Il Glane è un insignificante affluente del fiume Vienne nella regione della Nuova Aquitania e Oradour era un paese tranquillo, nonostante la guerra, fino al 10 giugno del ’44. Soltanto qualche giorno prima, il 6 giugno, c’era stato lo sbarco degli alleati in Normandia e si riassaporava la speranza di un prossimo ritorno alla normalità.
Uomini della Resistenza avevano catturato e ucciso in un suo tentativo di fuga, un comandante tedesco, Helmut Kämpfe. I tedeschi, appresa la notizia il 9 giugno, decisero di far scattare la rappresaglia. Adolf Diekmann, il comandante, ordinò di radunare tutti gli abitanti di Oradour nella piazza del paese, poi divise le donne e i bambini dagli uomini. Le donne furono rinchiuse nella chiesa e gli uomini portati all’interno di alcuni magazzini in cui erano già state posizionate le mitragliatrici. I nazisti spararono loro alle gambe per non farli fuggire, poi li cosparsero di carburante e appiccarono il fuoco.
Nella chiesa fecero esplodere un ordigno, causando la morte di 247 donne e 205 bambini. Alcune di esse cercarono di salvarsi gettandosi dalle finestre, ma furono uccise a colpi di mitragliatrice. Si salvò solo una donna, Marguerite Rouffanche, che sopravvisse ai colpi dei nazisti, così come cinque uomini che riuscirono a fuggire: furono i soli testimoni oculari dell’accaduto. Gli uomini uccisi furono 190, le vittime, complessivamente, 642. Fu l’eccidio più feroce perpetrato dai nazisti in Francia.
Perfino il comando militare tedesco aprì un’inchiesta nei confronti di Adolph Diekmann, che sembrava aver preso un’iniziativa personale non autorizzata e ritenuta una barbarie anche dagli stessi nazisti.
Uomini della Resistenza avevano catturato e ucciso in un suo tentativo di fuga, un comandante tedesco, Helmut Kämpfe. I tedeschi, appresa la notizia il 9 giugno, decisero di far scattare la rappresaglia. Adolf Diekmann, il comandante, ordinò di radunare tutti gli abitanti di Oradour nella piazza del paese, poi divise le donne e i bambini dagli uomini. Le donne furono rinchiuse nella chiesa e gli uomini portati all’interno di alcuni magazzini in cui erano già state posizionate le mitragliatrici. I nazisti spararono loro alle gambe per non farli fuggire, poi li cosparsero di carburante e appiccarono il fuoco.
Nella chiesa fecero esplodere un ordigno, causando la morte di 247 donne e 205 bambini. Alcune di esse cercarono di salvarsi gettandosi dalle finestre, ma furono uccise a colpi di mitragliatrice. Si salvò solo una donna, Marguerite Rouffanche, che sopravvisse ai colpi dei nazisti, così come cinque uomini che riuscirono a fuggire: furono i soli testimoni oculari dell’accaduto. Gli uomini uccisi furono 190, le vittime, complessivamente, 642. Fu l’eccidio più feroce perpetrato dai nazisti in Francia.
Perfino il comando militare tedesco aprì un’inchiesta nei confronti di Adolph Diekmann, che sembrava aver preso un’iniziativa personale non autorizzata e ritenuta una barbarie anche dagli stessi nazisti.
«Pierre, da quanto tempo sei nel servizio DST?»
«Sono due anni e mezzo, dall’inizio del ’45. Un anno prima di te, Ethan».
I due uomini si parlano a bassa voce, nel buio di una camera che ha un letto ancora perfettamente rifatto. Non sono lì per dormire. È solo un punto di osservazione. Nel loro dialogo non distolgono mai lo sguardo dalla finestra socchiusa e dal palazzo di fronte.
«Che facevi… prima?»
«Il carpentiere. E tu?»
«Lavoravo in una fabbrica, prima di unirmi alla Resistenza».
«Hai aderito dopo il fatto di Oradour?»
«No. C’ero già prima. Avrei dovuto prestare servizio con i collaborazionisti di Pétain e la cosa non mi andava proprio a genio. Anzi, è proprio quello che mi ha salvato la vita; se fossi rimasto a Oradour avrei fatto la fine della mia famiglia».
«Deve essere stato terribile».
«Pensa alla crudeltà del destino: in casa mi scongiuravano di non abbandonare il nostro tranquillo paese e non rischiare la vita nella lotta partigiana. E invece io sono ancora qui e loro…»
«Quando hai saputo di Julien Bouvier?»
«È stato il Direttore. Ero entrato da circa sei mesi alla Direzione per la Sorveglianza del Territorio. Lui conosceva la mia storia. Un giorno mi chiamò e mi fece vedere una foto. “Vedi? – mi disse – questo è Julien Bouvier. Lui è un traditore che era al seguito del Primo Battaglione del reggimento "Das Reich" delle Waffen-SS, proprio quello che ha fatto quella porcata. Lui conosceva bene la regione e la lingua tedesca e per i nazisti era di grande utilità».
«Che figlio di puttana!»
Qualcuno si sta avvicinando. Nel silenzio della notte i passi rimandano una strana eco. I due fanno silenzio, le mani corrono istintivamente alle armi. Sono soltanto due innamorati. Si fermano proprio di fronte alla finestra e si scambiano un tenero bacio.
«Beati loro - sospira Pierre – è un bel modo di riscaldarsi nel fresco della notte». Poi guarda Ethan: «Peccato. Non sei il mio tipo». Soffoca una risata.
«Che cretino!» anche lui sorride.
«Ma non è tutto – continua Nathan - nessuno era più bravo di lui a far parlare un prigioniero. Ricorreva a ogni mezzo per ottenere il suo scopo e sembra che lo facesse con sadica soddisfazione. Nella maggior parte dei casi riusciva a ottenere le informazioni desiderate, ma in molti casi il prigioniero non resisteva alle torture a cui era sottoposto e moriva prima di poter fare dei nomi. Del resto, neppure chi parlava era destinato a un futuro migliore. Le carte della Direzione lo definivano “il boia” del Reggimento “Das Reich”».
«Ora però ha le ore contate. Lascio a te l’onore».
«Odio lui più degli stessi nazisti, credimi Pierre. Lui è il male assoluto, uno che ha fatto delle sofferenze degli altri la sua ragione di vita. Sulla strage c’è la sua regia, ne sono sicuro. Non ha nemmeno l’attenuante di un’ideologia folle come quella nazista. Anzi, non credo che gli interessasse affatto».
«Ho capito. È un talento naturale», osserva Pierre con un amaro sorriso.
L’informazione dal comando era piuttosto precisa. Bouvier era stato avvistato a Hendaye, al numero civico 72 di Rue Richelieu, a due passi dal fiume Bidasoa. È appena passata la mezzanotte e il silenzio viene interrotto di nuovo da passi veloci. Un uomo, di robusta corporatura, con il capo coperto da un ampio cappello, si avvicina al portone d’ingresso. «Occhio, Pierre. È lui. Cazzo, Pierre! Proprio ora dovevi accendere la sigaretta? Se si insospettisce, siamo fregati».
Il portone è appena socchiuso; lo spinge, entra e scompare nell’oscurità.
«Dai, Nathan! Non perdiamo tempo. Andiamo a prenderlo!»
«Aspetta. Vediamo dove abita. Dovrà pure accendere una luce da qualche parte».
I due si mettono a osservare attentamente. Tutte le finestre sono al buio. Passano i minuti, poi a un tratto: «Guarda, Ethan! Guarda in basso, vicino al marciapiede!»
Proprio all’altezza della strada il palazzo ha una serie di piccole finestre protette da sbarre di ferro. Sono quelle adibite a dare un po’ di aria e luce alle cantine. Tutte sono al buio, ma da una di esse, a ben guardare, trapela un filo di luce. La piccola apertura è stata schermata in qualche modo, proprio come quando, poco tempo prima, quei locali erano utilizzati come rifugi dai bombardamenti aerei.
«Andiamo, Pierre. Lo abbiamo in pugno!» I due si precipitano giù dalle scale, dopo aver accuratamente controllato l’efficienza delle proprie armi.
Attraversano la strada e aprono lentamente il portone. Dalla tenue luce dell’unico lampione in strada intravedono quattro scalini e un pianerottolo. Da questo una scala scende verso il basso. La discendono lentamente stringendo con forza il calcio delle pistole bagnato di sudore. Il cuore di Nathan è accelerato. Ha una ragione in più di Pierre per catturare quell’uomo e non è una ragione di poco conto.
Stanno per avvicinarsi all’unica cantina illuminata quando sentono all’improvviso, alle loro spalle. un rumore di passi veloci che si allontanano.
«È lui! Sta scappando!» grida Nathan. I due si lanciano all’inseguimento. In fondo al pianerottolo d’ingresso c’è una porticina spalancata sul retro dell’edificio. Mentre corrono Nathan pensa con rabbia: “Gli siamo passati accanto e non ce ne siamo accorti”.
Nella tenue luce dell’ultimo spicchio di luna intravedono davanti a loro quella sagoma ingombrante che corre con un’agilità impensabile in direzione del fiume.
«Nooooo!» gridano quasi in coro i due. L’uomo è salito su una barchetta e con poderosi colpi di remi si appresta a guadare il fiume in direzione dell’Isola dei Fagiani. In due minuti attracca all’isola, abbandona la barca e scompare nella fitta vegetazione.
«Dai, Nathan! Vediamo se c’è una barca. Non facciamocelo sfuggire!»
Nathan non si muove. La penombra nasconde il suo senso di rabbia e di frustrazione. «L’abbiamo perso, Pierre. Di là ci sono i franchisti. Avrà vita più facile in Spagna. Il fiume è in secca in questo periodo e può raggiungere facilmente a piedi la sponda spagnola. Anche se per il momento si nascondesse sull’isola, non potremmo fare niente. Fino alla fine di luglio si trova in territorio spagnolo e non possiamo rischiare di far aprire un caso diplomatico. I rapporti sono già molto tesi».
«Che facciamo allora?»
«Per il momento niente, Pierre. Ma stai pur certo che non mollo. Andiamo a dare un’occhiata al suo nascondiglio».
Ripercorrono a passi lenti il breve tragitto dalla sponda del fiume al rifugio di Bouvier.
«Che facciamo ora, Nathan?»
«Controlleremo il covo di quel maiale e faremo il nostro verbale. Sappiamo dove si trova e cercheremo di tenerlo sotto osservazione. Abbiamo i nostri uomini anche in Spagna».
Pierre scende per primo la scala verso la cantina e si avvicina alla porta socchiusa. Ethan si attarda con prudenza, alla ricerca di un interruttore per dare un po’ di luce all’ambiente.
Nel frattempo, Pierre spalanca energicamente la porta della cantina ed entra nella stanzetta angusta. Cinque secondi e un boato assordante lo investe, scaraventandolo con violenza sul muro del corridoio e poi in terra, proprio davanti agli occhi di Nathan.
«Pierre! Pierre!» grida Nathan mentre accorre, in una nuvola di polvere, per soccorrere l’amico. In terra, un lago di sangue.
Pierre, in preda a convulsioni stringe con forza il braccio di Nathan e bisbiglia faticosamente: «Quel figlio di puttana… aveva collegato un filo alla porta e alla spoletta di una bomba… fagliela pagare Nathan… fagliela pagare…» Sono le sue ultime parole.
Sta per uscire per liberarsi di quell’aria satura di polvere, cemento e odore di esplosivi e sangue, quando nota in terra un pezzo di carta, mezzo bruciacchiato dall’esplosione: è una busta per lettere, affrancata. La raccoglie e la ripone nella tasca della giacca.
«Sono due anni e mezzo, dall’inizio del ’45. Un anno prima di te, Ethan».
I due uomini si parlano a bassa voce, nel buio di una camera che ha un letto ancora perfettamente rifatto. Non sono lì per dormire. È solo un punto di osservazione. Nel loro dialogo non distolgono mai lo sguardo dalla finestra socchiusa e dal palazzo di fronte.
«Che facevi… prima?»
«Il carpentiere. E tu?»
«Lavoravo in una fabbrica, prima di unirmi alla Resistenza».
«Hai aderito dopo il fatto di Oradour?»
«No. C’ero già prima. Avrei dovuto prestare servizio con i collaborazionisti di Pétain e la cosa non mi andava proprio a genio. Anzi, è proprio quello che mi ha salvato la vita; se fossi rimasto a Oradour avrei fatto la fine della mia famiglia».
«Deve essere stato terribile».
«Pensa alla crudeltà del destino: in casa mi scongiuravano di non abbandonare il nostro tranquillo paese e non rischiare la vita nella lotta partigiana. E invece io sono ancora qui e loro…»
«Quando hai saputo di Julien Bouvier?»
«È stato il Direttore. Ero entrato da circa sei mesi alla Direzione per la Sorveglianza del Territorio. Lui conosceva la mia storia. Un giorno mi chiamò e mi fece vedere una foto. “Vedi? – mi disse – questo è Julien Bouvier. Lui è un traditore che era al seguito del Primo Battaglione del reggimento "Das Reich" delle Waffen-SS, proprio quello che ha fatto quella porcata. Lui conosceva bene la regione e la lingua tedesca e per i nazisti era di grande utilità».
«Che figlio di puttana!»
Qualcuno si sta avvicinando. Nel silenzio della notte i passi rimandano una strana eco. I due fanno silenzio, le mani corrono istintivamente alle armi. Sono soltanto due innamorati. Si fermano proprio di fronte alla finestra e si scambiano un tenero bacio.
«Beati loro - sospira Pierre – è un bel modo di riscaldarsi nel fresco della notte». Poi guarda Ethan: «Peccato. Non sei il mio tipo». Soffoca una risata.
«Che cretino!» anche lui sorride.
«Ma non è tutto – continua Nathan - nessuno era più bravo di lui a far parlare un prigioniero. Ricorreva a ogni mezzo per ottenere il suo scopo e sembra che lo facesse con sadica soddisfazione. Nella maggior parte dei casi riusciva a ottenere le informazioni desiderate, ma in molti casi il prigioniero non resisteva alle torture a cui era sottoposto e moriva prima di poter fare dei nomi. Del resto, neppure chi parlava era destinato a un futuro migliore. Le carte della Direzione lo definivano “il boia” del Reggimento “Das Reich”».
«Ora però ha le ore contate. Lascio a te l’onore».
«Odio lui più degli stessi nazisti, credimi Pierre. Lui è il male assoluto, uno che ha fatto delle sofferenze degli altri la sua ragione di vita. Sulla strage c’è la sua regia, ne sono sicuro. Non ha nemmeno l’attenuante di un’ideologia folle come quella nazista. Anzi, non credo che gli interessasse affatto».
«Ho capito. È un talento naturale», osserva Pierre con un amaro sorriso.
L’informazione dal comando era piuttosto precisa. Bouvier era stato avvistato a Hendaye, al numero civico 72 di Rue Richelieu, a due passi dal fiume Bidasoa. È appena passata la mezzanotte e il silenzio viene interrotto di nuovo da passi veloci. Un uomo, di robusta corporatura, con il capo coperto da un ampio cappello, si avvicina al portone d’ingresso. «Occhio, Pierre. È lui. Cazzo, Pierre! Proprio ora dovevi accendere la sigaretta? Se si insospettisce, siamo fregati».
Il portone è appena socchiuso; lo spinge, entra e scompare nell’oscurità.
«Dai, Nathan! Non perdiamo tempo. Andiamo a prenderlo!»
«Aspetta. Vediamo dove abita. Dovrà pure accendere una luce da qualche parte».
I due si mettono a osservare attentamente. Tutte le finestre sono al buio. Passano i minuti, poi a un tratto: «Guarda, Ethan! Guarda in basso, vicino al marciapiede!»
Proprio all’altezza della strada il palazzo ha una serie di piccole finestre protette da sbarre di ferro. Sono quelle adibite a dare un po’ di aria e luce alle cantine. Tutte sono al buio, ma da una di esse, a ben guardare, trapela un filo di luce. La piccola apertura è stata schermata in qualche modo, proprio come quando, poco tempo prima, quei locali erano utilizzati come rifugi dai bombardamenti aerei.
«Andiamo, Pierre. Lo abbiamo in pugno!» I due si precipitano giù dalle scale, dopo aver accuratamente controllato l’efficienza delle proprie armi.
Attraversano la strada e aprono lentamente il portone. Dalla tenue luce dell’unico lampione in strada intravedono quattro scalini e un pianerottolo. Da questo una scala scende verso il basso. La discendono lentamente stringendo con forza il calcio delle pistole bagnato di sudore. Il cuore di Nathan è accelerato. Ha una ragione in più di Pierre per catturare quell’uomo e non è una ragione di poco conto.
Stanno per avvicinarsi all’unica cantina illuminata quando sentono all’improvviso, alle loro spalle. un rumore di passi veloci che si allontanano.
«È lui! Sta scappando!» grida Nathan. I due si lanciano all’inseguimento. In fondo al pianerottolo d’ingresso c’è una porticina spalancata sul retro dell’edificio. Mentre corrono Nathan pensa con rabbia: “Gli siamo passati accanto e non ce ne siamo accorti”.
Nella tenue luce dell’ultimo spicchio di luna intravedono davanti a loro quella sagoma ingombrante che corre con un’agilità impensabile in direzione del fiume.
«Nooooo!» gridano quasi in coro i due. L’uomo è salito su una barchetta e con poderosi colpi di remi si appresta a guadare il fiume in direzione dell’Isola dei Fagiani. In due minuti attracca all’isola, abbandona la barca e scompare nella fitta vegetazione.
«Dai, Nathan! Vediamo se c’è una barca. Non facciamocelo sfuggire!»
Nathan non si muove. La penombra nasconde il suo senso di rabbia e di frustrazione. «L’abbiamo perso, Pierre. Di là ci sono i franchisti. Avrà vita più facile in Spagna. Il fiume è in secca in questo periodo e può raggiungere facilmente a piedi la sponda spagnola. Anche se per il momento si nascondesse sull’isola, non potremmo fare niente. Fino alla fine di luglio si trova in territorio spagnolo e non possiamo rischiare di far aprire un caso diplomatico. I rapporti sono già molto tesi».
«Che facciamo allora?»
«Per il momento niente, Pierre. Ma stai pur certo che non mollo. Andiamo a dare un’occhiata al suo nascondiglio».
Ripercorrono a passi lenti il breve tragitto dalla sponda del fiume al rifugio di Bouvier.
«Che facciamo ora, Nathan?»
«Controlleremo il covo di quel maiale e faremo il nostro verbale. Sappiamo dove si trova e cercheremo di tenerlo sotto osservazione. Abbiamo i nostri uomini anche in Spagna».
Pierre scende per primo la scala verso la cantina e si avvicina alla porta socchiusa. Ethan si attarda con prudenza, alla ricerca di un interruttore per dare un po’ di luce all’ambiente.
Nel frattempo, Pierre spalanca energicamente la porta della cantina ed entra nella stanzetta angusta. Cinque secondi e un boato assordante lo investe, scaraventandolo con violenza sul muro del corridoio e poi in terra, proprio davanti agli occhi di Nathan.
«Pierre! Pierre!» grida Nathan mentre accorre, in una nuvola di polvere, per soccorrere l’amico. In terra, un lago di sangue.
Pierre, in preda a convulsioni stringe con forza il braccio di Nathan e bisbiglia faticosamente: «Quel figlio di puttana… aveva collegato un filo alla porta e alla spoletta di una bomba… fagliela pagare Nathan… fagliela pagare…» Sono le sue ultime parole.
Sta per uscire per liberarsi di quell’aria satura di polvere, cemento e odore di esplosivi e sangue, quando nota in terra un pezzo di carta, mezzo bruciacchiato dall’esplosione: è una busta per lettere, affrancata. La raccoglie e la ripone nella tasca della giacca.
Sono passati sei mesi da quella sera ed Ethan siede di fronte al Direttore.
«Come sai, Ethan, abbiamo esaminato in ogni modo quella busta perché era l’unica traccia, anche se labile, per capire le intenzioni di Bouvier. La busta non riportava scritte o indirizzi leggibili. C’era un francobollo con l’effigie di José de San Martin e un timbro postale in cui si poteva leggere “Salta” che è una località della zona andina dell’Argentina e una data: 12 maggio 1947, esattamente due mesi prima della vostra irruzione in quella cantina».
«Ma certo! Molti criminali nazisti si sono rifugiati in Sud America e la maggior parte hanno scelto proprio l’Argentina. È là che dobbiamo cercarlo!»
«Calma, Ethan. Sai bene che è contro le regole affidare certi compiti a chi è troppo coinvolto nella vicenda, come te. Ti affido questo incarico delicato ma non farmi pentire della mia decisione. I nostri uomini sul posto stanno indagando. Da qui stiamo tenendo sotto controllo sua moglie e sua figlia. Certamente prima o poi lo raggiungeranno. Appena avremo notizie certe potrai recarti sul posto per fare… tutto il necessario».
«Sua moglie e sua figlia? Che può farsene uno così di una famiglia?»
«Come sai, Ethan, abbiamo esaminato in ogni modo quella busta perché era l’unica traccia, anche se labile, per capire le intenzioni di Bouvier. La busta non riportava scritte o indirizzi leggibili. C’era un francobollo con l’effigie di José de San Martin e un timbro postale in cui si poteva leggere “Salta” che è una località della zona andina dell’Argentina e una data: 12 maggio 1947, esattamente due mesi prima della vostra irruzione in quella cantina».
«Ma certo! Molti criminali nazisti si sono rifugiati in Sud America e la maggior parte hanno scelto proprio l’Argentina. È là che dobbiamo cercarlo!»
«Calma, Ethan. Sai bene che è contro le regole affidare certi compiti a chi è troppo coinvolto nella vicenda, come te. Ti affido questo incarico delicato ma non farmi pentire della mia decisione. I nostri uomini sul posto stanno indagando. Da qui stiamo tenendo sotto controllo sua moglie e sua figlia. Certamente prima o poi lo raggiungeranno. Appena avremo notizie certe potrai recarti sul posto per fare… tutto il necessario».
«Sua moglie e sua figlia? Che può farsene uno così di una famiglia?»
È il rispettabilissimo signor Henri Dubois, contabile in un magazzino di generi alimentari di Salta. «Non ha avuto grande fantasia questo infame. Ha scelto il cognome più comune in Francia», pensa Ethan mentre, seduto al caffè, tiene d’occhio il negozio di fronte dove ha visto poco prima entrare il suo uomo.
Una donna e una bambina entrano a loro volta nel negozio; poco dopo ne escono in compagnia di Bouvier. Ethan salta in piedi, con il cuore in gola, paga in fretta il conto ed esce in strada. Gli hanno insegnato bene come seguire qualcuno con discrezione.
A un incrocio girano sulla destra, dove un cartello riporta la scritta “Estación de tren”.
Bouvier tiene per la mano la bambina. “Ethan, non farti impietosire. È un mostro»
I tre entrano in stazione e si dirigono verso la biglietteria. Pagano e con i biglietti in mano si dirigono verso le partenze. Ethan li lascia allontanare e corre a sua volta verso la biglietteria.
«Dove va signore?»
«Dove sono andati quei signori prima di me».
«Oggi tutti a vedere La Polvorilla. Se avessero la mia asma non si avventurerebbero lassù. Ecco qui, signore. Buon viaggio».
Il treno è abbastanza affollato. La linea è stata inaugurata pochi mesi prima e chi può permetterselo non resiste al desiderio di ammirare i panorami mozzafiato lungo il percorso e soprattutto il viadotto a oltre 4000 metri di altezza.
Lo scompartimento in cui si sono sistemati i Bouvier è già completamente occupato. Ethan trova un posto in quello vicino ma si alza spesso e si ferma nel corridoio, in piedi, davanti a un finestrino. Finge di guardare fuori ma con un occhio controlla i movimenti del suo uomo.
Finalmente può osservarlo bene. Non somiglia molto a quella vecchia foto sbiadita che ha visto in ufficio, alla Direzione. È molto più vecchio e appesantito, dimostra assai più dei suoi cinquantadue anni.
“Non credo che sia effetto dei rimorsi di coscienza. Quell’uomo non sa che cosa siano. Non sa nemmeno che sta per arrivare la resa dei conti. Le sue vittime gridano vendetta… e anche Pierre”.
Il viaggio è lungo e i Bouvier si sono portati dal negozio alcuni fagotti con generi alimentari da consumare sul treno. Ethan è così vicino che può sentire le loro parole.
«Papà, dammi ancora un po’ di quella; è buonissima».
«Ecco qui, cara!» Finge di darle un pezzo di focaccia e invece la infila in bocca e la divora.
«Cattivo, papà», piagnucola delusa la bambina.
«Vieni qui tesoro. Era uno scherzo. Tieni. Questo è ancora più grosso».
La bambina si calma e sorride contenta.
“Non farti fregare, Ethan. Pensa a quei 205 bambini di Oradour…”
Non sa nemmeno lui quello che potrà fare. Una cosa è certa: se capiterà l’occasione lo ucciderà con le proprie mani. È un rischio ma non gli importa. La sua vita è stata distrutta quel 10 giugno del ’44 e da allora ha vissuto solo per quella vendetta. Se non potrà farlo in quel momento cercherà un’altra occasione. Ora è lui che tiene in mano il gioco ma è certo che prima o poi lo farà.
Il viaggio dura alcune ore, mentre il treno si arrampica per tratti a zig-zag verso il cielo. Finalmente arriva in vista de La Polvorilla. Il convoglio rallenta e si ferma. Si aprono gli sportelli dei vagoni e qualcuno comincia a scendere. Anche Nathan scende. L’aria dei 4000 metri fa respirare con affanno. Nonostante le ore trascorse, il passaggio dai 1000 metri di Salta è stato troppo repentino. C’è una specie di punto di osservazione sul vuoto e sullo sfondo si vede l’imponente massa metallica del viadotto, circondata dalle montagne rosse illuminate dal sole.
Nathan si appoggia alla balaustra. Poco dopo scende anche la famiglia Bouvier. I tre si affacciano non troppo lontano da lui.
«Julien – sussurra la signora – mi gira la testa ed è troppo freddo. Ti aspettiamo sul treno». Prende per mano la bambina e si allontana.
“Ecco l’occasione. Potrei affrontarlo e farlo precipitare nel vuoto. Avrà tutto il tempo per godersi la sua morte”
D’un tratto l’uomo si volta verso Nathan: «Es una vista maravillosa»
«Sì, stupenda», risponde Nathan con freddezza.
«Siete francese?»
«Sì»
«Di dove?... se posso…»
La risposta arriva come una coltellata: «Di Oradour-sur-Glane. Conosce bene il posto, vero?»
Lo vede sbiancare, poi Bouvier rivolge lo sguardo di nuovo verso il panorama, anche se non lo vede; è soltanto un modo per riflettere sul da farsi. D’un tratto si porta una mano al petto, sembra non riuscire a prendere fiato, né a dire una parola, solo gli occhi sbarrati implorano aiuto. Pochi secondi e cade pesantemente a terra.
Nathan è impietrito. Una piccola folla accorre verso i due uomini.
«Déjame pasar. Soy médico» Un uomo si fa largo e si china su Bouvier.
«Dottore, è morto?» chiede Nathan.
Il medico fa un cenno di assenso.
«Noooo. Non così!» È un grido in cui c’è insieme rabbia e delusione.
«Señor, es un pariente?... un paro cardiaco… esto sucede con frecuencia para la altitud excesiva… lo siento mucho. Usted necesita ser fuerte, ànimo…»
I tre entrano in stazione e si dirigono verso la biglietteria. Pagano e con i biglietti in mano si dirigono verso le partenze. Ethan li lascia allontanare e corre a sua volta verso la biglietteria.
«Dove va signore?»
«Dove sono andati quei signori prima di me».
«Oggi tutti a vedere La Polvorilla. Se avessero la mia asma non si avventurerebbero lassù. Ecco qui, signore. Buon viaggio».
Il treno è abbastanza affollato. La linea è stata inaugurata pochi mesi prima e chi può permetterselo non resiste al desiderio di ammirare i panorami mozzafiato lungo il percorso e soprattutto il viadotto a oltre 4000 metri di altezza.
Lo scompartimento in cui si sono sistemati i Bouvier è già completamente occupato. Ethan trova un posto in quello vicino ma si alza spesso e si ferma nel corridoio, in piedi, davanti a un finestrino. Finge di guardare fuori ma con un occhio controlla i movimenti del suo uomo.
Finalmente può osservarlo bene. Non somiglia molto a quella vecchia foto sbiadita che ha visto in ufficio, alla Direzione. È molto più vecchio e appesantito, dimostra assai più dei suoi cinquantadue anni.
“Non credo che sia effetto dei rimorsi di coscienza. Quell’uomo non sa che cosa siano. Non sa nemmeno che sta per arrivare la resa dei conti. Le sue vittime gridano vendetta… e anche Pierre”.
Il viaggio è lungo e i Bouvier si sono portati dal negozio alcuni fagotti con generi alimentari da consumare sul treno. Ethan è così vicino che può sentire le loro parole.
«Papà, dammi ancora un po’ di quella; è buonissima».
«Ecco qui, cara!» Finge di darle un pezzo di focaccia e invece la infila in bocca e la divora.
«Cattivo, papà», piagnucola delusa la bambina.
«Vieni qui tesoro. Era uno scherzo. Tieni. Questo è ancora più grosso».
La bambina si calma e sorride contenta.
“Non farti fregare, Ethan. Pensa a quei 205 bambini di Oradour…”
Non sa nemmeno lui quello che potrà fare. Una cosa è certa: se capiterà l’occasione lo ucciderà con le proprie mani. È un rischio ma non gli importa. La sua vita è stata distrutta quel 10 giugno del ’44 e da allora ha vissuto solo per quella vendetta. Se non potrà farlo in quel momento cercherà un’altra occasione. Ora è lui che tiene in mano il gioco ma è certo che prima o poi lo farà.
Il viaggio dura alcune ore, mentre il treno si arrampica per tratti a zig-zag verso il cielo. Finalmente arriva in vista de La Polvorilla. Il convoglio rallenta e si ferma. Si aprono gli sportelli dei vagoni e qualcuno comincia a scendere. Anche Nathan scende. L’aria dei 4000 metri fa respirare con affanno. Nonostante le ore trascorse, il passaggio dai 1000 metri di Salta è stato troppo repentino. C’è una specie di punto di osservazione sul vuoto e sullo sfondo si vede l’imponente massa metallica del viadotto, circondata dalle montagne rosse illuminate dal sole.
Nathan si appoggia alla balaustra. Poco dopo scende anche la famiglia Bouvier. I tre si affacciano non troppo lontano da lui.
«Julien – sussurra la signora – mi gira la testa ed è troppo freddo. Ti aspettiamo sul treno». Prende per mano la bambina e si allontana.
“Ecco l’occasione. Potrei affrontarlo e farlo precipitare nel vuoto. Avrà tutto il tempo per godersi la sua morte”
D’un tratto l’uomo si volta verso Nathan: «Es una vista maravillosa»
«Sì, stupenda», risponde Nathan con freddezza.
«Siete francese?»
«Sì»
«Di dove?... se posso…»
La risposta arriva come una coltellata: «Di Oradour-sur-Glane. Conosce bene il posto, vero?»
Lo vede sbiancare, poi Bouvier rivolge lo sguardo di nuovo verso il panorama, anche se non lo vede; è soltanto un modo per riflettere sul da farsi. D’un tratto si porta una mano al petto, sembra non riuscire a prendere fiato, né a dire una parola, solo gli occhi sbarrati implorano aiuto. Pochi secondi e cade pesantemente a terra.
Nathan è impietrito. Una piccola folla accorre verso i due uomini.
«Déjame pasar. Soy médico» Un uomo si fa largo e si china su Bouvier.
«Dottore, è morto?» chiede Nathan.
Il medico fa un cenno di assenso.
«Noooo. Non così!» È un grido in cui c’è insieme rabbia e delusione.
«Señor, es un pariente?... un paro cardiaco… esto sucede con frecuencia para la altitud excesiva… lo siento mucho. Usted necesita ser fuerte, ànimo…»