ai bambini. Quello che Harlan spiega sono “le cose che non vengono dette”, in particolare il “Programma”, vale a dire un vero e proprio sistema per limitare al minimo le resistenze delle famiglie nel lasciare uccidere i proprio figli. Un sistema che si attua nelle modalità che Harlan spiega.
Il nome di Ethan. Mentre cercavo il nome del bambino mi è venuto in mente Ethan. Dopo qualche giorno, mi è venuta in mente la frase che pronuncia Caleb, che riguarda la forza e l’augurio di una lunga vita. Ecco, potete non credermi, ma io non lo sapevo che quello fosse il significato del nome, quando l’ho scelto. L’ho scoperto mentre montavo il racconto. In quel momento mi sono chiesta se aveva un senso quello che stavo scrivendo e sono andata a cercare su internet il significato del nome. Be’, cosa buffa, era proprio quello. E ho pensato – come Harlan – che la vita era ironica, perché un bambino destinato a morire a otto anni aveva un nome che parlava di lunga vita. O forse no, diventa quasi una profezia, perché Harlan lo salva. Insomma, tutto tornava, in modo strano, così ho lasciato la frase.
Molto più semplice invece la spiegazione di quello che Caleb dice a proposito del pronunciare una sola parola. Lo fa per rassicurare Harlan sul fatto che il bambino non sarà messo in imbarazzo, con una parte che richiede cose da imparare a memoria. Gli viene trovato un ruolo nello spettacolo adatto alle capacità che lui ha: muoversi e pronunciare anche solo una parola.
- @Paluca e alessandro parolini. No, non ho mai letto “L’istituto”. Non solo: so di rischiare il linciaggio confessando qui e ora di non avere mai letto niente di Stephen King. Ho visto alcuni film tratti dai suoi libri (Stand by me, Misery non deve morire, La zona morta), ma non ho mai letto niente.
Alla fine di tutto, sono stracontenta che questo racconto sia piaciuto anche a voi e vi ringrazio tutti: chi ha commentato e chi poi mi ha anche votato.
Avevo la sensazione che non sarei più riuscita a scrivere niente di buono, invece… ecco una bella botta di positività.
Infine infine, se qualcuno di voi ha voglia e tempo di farlo, vi invito a rileggere il racconto (almeno i primi tre paragrafi) ascoltando in sottofondo in loop il video di youtube di cui metto sotto il link: io l’ho ascoltato in loop per settimane mentre scrivevo e mi sembra che amplifichi la suggestione. Ma magari fa questo effetto solo a me: la lettura è estremamente personale.
Comunque, ecco il link
Skyrim - The Dragonborn Comes - Cover by Rachel Hardy - YouTube