https://www.differentales.org/t1596-ricordati-di-coprirti-bene#20894
Una sera al Roundhouse di Camden
Il mio nome è Andrea. Non sono mai stato uno studente modello e mai avrei sciupato le mie vacanze estive per ripassare ragioneria o scienza delle finanze: le mie passioni erano ben altre.
Quell’estate del sessantotto, grazie all’amico Steve, ottimo chitarrista, che mi ospitava nella sua casa londinese, vivevo immerso nella spumeggiante realtà giovanile e cosmopolita della città.
Qualche lavoretto ogni tanto, giusto per non morire di fame, e poi qualsiasi espediente era lecito, pur di non perdermi i tantissimi spettacoli, festival pop e commedie musicali che animavano Londra in quegli anni.
L’attesa fu spasmodica, ma finalmente il gran giorno arrivò e, come promesso, Willy ci accompagnò con la sua Mini al luogo del concerto.
Il tragitto in auto fu abbastanza breve, più complicato fu trovare un parcheggio, confusi nel dedalo di stradine che formavano l’originario borgo di Camden, situato nella parte settentrionale della grande Londra.
Sistemata la vettura, dopo molti tentativi, in una piazzetta lontana, Willy, Bob ed io raggiungemmo il Roundhouse a piedi: il posto era sconcertante!
Una fertile euforia aveva trasformato un rudere freddo e polveroso in uno straordinario punto d’incontro. Ragazzi barbuti forgiavano orecchini, pendagli, collane, anelli e bracciali. Altri annodavano e poi tingevano jeans e magliette, creando stravaganti schizzi colorati. Artisti di strada disegnavano ritratti, mentre i venditori ambulanti esponevano, su improvvisati banchetti, libri e dischi di seconda mano, essenze e incensi indiani, candele profumate, abiti usati, dolciumi, panini e mille altre bizzarre minutaglie.
A tratti giungeva alle narici la fragranza intensa del balsamo all’olio di patchouli, che si mescolava a quella più penetrante degli spinelli alla marijuana, mentre un tizio, bardato come un giocoliere, suonava contemporaneamente chitarra, armonica a bocca, trombetta, grancassa (caricata sulle spalle), piatti e campanelli (cuciti sulle gambe dei pantaloni). Era un vero spasso!
L’edificio, costruito dalle Ferrovie Britanniche nella seconda metà dell’ottocento, era stato utilizzato, ma solo per un breve periodo, come riparo per le locomotive a vapore, trasformandosi poi nel magazzino londinese di una distilleria di whisky scozzese. Abbandonato da quasi mezzo secolo, il Comune di Camden lo aveva acquistato, a metà degli anni sessanta, allo scopo di soddisfare le pressanti richieste giovanili per un luogo pubblico dove organizzare eventi musicali e feste popolari. Nell’ampio spazio coperto, grazie a un’intraprendente raccolta fondi, il Comune vi aveva edificato un anfiteatro semi-circolare, con le gradinate in tavole di legno, avvitate su massicci tralicci di ferro. Avrebbe potuto contenere, a occhio e croce, un migliaio di persone, o forse il doppio, se pigiate come in Underground nelle ore di punta.
Guidati da Willy, ci avventurammo all’interno, accostandoci a un capannello di persone assorte in un’animata discussione. Willy individuò tra di loro l’amico Kris, direttore logistico dello spettacolo, che stava polemizzando con un responsabile della Power Station, per nulla soddisfatto della scarsa energia elettrica a disposizione per il concerto. Alla fine, con un ultimo gesto sconsolato, Kris si congedò dal suo interlocutore e, notata la presenza di Willy, si diresse verso di noi.
Willy ci presentò. Kris era un ometto grassoccio, con bislacchi occhialini quadrati e orecchino a forma di croce. Indossava un completo in cotone bianco, con giacca, gilè e pantaloni a zampa di elefante, camicia azzurra e papillon, mentre un cappello color panna serviva a nascondergli la pelata.
In nome di un’antica amicizia, Willy aveva strappato a Kris la promessa di reclutarci tutti e tre nel gruppo degli addetti alla sicurezza e aiutanti in generale. Perennemente squattrinati, era questa la soluzione che eravamo riusciti a escogitare, pur di assistere a quello che per noi sarebbe stato il concerto del secolo. Scrutavamo ogni cosa con meticolosa curiosità, tentando un impossibile ambientamento in quegli spazi, finché Kris chiamò tutti a raccolta, invitandoci a sedere sulla gradinata di fronte. Appena il tempo di un frettoloso saluto e iniziò la descrizione dei vari compiti. Destinò una metà di noi alla sorveglianza esterna, di certo l’incarico più ingrato: vigilare delle porte chiuse, senza poter assistere alla festa. Quattro furono inviati a piantonare i collegamenti elettrici, dal pannello primario alla centrale sotto il palco; a un terzo gruppo, invece, affidò il tratto fino agli amplificatori. A Bob e Willy chiese di badare al regolare funzionamento dei trasformatori a tergo della sequela d’altoparlanti e al drappello rimasto, me compreso, affidò la custodia del fronte palco, protetto da deboli transenne.
Kris ci confermò che Jim, Ray, John e Robby erano attesi alle ore cinque per l’intervista con la Granada Television e la prova degli strumenti: avevamo quindi tre ore appena per preparare tutto quanto.
Fu un lavoraccio. I più robusti si sobbarcarono lo sforzo di trasferire sul palco l’immensa (per allora) dotazione elettronica, composta da una decina di casse acustiche, più organo, batteria e delicatissimi amplificatori valvolari. A complicare il lavoro ci pensarono i tecnici americani, rivelatisi degli scompaginati come pochi. Pretesero, infatti, di rivoluzionare più volte la disposizione iniziale, da loro stessi indicata, obbligandoci a sudare un centinaio delle proverbiali sette camicie. Prova e riprova, si dovevano pure collocare le ingombranti telecamere, preposte alla ripresa televisiva e, alla fine, rimase lo spazio per un solo ripetitore anteriore a uso degli artisti. Date le circostanze, Kris, facendo di necessità virtù, si convinse che ne sarebbe bastato uno solo.
– The Doors sono musicisti affiatati – precisò – dotati di sicura sensibilità musicale.
In una parola, pensai io, erano cavoli loro!
L’impresario inglese, come previsto dai tradizionali costumi britannici, noleggiò una fiammante Rolls Royce che li caricò, sotto gli occhi di reporter e cineoperatori, in prossimità della scaletta dell’aereo. La permanenza a Londra dei quattro sarebbe stata di due soli giorni e forse fu questo il motivo per cui Jim chiese all’autista di compiere un ampio giro per la città, prima di raggiungere il Roundhouse di Camden, arrivando naturalmente in ritardo.
Al Roundhouse non esistevano camerini, ma Kris Cumming si adoperò per ricevere i musicisti nel migliore dei modi, allineando delle bibite su un tavolino all’interno di un bugigattolo in disparte, che lui osava chiamare ufficio. I ragazzi si servirono senza tante cerimonie e vennero a sedersi dinanzi agli amplificatori, su dei giganteschi dadi da gioco, appoggiando con noncuranza i loro bicchieri sull’assito del palco. Una dozzina di fotografi ne approfittò per ritrarli in pose assai insolite, poi venne il turno di un intervistatore televisivo, che con aria da intellettuale rivolse a Jim varie domande sui movimenti di protesta giovanili, sulle avanguardie musicali emergenti e altro ancora. Jim sembrava non capire, obbligando il cronista a delle frequenti ripetizioni. Poi si decideva a rispondere, ma incespicando e divagando alquanto, rispetto agli argomenti proposti.
Finita l’intervista, si proseguì con la prova generale. Vi parteciparono i tre strumentisti e cantò Ray, l’organista, Robby il chitarrista ispezionò il funzionamento dei vari effetti elettronici, John il batterista, chiavetta in mano, regolò la tensione dei tamburi. Jim salì sulla gradinata più alta per controllare l’acustica, ordinando spostamenti e tarature, ma per nostra fortuna non furono necessarie altre manovre. I quattro si dichiararono soddisfatti del risultato ottenuto, ringraziarono e sparirono dietro a un tendone che nascondeva il retro, ingombro di cavi.
Spenti i riflettori, calò il buio sul palco e sugli spalti, e si aprirono le porte. A momenti, lo show avrebbe avuto inizio.
Il pubblico aveva atteso in lunghe code disciplinate, ma appena superate le porte sfogò tutta la sua impazienza con urla e fischi di gioia. La corsa a occupare i posti migliori avvenne nella penombra, rotta a stento dal bagliore delle torce accese per illuminare le bancarelle tra le pareti dell’edificio e i ponteggi delle gradinate.
Sul palco tutto era silenzio. L’unico segno di vita era il luccichio delle spie in cima agli amplificatori, pronti a entrare in azione. Intravidi Bob e Willy piazzati in un angolino, seminascosti dalla lunga fila di diffusori connessi all’impianto voci: non avrebbero perso un singolo dettaglio del concerto! La mia postazione era nella zona anteriore del palcoscenico, leggermente defilata sulla sinistra, perfetta per seguire la scena, al riparo dal fascio di luce circolare che sarebbe arrivato dritto di fronte:clubs: e, nello stesso tempo, funzionale al controllo delle prime file di spettatori, come ordinato da Kris.
Chi erano questi quattro ventenni che appena usciti sulla ribalta avevano subito calamitato l’attenzione dei giovani d’ogni nazione? L’avventura era iniziata suonando nei locali sotterranei e nelle cantine della vecchia Los Angeles, nell’America sconvolta dalla sanguinosa guerra nel Vietnam, che a Dallas aveva visto assassinare il suo Presidente. L’America degli hippy e del pacifismo. A San Francisco e in tutta la costa californiana, il flower power si era imposto come la religione dei tempi nuovi, forte dei suoi dogmi più sconvolgenti, compreso l’uso massiccio di droghe e allucinogeni.
In siffatto fertile terreno di cultura era nata la leggenda di The Doors, in grado d’infiammare gli spettatori con le provocanti esibizioni del loro leader. Il gruppo aveva intrapreso l’esplorazione di vie musicali inconsuete per le mode dell’epoca, traguardo dichiarato era allargare i limiti del rock, varcando la soglia delle percezioni, come incitavano i testi delle loro canzoni. Ascoltare il loro primo disco, uscito nel ’67 e registrato nei mitici studi della Sunset Sound Recorders, significava accettare l’immersione in una specie di brodo primordiale, dove vi ribollivano richiami blues e rock psichedelico, poesia decadente e melodie esotiche. Ebbe un immediato successo e spalancò a The Doors le porte dell’universo musicale planetario.
Quel venerdì 6 settembre 1968 si apprestavano a celebrare la loro prima apparizione sul suolo inglese.
Ore nove: la musica decollò nella sala buia. Le luci si accesero... il concerto ebbe inizio.
Quasi a voler alzare gradualmente il velo e instillare fiducia, The Doors aprirono con un pezzo di blues nel quale era l’organo di Ray a svelare la raffinatezza del suo tocco, costruendo il sottofondo perfetto per la voce di Jim. Ma già il pezzo seguente Break On Through (To The Other Side) era un pugno nello stomaco, un inno alla ribellione, per la conquista della libertà assoluta. La musica era dura, la batteria incalzante: da togliere il respiro.
Nella successiva When The Music Is Over, Jim, stivaletti scuri, pantaloni di pelle attillati, camicia bianca a sbuffi e ricami, cintura di borchie argentate, palesava tutto il suo fascino ipnotico: una sorta di menestrello, sedotto dagli istinti più oltraggiosi e autodistruttivi. La musica lo incoraggiava a osare l’impossibile con rullate prepotenti di tamburo, sparate di chitarra e lamenti sommessi dell’organo. Lui raccoglieva il guanto di sfida e lo gettava nell’arena stupefatta, che sudava e soffriva con lui.
Seguì un interludio di canzoni tra il leggero e l’allegro, messe lì per illudere i presenti di riuscire a ricomporsi, e poi via con i tre capolavori immortali!
Un’ora di maratona da brivido! Al cardiopalma!
Il primo fu Light my fire, una turbinante ode alla sessualità più trasgressiva, consacrata a consumarsi nel fuoco di un blues-rock selvaggio. Il pubblico, mentre Jim intonava il suo preistorico richiamo, era travolto dall’esplosione sonora che deflagrava tra le volute dell’organo e i richiami lancinanti della chitarra: un abbraccio ideale tra toni jazz e sonate barocche, tra flamenco e boogie, rock americano e folk arabo. Un duetto indimenticabile, vibrante, appassionato, leggendario.
Jim replicò da par suo. Si adagiò in profonda meditazione, scese dal palco aggirando i cavalletti della Granada Television, salutò una ragazza appoggiata alla parete sulla mia destra, fece un cenno come di scusa e si sporse di là dalle barriere. Tendendosi al massimo riuscì ad accostare il microfono a una ragazzina: lei cacciò un urlo forsennato, tentando senza riuscirci d’agguantarlo, mentre Jim con un gran balzo aveva già ripreso la sua posizione al centro della scena e, afferrato un secondo microfono, aveva ripreso a cantare. Le teste vibravano al ritmo straziante dell’organo, la platea ondeggiava e inseguiva i musicisti con un fervore che non mi è mai più capitato d’osservare.
Poi arrivò Unknown Soldier: una denuncia spietata contro tutte le guerre. Jim sudava, urlava, cambiava voce, si concentrava, si abbandonava a uno sfogo d’incontenibile e rabbiosa vitalità, saltava, provocava, si disperava. All’ultimo, ci fu una sessione di batteria allo sfinimento. L’organo tacque, Ray si rialzò sollevando il braccio in segno di resa. Allo sparo del plotone d’esecuzione, simulato da Robby con un colpo secco di bacchetta sulle corde della chitarra, al massimo volume, Jim si lanciò a terra... morto!
Ma ecco... si rialzava... la musica rinasceva in un crescendo parossistico, fino al rombo definitivo, altissimo. Poi... improvviso: il silenzio! Il buio!
E dal buio salì The End. Un massacrante refrain perso in un oceano di ricami orientaleggianti, di spirali psichedeliche che oscuravano la mente e la incantavano, per fulminarla con un finale da pelle d’oca. Chitarra, organo e batteria si unirono in un pazzesco crescendo. Jim era un rodato attore teatrale, oltre che un rocker insuperabile. Interpretò una delle sue sceneggiate più terrificanti, spaziando sapientemente da toni soffusi a slanci smodati, tra esaltazione contemplativa e spasmi epilettici. Il suo era un delirio, il delirio di un moribondo, di un folle poeta paranoico imbottito di droghe allucinogene. Al confronto con la versione discografica, gli interludi erano infiniti e le liriche declamate da Jim, perverso moderno stregone, erano una mazzata in testa ai vecchi valori ipocriti e perbenisti. Venti minuti di agonia per una delle cavalcate più epiche nella storia del rock.
Dopo il concerto ci fu un seguito per Willy, Bob ed io.
Kris volle farci conoscere Jim, Ray, John e Robby, e Jim propose di festeggiare l’incontro offrendo da bere a tutti. Kris, da gran conoscitore della città, suggerì The Wellington Pub, alla chiusura ci spostammo a piedi al Ronnie Scott's Jazz Club di Soho e ne uscimmo, ubriachi di musica e birra, a mattina inoltrata. Ma questa è un’altra storia.
Nota dell’autore:
Al concerto dei Doors io ero sugli spalti con il mio amico Maurizio. Per la cronaca, suonarono prima di loro i Jefferson Airplane con l’indimenticabile Grace Slick.
La narrazione in prima persona è in verità l’esperienza di Andrea, come me la raccontò lui stesso due mesi dopo, quando lo conobbi in occasione di un altro memorabile concerto.
A scuola appena iniziata, i miei non mi avevano permesso di volare a Londra nel mese di ottobre, mancando così il concerto al Forum dei Cream con i Deep Purple. Ma non a novembre per il concerto di addio dei Cream al Royal Albert Hall.
Una sera al Roundhouse di Camden
Il mio nome è Andrea. Non sono mai stato uno studente modello e mai avrei sciupato le mie vacanze estive per ripassare ragioneria o scienza delle finanze: le mie passioni erano ben altre.
Quell’estate del sessantotto, grazie all’amico Steve, ottimo chitarrista, che mi ospitava nella sua casa londinese, vivevo immerso nella spumeggiante realtà giovanile e cosmopolita della città.
Qualche lavoretto ogni tanto, giusto per non morire di fame, e poi qualsiasi espediente era lecito, pur di non perdermi i tantissimi spettacoli, festival pop e commedie musicali che animavano Londra in quegli anni.
L’attesa fu spasmodica, ma finalmente il gran giorno arrivò e, come promesso, Willy ci accompagnò con la sua Mini al luogo del concerto.
Il tragitto in auto fu abbastanza breve, più complicato fu trovare un parcheggio, confusi nel dedalo di stradine che formavano l’originario borgo di Camden, situato nella parte settentrionale della grande Londra.
Sistemata la vettura, dopo molti tentativi, in una piazzetta lontana, Willy, Bob ed io raggiungemmo il Roundhouse a piedi: il posto era sconcertante!
Una fertile euforia aveva trasformato un rudere freddo e polveroso in uno straordinario punto d’incontro. Ragazzi barbuti forgiavano orecchini, pendagli, collane, anelli e bracciali. Altri annodavano e poi tingevano jeans e magliette, creando stravaganti schizzi colorati. Artisti di strada disegnavano ritratti, mentre i venditori ambulanti esponevano, su improvvisati banchetti, libri e dischi di seconda mano, essenze e incensi indiani, candele profumate, abiti usati, dolciumi, panini e mille altre bizzarre minutaglie.
A tratti giungeva alle narici la fragranza intensa del balsamo all’olio di patchouli, che si mescolava a quella più penetrante degli spinelli alla marijuana, mentre un tizio, bardato come un giocoliere, suonava contemporaneamente chitarra, armonica a bocca, trombetta, grancassa (caricata sulle spalle), piatti e campanelli (cuciti sulle gambe dei pantaloni). Era un vero spasso!
L’edificio, costruito dalle Ferrovie Britanniche nella seconda metà dell’ottocento, era stato utilizzato, ma solo per un breve periodo, come riparo per le locomotive a vapore, trasformandosi poi nel magazzino londinese di una distilleria di whisky scozzese. Abbandonato da quasi mezzo secolo, il Comune di Camden lo aveva acquistato, a metà degli anni sessanta, allo scopo di soddisfare le pressanti richieste giovanili per un luogo pubblico dove organizzare eventi musicali e feste popolari. Nell’ampio spazio coperto, grazie a un’intraprendente raccolta fondi, il Comune vi aveva edificato un anfiteatro semi-circolare, con le gradinate in tavole di legno, avvitate su massicci tralicci di ferro. Avrebbe potuto contenere, a occhio e croce, un migliaio di persone, o forse il doppio, se pigiate come in Underground nelle ore di punta.
Guidati da Willy, ci avventurammo all’interno, accostandoci a un capannello di persone assorte in un’animata discussione. Willy individuò tra di loro l’amico Kris, direttore logistico dello spettacolo, che stava polemizzando con un responsabile della Power Station, per nulla soddisfatto della scarsa energia elettrica a disposizione per il concerto. Alla fine, con un ultimo gesto sconsolato, Kris si congedò dal suo interlocutore e, notata la presenza di Willy, si diresse verso di noi.
Willy ci presentò. Kris era un ometto grassoccio, con bislacchi occhialini quadrati e orecchino a forma di croce. Indossava un completo in cotone bianco, con giacca, gilè e pantaloni a zampa di elefante, camicia azzurra e papillon, mentre un cappello color panna serviva a nascondergli la pelata.
In nome di un’antica amicizia, Willy aveva strappato a Kris la promessa di reclutarci tutti e tre nel gruppo degli addetti alla sicurezza e aiutanti in generale. Perennemente squattrinati, era questa la soluzione che eravamo riusciti a escogitare, pur di assistere a quello che per noi sarebbe stato il concerto del secolo. Scrutavamo ogni cosa con meticolosa curiosità, tentando un impossibile ambientamento in quegli spazi, finché Kris chiamò tutti a raccolta, invitandoci a sedere sulla gradinata di fronte. Appena il tempo di un frettoloso saluto e iniziò la descrizione dei vari compiti. Destinò una metà di noi alla sorveglianza esterna, di certo l’incarico più ingrato: vigilare delle porte chiuse, senza poter assistere alla festa. Quattro furono inviati a piantonare i collegamenti elettrici, dal pannello primario alla centrale sotto il palco; a un terzo gruppo, invece, affidò il tratto fino agli amplificatori. A Bob e Willy chiese di badare al regolare funzionamento dei trasformatori a tergo della sequela d’altoparlanti e al drappello rimasto, me compreso, affidò la custodia del fronte palco, protetto da deboli transenne.
Kris ci confermò che Jim, Ray, John e Robby erano attesi alle ore cinque per l’intervista con la Granada Television e la prova degli strumenti: avevamo quindi tre ore appena per preparare tutto quanto.
Fu un lavoraccio. I più robusti si sobbarcarono lo sforzo di trasferire sul palco l’immensa (per allora) dotazione elettronica, composta da una decina di casse acustiche, più organo, batteria e delicatissimi amplificatori valvolari. A complicare il lavoro ci pensarono i tecnici americani, rivelatisi degli scompaginati come pochi. Pretesero, infatti, di rivoluzionare più volte la disposizione iniziale, da loro stessi indicata, obbligandoci a sudare un centinaio delle proverbiali sette camicie. Prova e riprova, si dovevano pure collocare le ingombranti telecamere, preposte alla ripresa televisiva e, alla fine, rimase lo spazio per un solo ripetitore anteriore a uso degli artisti. Date le circostanze, Kris, facendo di necessità virtù, si convinse che ne sarebbe bastato uno solo.
– The Doors sono musicisti affiatati – precisò – dotati di sicura sensibilità musicale.
In una parola, pensai io, erano cavoli loro!
L’impresario inglese, come previsto dai tradizionali costumi britannici, noleggiò una fiammante Rolls Royce che li caricò, sotto gli occhi di reporter e cineoperatori, in prossimità della scaletta dell’aereo. La permanenza a Londra dei quattro sarebbe stata di due soli giorni e forse fu questo il motivo per cui Jim chiese all’autista di compiere un ampio giro per la città, prima di raggiungere il Roundhouse di Camden, arrivando naturalmente in ritardo.
Al Roundhouse non esistevano camerini, ma Kris Cumming si adoperò per ricevere i musicisti nel migliore dei modi, allineando delle bibite su un tavolino all’interno di un bugigattolo in disparte, che lui osava chiamare ufficio. I ragazzi si servirono senza tante cerimonie e vennero a sedersi dinanzi agli amplificatori, su dei giganteschi dadi da gioco, appoggiando con noncuranza i loro bicchieri sull’assito del palco. Una dozzina di fotografi ne approfittò per ritrarli in pose assai insolite, poi venne il turno di un intervistatore televisivo, che con aria da intellettuale rivolse a Jim varie domande sui movimenti di protesta giovanili, sulle avanguardie musicali emergenti e altro ancora. Jim sembrava non capire, obbligando il cronista a delle frequenti ripetizioni. Poi si decideva a rispondere, ma incespicando e divagando alquanto, rispetto agli argomenti proposti.
Finita l’intervista, si proseguì con la prova generale. Vi parteciparono i tre strumentisti e cantò Ray, l’organista, Robby il chitarrista ispezionò il funzionamento dei vari effetti elettronici, John il batterista, chiavetta in mano, regolò la tensione dei tamburi. Jim salì sulla gradinata più alta per controllare l’acustica, ordinando spostamenti e tarature, ma per nostra fortuna non furono necessarie altre manovre. I quattro si dichiararono soddisfatti del risultato ottenuto, ringraziarono e sparirono dietro a un tendone che nascondeva il retro, ingombro di cavi.
Spenti i riflettori, calò il buio sul palco e sugli spalti, e si aprirono le porte. A momenti, lo show avrebbe avuto inizio.
Il pubblico aveva atteso in lunghe code disciplinate, ma appena superate le porte sfogò tutta la sua impazienza con urla e fischi di gioia. La corsa a occupare i posti migliori avvenne nella penombra, rotta a stento dal bagliore delle torce accese per illuminare le bancarelle tra le pareti dell’edificio e i ponteggi delle gradinate.
Sul palco tutto era silenzio. L’unico segno di vita era il luccichio delle spie in cima agli amplificatori, pronti a entrare in azione. Intravidi Bob e Willy piazzati in un angolino, seminascosti dalla lunga fila di diffusori connessi all’impianto voci: non avrebbero perso un singolo dettaglio del concerto! La mia postazione era nella zona anteriore del palcoscenico, leggermente defilata sulla sinistra, perfetta per seguire la scena, al riparo dal fascio di luce circolare che sarebbe arrivato dritto di fronte:clubs: e, nello stesso tempo, funzionale al controllo delle prime file di spettatori, come ordinato da Kris.
Chi erano questi quattro ventenni che appena usciti sulla ribalta avevano subito calamitato l’attenzione dei giovani d’ogni nazione? L’avventura era iniziata suonando nei locali sotterranei e nelle cantine della vecchia Los Angeles, nell’America sconvolta dalla sanguinosa guerra nel Vietnam, che a Dallas aveva visto assassinare il suo Presidente. L’America degli hippy e del pacifismo. A San Francisco e in tutta la costa californiana, il flower power si era imposto come la religione dei tempi nuovi, forte dei suoi dogmi più sconvolgenti, compreso l’uso massiccio di droghe e allucinogeni.
In siffatto fertile terreno di cultura era nata la leggenda di The Doors, in grado d’infiammare gli spettatori con le provocanti esibizioni del loro leader. Il gruppo aveva intrapreso l’esplorazione di vie musicali inconsuete per le mode dell’epoca, traguardo dichiarato era allargare i limiti del rock, varcando la soglia delle percezioni, come incitavano i testi delle loro canzoni. Ascoltare il loro primo disco, uscito nel ’67 e registrato nei mitici studi della Sunset Sound Recorders, significava accettare l’immersione in una specie di brodo primordiale, dove vi ribollivano richiami blues e rock psichedelico, poesia decadente e melodie esotiche. Ebbe un immediato successo e spalancò a The Doors le porte dell’universo musicale planetario.
Quel venerdì 6 settembre 1968 si apprestavano a celebrare la loro prima apparizione sul suolo inglese.
Ore nove: la musica decollò nella sala buia. Le luci si accesero... il concerto ebbe inizio.
Quasi a voler alzare gradualmente il velo e instillare fiducia, The Doors aprirono con un pezzo di blues nel quale era l’organo di Ray a svelare la raffinatezza del suo tocco, costruendo il sottofondo perfetto per la voce di Jim. Ma già il pezzo seguente Break On Through (To The Other Side) era un pugno nello stomaco, un inno alla ribellione, per la conquista della libertà assoluta. La musica era dura, la batteria incalzante: da togliere il respiro.
Nella successiva When The Music Is Over, Jim, stivaletti scuri, pantaloni di pelle attillati, camicia bianca a sbuffi e ricami, cintura di borchie argentate, palesava tutto il suo fascino ipnotico: una sorta di menestrello, sedotto dagli istinti più oltraggiosi e autodistruttivi. La musica lo incoraggiava a osare l’impossibile con rullate prepotenti di tamburo, sparate di chitarra e lamenti sommessi dell’organo. Lui raccoglieva il guanto di sfida e lo gettava nell’arena stupefatta, che sudava e soffriva con lui.
Seguì un interludio di canzoni tra il leggero e l’allegro, messe lì per illudere i presenti di riuscire a ricomporsi, e poi via con i tre capolavori immortali!
Un’ora di maratona da brivido! Al cardiopalma!
Il primo fu Light my fire, una turbinante ode alla sessualità più trasgressiva, consacrata a consumarsi nel fuoco di un blues-rock selvaggio. Il pubblico, mentre Jim intonava il suo preistorico richiamo, era travolto dall’esplosione sonora che deflagrava tra le volute dell’organo e i richiami lancinanti della chitarra: un abbraccio ideale tra toni jazz e sonate barocche, tra flamenco e boogie, rock americano e folk arabo. Un duetto indimenticabile, vibrante, appassionato, leggendario.
Jim replicò da par suo. Si adagiò in profonda meditazione, scese dal palco aggirando i cavalletti della Granada Television, salutò una ragazza appoggiata alla parete sulla mia destra, fece un cenno come di scusa e si sporse di là dalle barriere. Tendendosi al massimo riuscì ad accostare il microfono a una ragazzina: lei cacciò un urlo forsennato, tentando senza riuscirci d’agguantarlo, mentre Jim con un gran balzo aveva già ripreso la sua posizione al centro della scena e, afferrato un secondo microfono, aveva ripreso a cantare. Le teste vibravano al ritmo straziante dell’organo, la platea ondeggiava e inseguiva i musicisti con un fervore che non mi è mai più capitato d’osservare.
Poi arrivò Unknown Soldier: una denuncia spietata contro tutte le guerre. Jim sudava, urlava, cambiava voce, si concentrava, si abbandonava a uno sfogo d’incontenibile e rabbiosa vitalità, saltava, provocava, si disperava. All’ultimo, ci fu una sessione di batteria allo sfinimento. L’organo tacque, Ray si rialzò sollevando il braccio in segno di resa. Allo sparo del plotone d’esecuzione, simulato da Robby con un colpo secco di bacchetta sulle corde della chitarra, al massimo volume, Jim si lanciò a terra... morto!
Ma ecco... si rialzava... la musica rinasceva in un crescendo parossistico, fino al rombo definitivo, altissimo. Poi... improvviso: il silenzio! Il buio!
E dal buio salì The End. Un massacrante refrain perso in un oceano di ricami orientaleggianti, di spirali psichedeliche che oscuravano la mente e la incantavano, per fulminarla con un finale da pelle d’oca. Chitarra, organo e batteria si unirono in un pazzesco crescendo. Jim era un rodato attore teatrale, oltre che un rocker insuperabile. Interpretò una delle sue sceneggiate più terrificanti, spaziando sapientemente da toni soffusi a slanci smodati, tra esaltazione contemplativa e spasmi epilettici. Il suo era un delirio, il delirio di un moribondo, di un folle poeta paranoico imbottito di droghe allucinogene. Al confronto con la versione discografica, gli interludi erano infiniti e le liriche declamate da Jim, perverso moderno stregone, erano una mazzata in testa ai vecchi valori ipocriti e perbenisti. Venti minuti di agonia per una delle cavalcate più epiche nella storia del rock.
Dopo il concerto ci fu un seguito per Willy, Bob ed io.
Kris volle farci conoscere Jim, Ray, John e Robby, e Jim propose di festeggiare l’incontro offrendo da bere a tutti. Kris, da gran conoscitore della città, suggerì The Wellington Pub, alla chiusura ci spostammo a piedi al Ronnie Scott's Jazz Club di Soho e ne uscimmo, ubriachi di musica e birra, a mattina inoltrata. Ma questa è un’altra storia.
Nota dell’autore:
Al concerto dei Doors io ero sugli spalti con il mio amico Maurizio. Per la cronaca, suonarono prima di loro i Jefferson Airplane con l’indimenticabile Grace Slick.
La narrazione in prima persona è in verità l’esperienza di Andrea, come me la raccontò lui stesso due mesi dopo, quando lo conobbi in occasione di un altro memorabile concerto.
A scuola appena iniziata, i miei non mi avevano permesso di volare a Londra nel mese di ottobre, mancando così il concerto al Forum dei Cream con i Deep Purple. Ma non a novembre per il concerto di addio dei Cream al Royal Albert Hall.
Ultima modifica di almarc il Ven Ott 07, 2022 3:32 pm - modificato 6 volte.