I fiocchi ghiacciati gli bruciavano il viso, entravano negli occhi.
L’uomo non poteva né proteggersi né asciugarsi, le braccia impegnate a sostenere il bambino aggrappato alla schiena.
Non vedeva dove andava. Non sapeva in che direzione. Da tempo ormai aveva perso l’orientamento in mezzo al bosco. Poteva solo continuare a camminare, trascinando le gambe di piombo attraverso la neve alta.
Avanti. Cadere, rialzarsi, cadere, rialzarsi.
Cadde infine un’ultima volta. Crollò sulle ginocchia. Non sarebbe più riuscito a muoversi. Tutto nella testa stava diventando nero.
Fece scendere il bambino dalla schiena, lo mise in piedi di fronte a sé. Si tolse la giacca a vento e la infilò al bambino sopra quella che già indossava. Le mani intorpidite, riuscì però ad allacciargliela.
‒ L’ultima cosa che posso fare per te, piccolo ‒ mormorò, poi si abbandonò steso sulla neve. Gli occhi gli si chiusero. Finalmente il freddo e la fatica svanirono in un luogo lontano e la mente scivolò via.
Il bambino si chinò, scosse l’uomo. Niente. Gli tirò forte un braccio, lo chiamò, lo scosse di nuovo. Nessuna reazione.
Iniziò a gemere piano, ma d’un tratto smise. Scattò in piedi e girò la testa. C’erano suoni e luci là, tra gli alberi.
Il bambino chiamò l’uomo e di nuovo provò invano a tirarlo per un braccio. Nulla. Il bambino rimase immobile solo un ultimo istante, poi si mise ad arrancare in mezzo alla neve.
Il vecchio vide apparire il bambino dal folto degli alberi. Un bambino infagottato in una giacca da uomo che gli arrivava quasi ai piedi. Barcollò fino a lui e gli si piantò davanti.
‒ E tu da dove spunti?
Il bambino afferrò la mano del vecchio e iniziò a tirare con decisione.
‒ Ehi, piano, piano. Che c’è?
Il vecchio passò in ricognizione i bambini che, nel frattempo, gli si erano raccolti attorno: ‒ Ce ne siamo persi uno? ‒ chiese all’altro uomo che era con lui.
‒ Non lo conosco, non è dei nostri.
Il bambino ricominciò a tirare con impazienza.
‒ Va bene, va bene, ho capito. Vengo. Solo un attimo.
Fece cenno al compagno: ‒ Tu rimani con loro. Inizia a caricarli sulla slitta e a coprirli, ma aspettami. Potrei avere bisogno di aiuto.
Si voltò e si lasciò guidare dal bambino in mezzo al bosco, continuando a tenergli la mano. Il bambino si rifiutò di farsi prendere in braccio, arrancando e cadendo finché non raggiunsero l’uomo steso.
Non deve essere qui da molto, pensò il vecchio con un filo di speranza, non è ancora coperto di neve.
Gli si chinò accanto, gli scrollò la neve dal maglione inzuppato e dai capelli fradici. Si tolse i guanti e gli toccò la pelle: gelida, ma sotto il cuore batteva ancora. Sentì diventare tiepida la mano che gli aveva messo davanti al naso e alla bocca.
Guardò il volto teso del bambino: ‒ Sì, piccolo, è vivo. Mi hai trovato in tempo. È tuo padre?
Il bambino scosse la testa e disse: ‒ Harlan.
Il vecchio strinse gli occhi, li alzò e trovò le tracce, anche se quasi scomparse, che conducevano fino a loro.
Riportò la sua attenzione sull’uomo. Lo chiamò, lo schiaffeggiò, ma l’uomo rimase immobile con gli occhi chiusi. Respirava, e questo era tutto.
Harlan socchiuse gli occhi pesanti, impastati di sonno. Avrebbe continuato volentieri a dormire, ma tornare vigile gli sembrò d’un tratto possibile e importante, anche se ancora non ricordava esattamente perché.
Gli tornò in mente in un lampo.
‒ Ethan… ‒ riuscì solo a sussurrare.
‒ È qui e sta bene.
Harlan spalancò gli occhi e mise a fuoco il vecchio seduto di fianco al letto. Buttò le gambe a terra tentando di tirarsi su. Tutto gli girò intorno. Il vecchio gli posò una mano sulla spalla per tenerlo fermo.
‒ Con calma, amico. Hai avuto la febbre alta e sei sfinito.
Harlan appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si prese la testa china fra le mani, massaggiandosi la fronte: ‒ Quanto ho dormito?
‒ Più di tre giorni.
‒ Tre giorni…?!
‒ Ti sei svegliato a tratti.
‒ Non ricordo niente…
‒ Sono riuscito a farti bere un po’ e ti ho aiutato a… be’, a fare quello di cui avevi bisogno.
Harlan sembrò realizzare solo in quel momento dove si trovava e cosa era successo.
‒ Ci hai salvato la vita. Grazie…
‒ … Caleb. A dire il vero, la vita te l’ha salvata tuo figlio.
‒ Ethan non è mio figlio.
Meglio la verità sui particolari non importanti. Limitare le bugie al minimo indispensabile, era la linea di Harlan. Il bambino non sapeva mentire: ogni domanda diretta posta a lui poteva creare difficoltà.
‒ Mi sembrava di avere capito così, da Ethan, ma non ne ero sicuro. Lui non parla molto. Quasi per niente, a dire il vero. Ha pronunciato poche parole, a parte il tuo nome. Harlan, giusto?
Harlan annuì: ‒ In che senso, mi ha salvato lui?
Caleb sorrise: ‒ Be’, non è un chiacchierone, ma quando vuole farsi capire, si fa capire bene. Eravamo nel bosco con i bambini del paese a raccogliere decorazioni per Natale. Credo che Ethan abbia sentito il chiasso e visto le luci delle lampade attaccate alla nostra slitta. Dovevi vedere con che decisione mi ha puntato e mi ha tirato finché non sono venuto a cercarti. Ti abbiamo caricato sulla slitta e portato qui. Questa è casa mia.
Caleb d’un tratto divenne serio e tacque.
‒ Eri fradicio e congelato ‒ riprese dopo qualche istante ‒ ti ho dovuto svestire.
Harlan si era irrigidito. I due uomini si fissarono.
‒ Non ho guardato nel portafogli, ma il resto non ho potuto fare a meno di vederlo. Ho nascosto tutto prima che arrivasse il medico. Ho lasciato fuori solo le pillole, perché lui capisse meglio cosa fare. Per forza sei crollato per tre giorni, con tutta la robaccia di cui ti eri imbottito per non dormire, chissà da quanto tempo. Mi meraviglia anzi che tu sia già sveglio.
‒ Qualcuno ha fatto domande?
‒ Sì, ma qui non c’è uno sceriffo e io mi sono inventato che sei il figlio di una mia lontana cugina.
Harlan sollevò stupito le sopracciglia e sgranò gli occhi.
‒ Mi avevi scritto che saresti venuto ‒ continuò Caleb ‒ anche se non sapevo quando. Ti deve essere successo qualcosa all’auto e ti sei perso nel bosco, dove ti deve essere scivolato il portafogli.
‒ Perché lo hai fatto? Non sai chi sono. Potrei essere pericoloso.
Il vecchio annuì: ‒ Io credo che tu lo sia. Non so chi sei, ma penso di sapere cosa sei. Mi intendo un po’ di armi: so chi usa quelle che tu avevi addosso. Ho però la sensazione che tu non sia pericoloso per noi.
‒ Non sai nulla di me…
‒ So che hai portato in spalla sotto la neve, fin quasi a morirne, un bambino che non è tuo figlio: c’era una sola serie di impronte, anche se ormai quasi cancellate. So che, congelato, ti sei tolto la giacca e l’hai messa addosso al bambino per dargli le maggiori possibilità di vivere che potevi. Per ora mi basta.
Harlan fece un lieve cenno di assenso che era anche un ringraziamento.
‒ Ce ne andremo appena riuscirò a stare in piedi.
Il rumore in lontananza della porta d’ingresso che si apriva e chiudeva gli fece sollevare la testa di scatto.
‒ Hanno riportato Ethan ‒ spiegò Caleb. ‒ È rimasto qui con te molto tempo, ma è un bambino: si era trovato qualcosa da fare in casa, alla fine però ha iniziato ad annoiarsi, così ho pensato che si sarebbe divertito a partecipare alle attività che stanno facendo i bambini del paese per Natale. Non ti preoccupare: l’ho lasciato a persone di cui mi fido, e lui mi sembra felice.
In quel momento Ethan fece capolino dalla porta della stanza. Vide Harlan seduto sul letto, uscì in un gridolino di gioia e si precipitò fra le braccia dell’uomo. Harlan lo strinse, si alzò con il bambino aggrappato a lui e lo cullò qualche istante, la testa vicina alla sua.
Gli diede un buffetto sul naso: ‒ Ehi, piccolo. Come te la passi? Fatto qualcosa di bello?
Ethan sorrise e si agitò per scendere, afferrò la mano dell’uomo e lo trascinò fuori dalla camera fino alla sala che faceva da cucina e soggiorno.
Le pareti erano un tripudio di disegni e colori.
Perlomeno fino all’altezza a cui poteva arrivare la mano di Ethan in piedi su una sedia.
‒ Accidenti, no… mi dispiace, Caleb. Pulisco tutto.
‒ Non ti preoccupare ‒ sorrise il vecchio ‒ la casa ne ha tratto solo giovamento. Era una vecchia casa triste, prima di Ethan. Sarà di poche parole, ma non riesce a tenere le mani ferme. Ed è davvero molto bravo. Sorprendente, per un bambino di otto anni.
Harlan si accorse d’improvviso di essere stremato e crollò su una sedia: ‒ Ha sei anni, non otto.
‒ Credevo… Gliel’ho chiesto e lui ha fatto segno… Ethan, quanti anni hai?
Il bambino sfoderò orgoglioso otto dita.
Harlan lo attirò a sé e disse con gentilezza: ‒ No, Ethan, troppe. Ti ho fatto vedere, ricordi, vero?
Gli prese le mani e gli fece abbassare due dita: ‒ Vedi? Così sono sei.
Il bambino strinse gli occhi in una chiara espressione di disappunto, ma lasciò le dita basse.
Harlan guardò Caleb: ‒ È piccolo. Non sa contare bene.
‒ Be’, allora è ancora più incredibile il modo in cui dipinge. E per imparare a parlare e contare ha tempo, visto che ha sei anni.
Caleb colse lo sguardo di Harlan perso in un punto nel vuoto: ‒ Ce la farà. Nel suo nome ci sono la forza e un augurio di lunga vita.
Harlan si riscosse: ‒ Non lo sapevo… ‒ mormorò.
Poi tacque, pensando a quanto la vita potesse a volte essere ironica.
Il salone della scuola era caldo, affollato e rumoroso.
Bambini, insegnanti e genitori in una festosa babele di decorazioni, scenografie, costumi. Voci che si rincorrevano, musiche natalizie. Nella parte del salone che fungeva da palcoscenico, le prove del presepe vivente continuavano tra battute sbagliate e ripetute, risatine e concentrate declamazioni.
Ethan trascinò Harlan fino ai pannelli dipinti attaccati alle pareti.
‒ Nei giorni scorsi hanno raccontato ai bambini le storie legate al Natale ‒ spiegò Caleb ‒ e ognuno di loro ha scelto quale dipingere.
Harlan fissò paralizzato il pannello verso il quale Ethan puntava orgoglioso il dito.
‒ Eh, sì, ‒ considerò Caleb ‒ forse quella non è molto adatta a dei bambini, ma a Ethan evidentemente è piaciuta.
Un uomo a piedi conduceva per la cavezza un asino, a cavallo del quale una donna teneva abbracciato un neonato. Dietro la Sacra Famiglia in fuga, in una improbabile discrepanza metereologica dal deserto alla tormenta di neve, camminava un uomo con un bambino aggrappato alla schiena.
‒ Molto somiglianti, vero?
‒ Anche troppo… ‒ mormorò Harlan. ‒ Com’era la storia? Non ricordo bene…
‒ Giuseppe viene avvertito in sogno che Erode vuole uccidere il bimbo. Mentre i soldati sterminano i bambini di Betlemme, Giuseppe prende Maria e il bimbo appena nato e fugge nella notte verso l’Egitto, portandoli in salvo, lontano dalla strage.
Harlan ascoltava come sospeso. Spesso si era chiesto quanto Ethan avesse compreso di quello che stava succedendo.
Forse non tutto, ma chiaramente la parte importante l’aveva capita.
‒ Strano, vero? ‒ continuò Caleb ‒ Pensare a Gesù come un neonato, l’essere umano più indifeso di tutti. Anche lui ha avuto bisogno di qualcuno che lo proteggesse. Com’era…? Ah, sì: “Ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti”. Ciò che deve essere eliminato, secondo la logica umana… ‒ concluse passando una mano tra i capelli di Ethan.
Harlan girò la testa di scatto e lo fissò.
‒ Non fare caso a me ‒ sorrise mesto Caleb ‒ sono solo antiche parole, i vaneggiamenti di un vecchio. E Ethan non ha ancora ricevuto i complimenti da te ‒ disse sorridendo al bambino che tirava Harlan per la giacca.
‒ È bellissimo, Ethan, sei stato molto bravo.
Lo abbracciò ottenendo in cambio una risatina di soddisfazione. Poi Ethan si svincolò e corse verso la zona prove del presepe vivente.
‒ Anche lui ha una parte ‒ ammiccò Caleb davanti all’espressione sorpresa di Harlan ‒ uno dei re magi. Uno che pronuncia una sola parola. È in buone mani.
Si avviò verso l’uscita: ‒ Vieni, torniamo a prenderlo più tardi.
Fuori era già buio. Camminarono in silenzio fino a casa, ma una volta arrivati Caleb tirò dritto, inoltrandosi tra gli alberi fino a un capanno.
Entrò e accese la luce: ‒ Ci tengo attrezzi e altro.
Indicò ad Harlan un piccolo zaino in un angolo: ‒ Ci sono viveri e quello che può servire per sopravvivere alcuni giorni nel bosco. Nelle tasche trovi le tue cose.
‒ Allora partiamo…
‒ No ‒ lo interruppe Caleb ‒ te l’ho mostrato solo per farti vedere che è qui, pronto, per quando vi servirà. Il confine non è lontano e non dovrebbe più nevicare per qualche giorno, ma dovrai portare di nuovo Ethan in spalla, almeno ogni tanto; non può camminare a lungo in mezzo alla neve. Devi ancora riprenderti, ti sei sfinito. Domani notte è la notte di Natale. Partirete la mattina dopo. Un giorno di riposo in più non ti farà male. Io vi accompagnerò fin dove potrò.
‒ Stai rischiando molto per noi. Meriti di sapere perché.
‒ Va bene così, non devi dirmi niente.
‒ Penso che tu abbia già capito quasi tutto. Tanto vale che ti racconti il resto.
Harlan si sedette su una cassa e Caleb fece lo stesso.
‒ Ethan ha otto anni. La prima volta che l’ho visto è stato per caso. Mentre stavo per salire in auto, ho buttato un’occhiata alla zona visitatori del parcheggio del Centro. Forse i suoi erano arrivati molto in anticipo rispetto all’orario dell’appuntamento, immagino fossero preoccupati. Ed è difficile tenere fermo Ethan a lungo in uno spazio chiuso. Così aspettavano lì, nel parcheggio, davanti a un lungo muro grigio, che ormai però non lo era più. Ethan aveva trasformato quel muro grigio in qualcosa… be’, lo sai, hai visto il tuo soggiorno. Ethan si è girato, ha incrociato i miei occhi che lo fissavano e si è messo a ridere. Ricordo di avere pensato in quel momento due cose opposte: che quel bambino non poteva non farcela e che invece non ce l’avrebbe fatta. E ho desiderato ferocemente di non dovere essere io ad andarlo a prendere. Le altre volte in cui l’ho incontrato facevano parte del Programma.
Caleb aggrottò la fronte in un’espressione perplessa.
‒ È una di quelle cose che non vengono dette. C’è un programma di accompagnamento verso l’esito conclusivo, perché tutto avvenga con minore clamore possibile. Cominciano a mandarci nelle sale dove i bambini aspettano. Ci fingiamo animatori o impiegati. Creiamo fiducia nelle famiglie e nei bambini e loro non ci associano direttamente a quello che avverrà in seguito, perché solo una limitata percentuale poi alla fine viene prelevata. Le famiglie lo sanno solo quando ci presentiamo a prendere il bambino. L’esito non viene comunicato prima, per evitare il più possibile fughe o altro. Nei casi dubbi e anche in quelli meno dubbi, tanti sperano fino all’ultimo. Tra i test e la conclusione passano mesi. I genitori si illudono, abbassano le difese. E la notte, quando arriviamo, vedono presentarsi qualcuno di cui avevano imparato a fidarsi. Nel cuore della notte, quando sono meno pronti a reagire. Di solito i bambini dormono, e noi facciamo in modo che continuino a dormire. Nemmeno quasi se ne accorgono, tante volte. Non ti preoccupare, Caleb, puoi sentirti tranquillamente disgustato: lo sono anche io.
‒ Continua.
‒ Il nostro lavoro comprende molte altre cose, questo viene considerato un incarico tra tanti, inevitabile e necessario per il corretto e giusto funzionamento della società. Veniamo addestrati a svolgerlo senza coinvolgimento emotivo, ma qualcuno ha meno di altri la vocazione, e io ho scoperto di non averla per niente, anche se mi ci è voluto Ethan per rendermene davvero conto. Più avevo a che fare con lui più mi rendevo conto che non aveva speranze. E più mi sembrava assurdo.
‒ E se non avesse saputo dipingere?
‒ Me lo sono chiesto anch’io. Credo che questo abbia solo anticipato i tempi, ma prima o poi sarebbe comunque successo. Le ho sentite tante volte, le motivazioni della Legge, quelle che vengono ripetute a tutti, ai genitori: con un quoziente di intelligenza così basso, lo attende solo una vita inutile; un peso per tutti e una frustrazione per lui. Otto anni. Una diagnosi che è una sentenza, una condanna a morte. Credo fosse un po’ che ci pensavo, ma Ethan è stato la scintilla, perché con lui mi è apparso evidente: inutile, la sua vita? Caleb, quando una vita è utile? Quando è inutile? Da quando abbiamo iniziato a classificare gli esseri umani in utili e inutili?
Harlan tacque e Caleb aspettò in silenzio che fosse in grado di riprendere.
‒ La squadra di prelievo è formata da cinque persone. Io mi sono presentato a casa di Ethan da solo. Avevo l’auto di servizio e documenti che sembravano ufficiali, ma è stato un rischio: i genitori avrebbero potuto creare problemi. Non l’hanno fatto. Ho quasi l’impressione che abbiano capito. Forse proprio perché ero da solo. Non potevo dire loro la verità: sarebbero stati interrogati, e meno ne sapevano meglio era, sarebbero apparsi più sinceri. Ho cambiato subito l’auto. L’ho cambiata diverse volte.
‒ E Ethan?
‒ Ha pianto, all’inizio. Ma si fidava di me e mi considerava un amico. A volte piange ancora. A volte ha incubi e chiama babbo e mamma, ma non ho potuto fare in modo diverso.
‒ Poi?
‒ Inutile sperare che ci lasciassero perdere: se ne passa uno, diventa un precedente. Ho guidato finché ne ho avuto le forze e oltre. È finita la benzina, anche quella che avevo nelle taniche di riserva, ed ero lontano da qualsiasi stazione di servizio. Ho fatto precipitare l’auto giù per una scarpata, per evitare che qualcuno la notasse ferma sul ciglio della strada e la segnalasse. Avevo visto sulla mappa che tagliando attraverso i boschi il confine non era lontano. Non avevo fatto i conti con la neve. Ho perso l’orientamento e il freddo e la stanchezza mi hanno quasi ucciso. Per fortuna ci hai trovati.
‒ Per fortuna Ethan ha trovato me.
Harlan annuì: ‒ È vero. Ora sai tutto. Ci stanno cercando e prima o poi arriveranno anche qui. Quello che stai facendo ti mette in pericolo. Stai rischiando la vita, per noi. Perché?
‒ Per gli stessi motivi per cui la rischi tu. Poi ‒ sorrise Caleb ‒ non capita ogni Natale di ospitare un re magio.
Le luci dei lampeggianti dei due fuoristrada governativi ‒ uno davanti all’entrata della scuola, l’altro a bloccare l’uscita dal parcheggio ‒ li misero in allarme prima di svoltare l’angolo.
‒ Corri a casa, ‒ sussurrò Caleb ‒ prendi gli abiti che avevamo preparato per domani poi vai al capanno.
‒ Sono armato. Posso…
‒ Fare cosa? Entrare sparando? In mezzo a una folla di bambini e di pubblico? Ho più probabilità io di portare fuori Ethan.
‒ Se non l’hanno ancora preso.
‒ Non è detto. Forse la maestra ha fatto in tempo. Lei e Ethan si sono esercitati bene nel gioco del nascondiglio. Te lo porterò. Vai al capanno.
‒ Non posso…
‒ Cosa ti faranno se ti prendono?
Harlan rimase in silenzio.
‒ E allora lui non avrà più alcuna possibilità. Vai.
Harlan si allontanò rapido.
Caleb raggiunse la scuola. Sulla porta fu fermato da un uomo con un’arma in mano, il dito pronto sul grilletto.
‒ Sono qui per la rappresentazione. Cosa…?
L’uomo lo spinse con decisione all’interno. Nel salone le luci erano accese. Un brusio allarmato correva da un capo all’altro, ma tutti erano fermi, il pubblico sulle sedie, le maestre e i bambini sul palcoscenico. Niente Ethan, colse al volo Caleb con sollievo.
Altri tre militari tenevano sotto tiro la sala.
Un quinto camminava lungo un lato per arrivare al palcoscenico. Si fermò di colpo di fronte a uno dei pannelli dipinti. La fuga in Egitto. Lo contemplò per qualche istante e fece un mezzo sorriso: ‒ Bel disegno.
Raggiunse il palcoscenico e mostrò due fotografie, girandosi da una parte e dall’altra in modo che tutti le vedessero.
‒ Cerchiamo quest’uomo e questo bambino. Credo siano passati di qui.
Nessuno parlò, ma qualche sguardo si posò rapido e inquieto su Caleb.
Il militare fece cenno a uno degli altri, che puntò l’arma alla schiena del vecchio e lo fece avanzare fino a trovarsi di fronte alle due fotografie.
‒ Mi sembra di capire che in qualche modo abbiano a che fare con te.
Caleb assunse l’aria più sconcertata che gli fu possibile: ‒ Sì, certo, ma che cosa…?
‒ Sai chi sono?
‒ L’uomo è un mio parente alla lontana. Non l’avevo più visto da quando era ragazzo, poi è passato di qui qualche giorno fa.
Il militare fece una smorfia divertita: ‒ Un lontano parente… E il bambino?
‒ Non so. Mi ha detto che era il figlio di suoi amici e che lo teneva per Natale.
‒ Dove sono adesso?
‒ Mah… non saprei… Non li vedo da ore. Ascolti, è la notte di Natale e qui c’è uno spettacolo di bambini. È davvero necessario tutto questo?
‒ Sì, è vero, uno spettacolo di bambini…
Il militare si voltò a osservare con attenzione i piccoli attori. Maria con in braccio una bambola, Giuseppe, l’asino, il bue, pecore, pastori e altri mestieri vari, soldati, due re magi. Due.
Alzò una delle fotografie e sfoderò il suo sorriso più amabile: ‒ Lo conoscete?
I bambini erano congelati dalla paura, ma qualche “Ethan” sussurrato scappò fuori.
‒ E sapete dov’è Ethan?
Questa volta diverse teste si mossero decise in cenni di diniego.
‒ Non è venuto per la rappresentazione?
Una testolina si mosse: ‒ Sì, ma ora non c’è più.
‒ Va bene. Ora andate tutti dai vostri genitori.
I bambini sciamarono rapidi.
Il militare diede secchi ordini agli altri: ‒ Due vanno a casa sua, ‒ e indicò Caleb ‒ gli altri setacciano il paese.
Fermò Caleb che si stava per muovere: ‒ No, tu rimani qui. A casa tua li porta una delle gentili maestre. Vero?
Fece cenno a una di loro.
In pochi minuti il salone fu sgombrato. Rimasero Caleb e il militare.
‒ A quanto ricordo, i re magi erano tre. Quindi, ne manca uno. Vediamo se lo troviamo. Certo, se mi dici dov’è facciamo prima.
‒ Io non…
‒ Va bene. Ethan, ‒ disse rivolgendosi ad alta voce al salone vuoto ‒ sono Russell. Ti ricordi di me, vero? Vieni a salutarmi.
Caleb dominò l’impulso di gridare a Ethan di non muoversi, pregando in silenzio che il bambino rispettasse la regola del gioco: non uscire finché non lo chiamavano lui o Harlan o la maestra.
‒ Vieni fuori, coraggio. Sono l’amico di Harlan e sono anche amico tuo. Ricordi?
Non si poteva pretendere troppo dal bambino, considerò Caleb sconsolato vedendolo saltare fuori dal suo nascondiglio.
Russell sorrise soddisfatto: ‒ Bravo, Ethan. Qui.
Lo afferrò e gli puntò l’arma alla testa.
‒ Ora mi porti da Harlan ‒ disse gelido fissando Caleb.
Il vecchio non si mosse.
‒ Certo, per lui ‒ e fece cenno al bambino ‒ se non è ora è dopo, ma puoi guadagnare tempo e chissà cosa potrebbe succedere.
Caleb si mosse.
‒ Scegli la strada meno frequentata. Meglio se è anche la più rapida.
Uscirono nel parcheggio ormai deserto e silenzioso. Caleb tagliò dopo poco in mezzo al bosco, arrivando al capanno da una parte diversa rispetto alla sua casa.
‒ Harlan, ‒ chiamò Russell ‒ accendi la luce, apri la porta poi allontanati. Tieni bene in vista le mani.
La porta si aprì. Russell la richiuse appena furono entrati.
‒ Russell… immagino abbiate trovato l’auto.
‒ Non ci è voluto molto a risalire al punto da cui l’avevi fatta precipitare.
Harlan ammiccò: ‒ Non ho potuto fare di meglio. Sapevo di non potervi rallentare più di tanto.
‒ Mi dispiace, Harlan, ‒ iniziò Caleb ‒ non sono riuscito…
‒ Stai tranquillo, Caleb, è tutto a posto. Almeno credo… ‒ disse guardando Russell con aria interrogativa.
Russell annuì, abbassò l’arma e lasciò andare Ethan che si precipitò tra le braccia di Harlan.
‒ Ah, grazie per i lampeggianti delle auto.
‒ Speravo non ti fossi rincretinito del tutto. Sei un pazzo.
Caleb passava lo sguardo dall’uno all’altro: ‒ Non capisco…
‒ Io e Russell siamo amici da una vita. Lo devo a lui, se siamo arrivati fino a qui. Avrebbe potuto fermarci prima: ci aveva già trovati e ci ha lasciato andare. E credo che si sia fatto assegnare l’incarico quando hanno scoperto la mia auto.
Russell annuì.
‒ Perché? ‒ mormorò Caleb.
Harlan sorrise quieto tenendo in braccio Ethan: ‒ Russell ha una figlia di sette anni. Una bambina unica. Originale e unica. A cui lui vuole bene.
Russell si passò imbarazzato una mano fra i capelli: ‒ Datevi una mossa a passare il confine. Non posso continuare a coprirti per sempre. Questa volta ce l’ho fatta, ma la prossima potresti non essere così fortunato.
Harlan diede un buffetto sul naso a Ethan, che ancora indossava il costume per il presepe vivente: ‒ Adesso ci mettiamo qualcosa di caldo poi partiamo. Che ne dici, re magio?
‒ Vengo con voi.
‒ No, Caleb ‒ lo fermò Russell. ‒ La tua storia regge e reggerà ancora di più quando avrò falsificato qualche documento. Non preoccuparti, Harlan ce la farà.
Li guardarono allontanarsi in mezzo agli alberi. L’aria era tersa e il cielo pieno di stelle.
‒ Buon Natale, Harlan ‒ sussurrò Russell al bosco silenzioso.