«Una cucina viaggiante? Suvvia, signor Ferrarotti, da dove le viene questa balzana idea? Chi potrà mai voler magiare presso un carretto a cavalli?»
«Bene, in questo mio progetto non ci trovo nulla di male! Perdinci, non si tratta di una misera carrozza trainata da cavalli, bensì di un moderno marchingegno, mosso dalla forza del vapore».
Al solo pronunciare la parola “vapore” lo vidi incuriosirsi. Ripresi:
«Vi sono illustri galantuomini che fanno molta, moltissima strada per solleticare il loro palato con le prelibatezze della mia dolce compagna, ora mi chiedo: perché non andare io da loro?»
«Sicché, dunque, voi richiedete in prestito cinquecento lire per la produzione del suddetto carro per la preparazione espressa di vivande?»
«Esattamente, conte Benso, esattamente come voi dite. Non ve ne pentirete, se l’idea andrà in porto vi rifonderò non solo le cinquecento lire che gentilmente mi concedete, ma altre cinquecento, più altre mille l’anno a venire.»
«La vostra proposta mi pare strampalata ma legittima. Del resto, presi per pazzo pure il primo uomo che millantò l’idea di una ferrovia per collegare Torino a Genova; ora abbiamo la galleria più lunga dell’intero mondo, un vanto che fa venir invidia ai regnanti di tutta Europa. Sia, vi concedo il prestito ma ad una condizione: sono ormai stanco del solito chiaretto, i miei gusti di uomo maturo si vogliono spostare su vezzi più esotici; pertanto girate il Regno, andate anche oltre se occorre, ma promettetemi di scovare una bevanda o un cordiale degni di tale nome! Mi fido del vostro buon gusto.»
La Cucina Viaggiante mi richiese tre mesi buoni di duro lavoro. Una macchina portentosa, lunga almeno trenta metri e larga due; la dotai di una caldaia enorme, in grado di produrre vapore a più di venti atmosfere. Esso muoveva quattro pistoni grandi come botti, tali da surclassare le migliori locomotive inglesi a scartamento largo. Gran parte dello spazio a bordo era occupato da una modernissima cucina alimentata a corrente, generata da una turbina ad alta velocità di rotazione. La restante sala permetteva ai (si spera numerosi) clienti di pranzare fra arazzi, stucchi e candelabri elettrici di nuovissima fattura.
Nonostante la mole e l’imponenza spropositati, la Cucina Viaggiante si muoveva svelta e leggera come uno stallone al trotto, raggiungeva almeno le venti miglia all’ora, sicché avrei potuto viaggiare da Torino a Novara in meno in un giorno. Ci pensate? Per pranzo a Cuneo e per cena a Casale! Non mancava un soppalco, nel quale io e mia moglie trovavamo alloggio in una confortevole stanzetta dotata di tutto punto: trapunte d’oca, specchiere argentate e fini ornamenti di ogni tipo ci rendevano le notti grate e piacevoli, con un tepore splendido garantito dal vapore che, incanalandosi in speciali tubazioni rinforzate, ci permetteva di schivare i rigori della campagna. Una vera casa viaggiante, insomma, con fine ristorante annesso.
«Eccellente il vostro stufato al barolo, signora: mai gustato una simile bontà!»
«Lei dice così, cavaliere, solo perché non ha ancora assaggiato la bagna cauda, una delizia che non teme paragoni nemmeno a Corte!»
«Avete ragione entrambi, ma di grazia, non trascurate gli agnolotti al tartufo!»
Discorsi simili ci accompagnavano ormai da giorni nel viaggio. La lunga scia di fumo e vapore era richiamo per decine, centinaia di bongustai sparsi nel bel Piemonte. La delizia delle nostre preparazioni ci precedeva lungo il percorso, sicché l’accoglienza della prelibata Cucina Viaggiante si manifestava con giubilo e speranza nei principali borghi del Regno, da Arona a Domodossola, da Ovada a Biella; qualcuno ci attendeva con la macchina per l’eliografia già aperta, sicché era un piacere per noi farci immortalare con conti, marchesi e gran signori che impreziosivano il nostro desco di prestigio e visibilità.
Fuori dai fasti, dalle abbuffate e dalla gloria le nostre giornate trascorrevano perlopiù in cucina, fucina di stufati, brodi e intingoli. Le mani sapienti di mia moglie, guidate dalla mia raffinatezza e dal mio buongusto, non sbagliavano mai un colpo. Decidemmo così di osare, spingendoci oltre i confini sabaudi.
Ci aspettavano giornate dure e amare. Attraversammo il Ticino nei pressi di Magenta, dove la gente del posto ci accolse con altezzosa sufficienza. Le rozze genti milanesi non ci diedero maggiori soddisfazioni, abituate a dozzinali polente e quell’insipida brodaglia che sogliono chiamare cassoeula.
Un giorno, usciti i pochi clienti, mentre lavavamo le stoviglie scaldandoci le mani con l’acqua calda garantita dalla portentosa vaporiera sotto di noi, la porta della cucina si spalancò e la chiara luce da essa filtrante venne subito sbarrata dall’imponente figura di un soldato vestito di tutto punto, alto almeno due metri, tanto che per entrare dovette togliersi il cappello. Esordì:
«Mi presento, sono il colonnello Graneris, addetto all’approvvigionamento dell’esercito di Sua Maestà Vittorio Emanuele.»
«Bene, finalmente un savoiardo fra noi… Mi dispiace ma la cucina è chiusa, a quest’ora. Anzi, credo che presto chiuderà per sempre, qui in Lombardia! Stiamo giusto sbaraccando per ritornare nel nostro amato Piemonte.»
«E se vi dicessi di spostarvi a est?»
«A che pro? Qui facciamo la fame, la faremo anche nelle Venezie, dove la gente è avvelenata dai risi e bisi e dalle moleche!»
«Io vi dico di spostarvi ancora più a oriente, molto più a oriente! Ci stiamo muovendo in guerra verso la Crimea, una terra lontana ai confini della Russia. La vittoria è certa ma il morale delle truppe rischia di deprimersi per le avversità che incontreremo in terre così desolate e barbare. Orsù, dunque, muovete la vostra prodigiosa Cucina Viaggiante verso quelle terre: sarà il ristoro ideale per gli ufficiali e i funzionari sicché, con la pancia piena e il palato appagato, potremo elaborare i migliori piani per fiaccare lo zar.»
«Di grazia, colonnello, le nostre provviste sono ormai prossime all’esaurimento e non arriveranno sane fino in Russia!»
«Mi stupisco della vostra affermazione, dunque non siete in possesso di una cella frigorifera a vapore?»
«Che corbelleria mi raccontate, colonnello, vi pare il modo di canzonarmi? Come fa il caldo vapore a portare freddo?»
«Sono un umile soldato, non certo un tecnologo, ma vi assicuro che tali macchine già funzionano sui migliori piroscafi della nostra flotta e ci consentono di conservare limoni, arance e verdure per prevenire lo scorbuto. Concedetemi un giorno e ne installerò uno anche sul vostro carro, avete la mia parola. Ve lo riempiremo pure di derrate bastanti per raggiungere la Crimea con tutto agio!»
Il colonnello fu di parola, con una postilla alquanto allarmante: lo spazio designato per la nuova cella frigorifera a vapore fu ricavato dalla nostra stanza da letto, sicché fummo costretti a vivere in cucina la maggior parte delle nostre giornate.
Il viaggio durò circa due settimane, senza grandi intoppi. Raggiungemmo la Crimea con facilità e conforto, concedendoci anche il lusso di visitare Padova, Venezia e il Garda da signori. Saluti, sbuffi e tepore furono i nostri compagni di viaggio, fino a quando il rimbombo delle prime cannonate, il 12 dicembre, segnalò inequivocabilmente il raggiungimento della meta. Stanchi del viaggio ci addormentammo esausti, sognando la nostra Cucina Viaggiante colma di raffinati ufficiali pronti a sgomitare per un civet o un bicerin stratificato alla perfezione.
Ci svegliammo la mattina seguente con il sole già alto, aprii la porta e mi imbattei in un enorme cumulo di neve che quasi mi impediva di uscire: eravamo bloccati. Fortuna che il geniere dell’esercito ci avesse pure dotato di una lancia termica la quale, alimentata dal vapore della caldaia, sarebbe riuscita ad aprirci un varco nella neve fresca: aveva funzionato egregiamente quando ce n’erano appena quattro dita, con un metro sarebbe stata più lenta ma avrebbe fatto comunque il suo dovere.
Mi allontanai di qualche passo dalla porta e inciampai in qualcosa, non seppi definire cosa. Lo fissai meglio e lo identificai come una gerla ricoperta da un sacco, accuratamente avvolta come a celarne il contenuto. Provai a sollevarla: era pesantissima, non riuscivo a schiodarla da terra nemmeno di un millimetro, sicché fui costretto a trascinarla. Non feci nemmeno in tempo a strattonarla che un grosso corvo venne in picchiata su di me; provò a colpirmi al volto, poi mi arpionò una manica, infine, non riuscendo ad avere la meglio, iniziò a svolazzarmi intorno appena sopra la testa, gracchiando all’inverosimile.
Continuò per un minuto buono, pensai di andare dentro a prendere il fucile e farlo così spaventare. Si posò sul tetto del carrozzone, continuando a gracchiare e girando la testa all’indietro, febbrilmente. Non ce l’aveva con me, stava solo cercando di catturare la mia attenzione.
Nonostante i piedi intorpiditi e le mani congelate provai a girare intorno alla carrozza, facendomi strada a calci e gomitate fra la neve, che mi arrivava fin quasi al torace; vi spuntava un cappellone militare, calcato su una faccia bluastra, con le narici ad un paio di dita dalla superficie. Mi avvicinai: era un giovane sui vent’anni, capelli rossi e qualche lentiggine; emetteva un leggero vapore dalla bocca: era vivo, ma non credo che potesse resistere ancora a lungo.
Lo liberai dalla morsa come meglio potevo: non ci volevo credere, era dei nostri, sabaudo! Lo tirai per le braccia fin dentro la cucina e lo sdraiai nel nostro letto, incurante di averlo completamente inzuppato con i pezzetti di neve che aveva addosso, sciolti ben presto dal calore delle tubazioni a vapore che vi passavano a fianco.
Provai a tirare uno schiaffetto al fante ma non ebbi risposta. Ci riprovai dopo avergli tolto gli scarponi, la giberna e ghette, ancora senza risposta; per fortuna aveva ripreso un bel colorito rossastro: probabilmente ce l’avrebbe fatta, quindi mi tranquillizzai.
Approfittando della momentanea tregua, mentre mia moglie era andata a mettere un po’ di carbone nella caldaia, uscii di nuovo per recuperare la gerla: era piena di bottiglie. Rientrando, vi ritrovai con mia massima sorpresa il corvo che, intrufolandosi dalla porta aperta, si era posato sulla testa del ragazzo.
«Oska…» sentii la sua flebile voce per la prima volta, tremante e un po’ lagnosa. Mi precipitai su di lui appena chiusa la porta. Il ragazzo mi aggredì:
«Ladro che non sei altro, non sai con chi hai a che fare! Ti farò assaggiare la lama del mio coltello se non mi dici subito dove hai messo le bottiglie!»
Si toccò la giberna per cercare l’arma ma, accortosi di non averla più con sé, iniziò a rattrappirsi su sé stesso, aspettandosi un cazzotto o un calcio. Faceva tenerezza, si credeva un duro ma in quelle condizioni lo avrebbe trapassato perfino un fico maturo. Si rese conto di non avere scampo, così iniziò a piagnucolare:
«Vi prego, signore, non fatemi del male, io non ho fatto a voi… Vi prego, non portatemi in prigione, farò tutto quello che vorrete…»
«E perché mai dovrei portarvi in prigione, ragazzo? Cos’hai combinato?»
Tirai fuori la grinta che tanti mesi di isolamento mi avevano conservato. Provò a giustificarsi:
«Ma no, niente signore… Davvero, non è nulla di che, stavo scherzando…»
Ci mancava solo un disertore: avevo dato i miei anni migliori per la patria e per liberarmi dagli odiosi austriaci. Dopo gli scarsi affari fatti in Lombardia il mio astio si era ancor più acuito; pertanto, odiavo chiunque si estraniasse dalla lotta contro qualsiasi nemico dei Savoia:
«Parlami chiaramente, che cosa hai combinato? Sono un uomo d’onore, che difende la patria. Se sei un disertore dimmelo e chiamerò immediatamente il colonnello Graneris, mio caro amico!»
«No, pietà, proprio lui non dovete chiamare, è il mio diretto superiore!»
Mi lasciai quasi impietosire, pareva sicuro di sé ma mi sembrava del tutto innocuo. Un po’ furbetto sì, con quel sorriso tirato e l’aria sfrontata, ma mi pareva costituire un pericolo, né per me né per il Regno.
«Deciderò il da farsi solo dopo aver ascoltato la tua storia.»
Lo feci sedere sul bancone della cucina, anch’esso riscaldato dal vapore, che teneva alla giusta temperatura una deliziosa crema parmentier; non gli rifiutai una ciotola bella colma. Iniziò così, fra una cucchiaiata e l’altra:
«Mi chiamo Alessio, Alessio Smirnoff. Mia madre è di Novara, donna ricca e colta. Incontrò mio padre, un ammiraglio russo, e lo sposò. Per questo ho un cognome così insolito. Pochi mesi fa ci ha abbandonati: doveva riprendere servizio; poi non ci scrisse più, né ci diede sue notizie. Salpò da Genova e più volte chiesi a mia madre il permesso per andarlo a trovare in Russia, ma me lo negò sempre: quella è una terra maledetta, mi diceva sempre, se andrai là incontrerai la morte. Non ci era andata molto lontana. Fu così che scappai di casa e mi recai a Genova, per chiedere dove fosse andato ma nessuno aveva sue notizie. Arrivarono due briganti e mi circuirono, derubandomi del poco denaro che avevo con me. Non me la sentivo di tornare indietro da mia madre, ci avrei perso la faccia e mi avrebbe trattato come un ragazzino per tutte la vita. Poche ore dopo salpava un grande piroscafo per il Brasile: mi imbarcai senza pensarci troppo, giusto per provare il gusto di andare per mare e racimolare i soldi bastanti a pagarmi il viaggio per la Russia.»
I suoi occhi si illuminarono di speranza e di passione. La zuppa era finita da un pezzo, così gli riempii di nuovo piatto. Il fante riprese:
«Il viaggio di andata e ritorno non durò molto, appena sei settimane, grazie alle mirabilie dei nuovi turbogetti, e così anche la paga fu scarsa: non sarebbe mai bastata per affrontare un viaggio fino a Mosca. Scorato, tornai a Torino e da qui a Novara per rimettermi mestamente nelle mani di mia madre; appena fuori Chivasso mi imbattei in un reggimento e quando scoprii che era diretto qui in Crimea fui così entusiasta di poter raggiungere mio padre, addirittura pagato, che mi arruolai immediatamente.»
Le sue guance cominciarono a solcarsi di due grosse lacrime, ma ancora non ne intuivo il motivo.
«Non aggiungo altro: seppi da un vecchio soldato che l’ammiraglio Smirnoff era affondato insieme alla sua nave, da vero eroe, a causa dello scoppio di un cilindro a pressione e così mi trovai intrappolato in una guerra disumana, senza via di scampo e senza soldi per tornare indietro.»
La sua storia faceva acqua come un canovaccio per la ricotta, volevo indagare meglio:
«E il corvo?»
«Mi è stato affidato da un vecchio marinaio sul piroscafo di ritorno dal Brasile, poco prima che venisse gettato in mare per ammutinamento; era l’unica cosa che gli rimaneva, ero il più giovane sulla nave e così fui io a prendermi cura di lui. Anche per me, ora come ora, è l’unico compagno.»
«E quelle bottiglie? Che cosa ci facevi con esse?»
«Dovevano essere il mio passaporto per il Piemonte. Da quando hanno aumentato le tasse sugli alcolici valgono una fortuna; sono riuscito procurarmene una trentina rubandole, lo ammetto, in un magazzino russo che abbiamo saccheggiato. La guerra, per me, non vale nulla, è stato solo un espediente per venire qui in Russia. Contavo di venderle e racimolare qualche soldo per tornare da mia madre, ora che so tutta la verità su mio padre e sulla guerra.»
C’erano troppe coincidenze per bermi la sua storiella. Lo incalzai:
«Allora sei davvero un disertore e un ladro!»
Cercai di portarlo nella stanza superiore e tenerlo al fresco fino all’arrivo delle guardie ma, appena dischiusa la porta, il viso del ragazzo si illuminò di stupore:
«Wow, signore! Che graziosa cella frigorifera a vapore! Ne avevamo una nella nave di ritorno dal Brasile… non sapevo che ve ne fossero versioni così piccole, adattabili per un carro!»
Almeno la storia del Brasile era vera, gli diedi una seconda possibilità:
«Il nostro amato e stimato conte di Cavour cerca una nuova bevanda che sia capace di deliziare le sue raffinate serate in compagnia di amici e parenti, sicché voglio rimetterti nelle sue mani. Ti terremo qui con noi e ti condurremo quindi a Corte, introducendoti a Sua Eccellenza Camillo Benso: se giudicherà il contenuto di quelle bottiglie abbastanza buono da deliziargli il palato, potrà concederti la grazia».
«Ma cosa dite, quel liquore è una porcheria, una barbaria russa indegna delle peggiori bettole di Vanchiglia, perfino!»
Volli comunque provare: stappai una bottiglia, presi un bicchierino dalla lavastoviglie elettromeccanica e lo colmai. Non feci nemmeno in tempo a bagnarmi le labbra che non seppi trattenermi:
«Perbacco ragazzo, hai proprio ragione. Questa bevanda è il fuoco dell’inferno con le sembianze dell’acquasanta!»
Il suo destino era segnato, non c’erano dubbi. Posai il bicchiere e non appena il ragazzo si mise a sedere il corvo Oska prese una fettina di limone dal pass e centrò perfettamente il bicchiere. Alessio balzò in piedi come spinto da mille molle e si avvicinò alla credenza ad apertura automatica.
«Che fai ragazzo, non vorrai mica rubare nella mia cucina viaggiante!»
Mi sentì appena, la sua sorpresa fu invece massima quando esclamò:
«Oska ha ragione! L’ha visto fare migliaia di volte al suo vecchio padrone: sulla nave avevamo un liquore brasiliano così disgustoso e infimo che per ingentilirlo soleva aggiungerci ghiaccio, zucchero e limone. Presto, proviamo a fare altrettanto con questo intruglio per incivili, di certo non potrà peggiorarlo.»
Eseguì la ricetta con accuratezza e mano ferma, esattamente come l’aveva imparata dal vecchio marinaio.
«Caspita, questa è una delizia, mai provato un cordiale così corroborante. Il conte di Cavour ne sarà entusiasta!» Avrei di certo vinto la scommessa con il grande ometto dagli occhialini tondi. «A proposito, come si chiama questa gradevole bevanda?»
«In Brasile la chiamano caipirinha…»
«E allora, in onore del corvo Oska, questa la chiameremo Caipiroska!»
Il ragazzo guardò fuori dal finestrino. Dalle colline si levava un fumo denso di polvere pirica e schegge, dal quale lo avevamo tratto in salvo; non gli avevo salvato la vita, ma quantomeno gli avevo dato una speranza.
«Bene, in questo mio progetto non ci trovo nulla di male! Perdinci, non si tratta di una misera carrozza trainata da cavalli, bensì di un moderno marchingegno, mosso dalla forza del vapore».
Al solo pronunciare la parola “vapore” lo vidi incuriosirsi. Ripresi:
«Vi sono illustri galantuomini che fanno molta, moltissima strada per solleticare il loro palato con le prelibatezze della mia dolce compagna, ora mi chiedo: perché non andare io da loro?»
«Sicché, dunque, voi richiedete in prestito cinquecento lire per la produzione del suddetto carro per la preparazione espressa di vivande?»
«Esattamente, conte Benso, esattamente come voi dite. Non ve ne pentirete, se l’idea andrà in porto vi rifonderò non solo le cinquecento lire che gentilmente mi concedete, ma altre cinquecento, più altre mille l’anno a venire.»
«La vostra proposta mi pare strampalata ma legittima. Del resto, presi per pazzo pure il primo uomo che millantò l’idea di una ferrovia per collegare Torino a Genova; ora abbiamo la galleria più lunga dell’intero mondo, un vanto che fa venir invidia ai regnanti di tutta Europa. Sia, vi concedo il prestito ma ad una condizione: sono ormai stanco del solito chiaretto, i miei gusti di uomo maturo si vogliono spostare su vezzi più esotici; pertanto girate il Regno, andate anche oltre se occorre, ma promettetemi di scovare una bevanda o un cordiale degni di tale nome! Mi fido del vostro buon gusto.»
La Cucina Viaggiante mi richiese tre mesi buoni di duro lavoro. Una macchina portentosa, lunga almeno trenta metri e larga due; la dotai di una caldaia enorme, in grado di produrre vapore a più di venti atmosfere. Esso muoveva quattro pistoni grandi come botti, tali da surclassare le migliori locomotive inglesi a scartamento largo. Gran parte dello spazio a bordo era occupato da una modernissima cucina alimentata a corrente, generata da una turbina ad alta velocità di rotazione. La restante sala permetteva ai (si spera numerosi) clienti di pranzare fra arazzi, stucchi e candelabri elettrici di nuovissima fattura.
Nonostante la mole e l’imponenza spropositati, la Cucina Viaggiante si muoveva svelta e leggera come uno stallone al trotto, raggiungeva almeno le venti miglia all’ora, sicché avrei potuto viaggiare da Torino a Novara in meno in un giorno. Ci pensate? Per pranzo a Cuneo e per cena a Casale! Non mancava un soppalco, nel quale io e mia moglie trovavamo alloggio in una confortevole stanzetta dotata di tutto punto: trapunte d’oca, specchiere argentate e fini ornamenti di ogni tipo ci rendevano le notti grate e piacevoli, con un tepore splendido garantito dal vapore che, incanalandosi in speciali tubazioni rinforzate, ci permetteva di schivare i rigori della campagna. Una vera casa viaggiante, insomma, con fine ristorante annesso.
«Eccellente il vostro stufato al barolo, signora: mai gustato una simile bontà!»
«Lei dice così, cavaliere, solo perché non ha ancora assaggiato la bagna cauda, una delizia che non teme paragoni nemmeno a Corte!»
«Avete ragione entrambi, ma di grazia, non trascurate gli agnolotti al tartufo!»
Discorsi simili ci accompagnavano ormai da giorni nel viaggio. La lunga scia di fumo e vapore era richiamo per decine, centinaia di bongustai sparsi nel bel Piemonte. La delizia delle nostre preparazioni ci precedeva lungo il percorso, sicché l’accoglienza della prelibata Cucina Viaggiante si manifestava con giubilo e speranza nei principali borghi del Regno, da Arona a Domodossola, da Ovada a Biella; qualcuno ci attendeva con la macchina per l’eliografia già aperta, sicché era un piacere per noi farci immortalare con conti, marchesi e gran signori che impreziosivano il nostro desco di prestigio e visibilità.
Fuori dai fasti, dalle abbuffate e dalla gloria le nostre giornate trascorrevano perlopiù in cucina, fucina di stufati, brodi e intingoli. Le mani sapienti di mia moglie, guidate dalla mia raffinatezza e dal mio buongusto, non sbagliavano mai un colpo. Decidemmo così di osare, spingendoci oltre i confini sabaudi.
Ci aspettavano giornate dure e amare. Attraversammo il Ticino nei pressi di Magenta, dove la gente del posto ci accolse con altezzosa sufficienza. Le rozze genti milanesi non ci diedero maggiori soddisfazioni, abituate a dozzinali polente e quell’insipida brodaglia che sogliono chiamare cassoeula.
Un giorno, usciti i pochi clienti, mentre lavavamo le stoviglie scaldandoci le mani con l’acqua calda garantita dalla portentosa vaporiera sotto di noi, la porta della cucina si spalancò e la chiara luce da essa filtrante venne subito sbarrata dall’imponente figura di un soldato vestito di tutto punto, alto almeno due metri, tanto che per entrare dovette togliersi il cappello. Esordì:
«Mi presento, sono il colonnello Graneris, addetto all’approvvigionamento dell’esercito di Sua Maestà Vittorio Emanuele.»
«Bene, finalmente un savoiardo fra noi… Mi dispiace ma la cucina è chiusa, a quest’ora. Anzi, credo che presto chiuderà per sempre, qui in Lombardia! Stiamo giusto sbaraccando per ritornare nel nostro amato Piemonte.»
«E se vi dicessi di spostarvi a est?»
«A che pro? Qui facciamo la fame, la faremo anche nelle Venezie, dove la gente è avvelenata dai risi e bisi e dalle moleche!»
«Io vi dico di spostarvi ancora più a oriente, molto più a oriente! Ci stiamo muovendo in guerra verso la Crimea, una terra lontana ai confini della Russia. La vittoria è certa ma il morale delle truppe rischia di deprimersi per le avversità che incontreremo in terre così desolate e barbare. Orsù, dunque, muovete la vostra prodigiosa Cucina Viaggiante verso quelle terre: sarà il ristoro ideale per gli ufficiali e i funzionari sicché, con la pancia piena e il palato appagato, potremo elaborare i migliori piani per fiaccare lo zar.»
«Di grazia, colonnello, le nostre provviste sono ormai prossime all’esaurimento e non arriveranno sane fino in Russia!»
«Mi stupisco della vostra affermazione, dunque non siete in possesso di una cella frigorifera a vapore?»
«Che corbelleria mi raccontate, colonnello, vi pare il modo di canzonarmi? Come fa il caldo vapore a portare freddo?»
«Sono un umile soldato, non certo un tecnologo, ma vi assicuro che tali macchine già funzionano sui migliori piroscafi della nostra flotta e ci consentono di conservare limoni, arance e verdure per prevenire lo scorbuto. Concedetemi un giorno e ne installerò uno anche sul vostro carro, avete la mia parola. Ve lo riempiremo pure di derrate bastanti per raggiungere la Crimea con tutto agio!»
Il colonnello fu di parola, con una postilla alquanto allarmante: lo spazio designato per la nuova cella frigorifera a vapore fu ricavato dalla nostra stanza da letto, sicché fummo costretti a vivere in cucina la maggior parte delle nostre giornate.
Il viaggio durò circa due settimane, senza grandi intoppi. Raggiungemmo la Crimea con facilità e conforto, concedendoci anche il lusso di visitare Padova, Venezia e il Garda da signori. Saluti, sbuffi e tepore furono i nostri compagni di viaggio, fino a quando il rimbombo delle prime cannonate, il 12 dicembre, segnalò inequivocabilmente il raggiungimento della meta. Stanchi del viaggio ci addormentammo esausti, sognando la nostra Cucina Viaggiante colma di raffinati ufficiali pronti a sgomitare per un civet o un bicerin stratificato alla perfezione.
Ci svegliammo la mattina seguente con il sole già alto, aprii la porta e mi imbattei in un enorme cumulo di neve che quasi mi impediva di uscire: eravamo bloccati. Fortuna che il geniere dell’esercito ci avesse pure dotato di una lancia termica la quale, alimentata dal vapore della caldaia, sarebbe riuscita ad aprirci un varco nella neve fresca: aveva funzionato egregiamente quando ce n’erano appena quattro dita, con un metro sarebbe stata più lenta ma avrebbe fatto comunque il suo dovere.
Mi allontanai di qualche passo dalla porta e inciampai in qualcosa, non seppi definire cosa. Lo fissai meglio e lo identificai come una gerla ricoperta da un sacco, accuratamente avvolta come a celarne il contenuto. Provai a sollevarla: era pesantissima, non riuscivo a schiodarla da terra nemmeno di un millimetro, sicché fui costretto a trascinarla. Non feci nemmeno in tempo a strattonarla che un grosso corvo venne in picchiata su di me; provò a colpirmi al volto, poi mi arpionò una manica, infine, non riuscendo ad avere la meglio, iniziò a svolazzarmi intorno appena sopra la testa, gracchiando all’inverosimile.
Continuò per un minuto buono, pensai di andare dentro a prendere il fucile e farlo così spaventare. Si posò sul tetto del carrozzone, continuando a gracchiare e girando la testa all’indietro, febbrilmente. Non ce l’aveva con me, stava solo cercando di catturare la mia attenzione.
Nonostante i piedi intorpiditi e le mani congelate provai a girare intorno alla carrozza, facendomi strada a calci e gomitate fra la neve, che mi arrivava fin quasi al torace; vi spuntava un cappellone militare, calcato su una faccia bluastra, con le narici ad un paio di dita dalla superficie. Mi avvicinai: era un giovane sui vent’anni, capelli rossi e qualche lentiggine; emetteva un leggero vapore dalla bocca: era vivo, ma non credo che potesse resistere ancora a lungo.
Lo liberai dalla morsa come meglio potevo: non ci volevo credere, era dei nostri, sabaudo! Lo tirai per le braccia fin dentro la cucina e lo sdraiai nel nostro letto, incurante di averlo completamente inzuppato con i pezzetti di neve che aveva addosso, sciolti ben presto dal calore delle tubazioni a vapore che vi passavano a fianco.
Provai a tirare uno schiaffetto al fante ma non ebbi risposta. Ci riprovai dopo avergli tolto gli scarponi, la giberna e ghette, ancora senza risposta; per fortuna aveva ripreso un bel colorito rossastro: probabilmente ce l’avrebbe fatta, quindi mi tranquillizzai.
Approfittando della momentanea tregua, mentre mia moglie era andata a mettere un po’ di carbone nella caldaia, uscii di nuovo per recuperare la gerla: era piena di bottiglie. Rientrando, vi ritrovai con mia massima sorpresa il corvo che, intrufolandosi dalla porta aperta, si era posato sulla testa del ragazzo.
«Oska…» sentii la sua flebile voce per la prima volta, tremante e un po’ lagnosa. Mi precipitai su di lui appena chiusa la porta. Il ragazzo mi aggredì:
«Ladro che non sei altro, non sai con chi hai a che fare! Ti farò assaggiare la lama del mio coltello se non mi dici subito dove hai messo le bottiglie!»
Si toccò la giberna per cercare l’arma ma, accortosi di non averla più con sé, iniziò a rattrappirsi su sé stesso, aspettandosi un cazzotto o un calcio. Faceva tenerezza, si credeva un duro ma in quelle condizioni lo avrebbe trapassato perfino un fico maturo. Si rese conto di non avere scampo, così iniziò a piagnucolare:
«Vi prego, signore, non fatemi del male, io non ho fatto a voi… Vi prego, non portatemi in prigione, farò tutto quello che vorrete…»
«E perché mai dovrei portarvi in prigione, ragazzo? Cos’hai combinato?»
Tirai fuori la grinta che tanti mesi di isolamento mi avevano conservato. Provò a giustificarsi:
«Ma no, niente signore… Davvero, non è nulla di che, stavo scherzando…»
Ci mancava solo un disertore: avevo dato i miei anni migliori per la patria e per liberarmi dagli odiosi austriaci. Dopo gli scarsi affari fatti in Lombardia il mio astio si era ancor più acuito; pertanto, odiavo chiunque si estraniasse dalla lotta contro qualsiasi nemico dei Savoia:
«Parlami chiaramente, che cosa hai combinato? Sono un uomo d’onore, che difende la patria. Se sei un disertore dimmelo e chiamerò immediatamente il colonnello Graneris, mio caro amico!»
«No, pietà, proprio lui non dovete chiamare, è il mio diretto superiore!»
Mi lasciai quasi impietosire, pareva sicuro di sé ma mi sembrava del tutto innocuo. Un po’ furbetto sì, con quel sorriso tirato e l’aria sfrontata, ma mi pareva costituire un pericolo, né per me né per il Regno.
«Deciderò il da farsi solo dopo aver ascoltato la tua storia.»
Lo feci sedere sul bancone della cucina, anch’esso riscaldato dal vapore, che teneva alla giusta temperatura una deliziosa crema parmentier; non gli rifiutai una ciotola bella colma. Iniziò così, fra una cucchiaiata e l’altra:
«Mi chiamo Alessio, Alessio Smirnoff. Mia madre è di Novara, donna ricca e colta. Incontrò mio padre, un ammiraglio russo, e lo sposò. Per questo ho un cognome così insolito. Pochi mesi fa ci ha abbandonati: doveva riprendere servizio; poi non ci scrisse più, né ci diede sue notizie. Salpò da Genova e più volte chiesi a mia madre il permesso per andarlo a trovare in Russia, ma me lo negò sempre: quella è una terra maledetta, mi diceva sempre, se andrai là incontrerai la morte. Non ci era andata molto lontana. Fu così che scappai di casa e mi recai a Genova, per chiedere dove fosse andato ma nessuno aveva sue notizie. Arrivarono due briganti e mi circuirono, derubandomi del poco denaro che avevo con me. Non me la sentivo di tornare indietro da mia madre, ci avrei perso la faccia e mi avrebbe trattato come un ragazzino per tutte la vita. Poche ore dopo salpava un grande piroscafo per il Brasile: mi imbarcai senza pensarci troppo, giusto per provare il gusto di andare per mare e racimolare i soldi bastanti a pagarmi il viaggio per la Russia.»
I suoi occhi si illuminarono di speranza e di passione. La zuppa era finita da un pezzo, così gli riempii di nuovo piatto. Il fante riprese:
«Il viaggio di andata e ritorno non durò molto, appena sei settimane, grazie alle mirabilie dei nuovi turbogetti, e così anche la paga fu scarsa: non sarebbe mai bastata per affrontare un viaggio fino a Mosca. Scorato, tornai a Torino e da qui a Novara per rimettermi mestamente nelle mani di mia madre; appena fuori Chivasso mi imbattei in un reggimento e quando scoprii che era diretto qui in Crimea fui così entusiasta di poter raggiungere mio padre, addirittura pagato, che mi arruolai immediatamente.»
Le sue guance cominciarono a solcarsi di due grosse lacrime, ma ancora non ne intuivo il motivo.
«Non aggiungo altro: seppi da un vecchio soldato che l’ammiraglio Smirnoff era affondato insieme alla sua nave, da vero eroe, a causa dello scoppio di un cilindro a pressione e così mi trovai intrappolato in una guerra disumana, senza via di scampo e senza soldi per tornare indietro.»
La sua storia faceva acqua come un canovaccio per la ricotta, volevo indagare meglio:
«E il corvo?»
«Mi è stato affidato da un vecchio marinaio sul piroscafo di ritorno dal Brasile, poco prima che venisse gettato in mare per ammutinamento; era l’unica cosa che gli rimaneva, ero il più giovane sulla nave e così fui io a prendermi cura di lui. Anche per me, ora come ora, è l’unico compagno.»
«E quelle bottiglie? Che cosa ci facevi con esse?»
«Dovevano essere il mio passaporto per il Piemonte. Da quando hanno aumentato le tasse sugli alcolici valgono una fortuna; sono riuscito procurarmene una trentina rubandole, lo ammetto, in un magazzino russo che abbiamo saccheggiato. La guerra, per me, non vale nulla, è stato solo un espediente per venire qui in Russia. Contavo di venderle e racimolare qualche soldo per tornare da mia madre, ora che so tutta la verità su mio padre e sulla guerra.»
C’erano troppe coincidenze per bermi la sua storiella. Lo incalzai:
«Allora sei davvero un disertore e un ladro!»
Cercai di portarlo nella stanza superiore e tenerlo al fresco fino all’arrivo delle guardie ma, appena dischiusa la porta, il viso del ragazzo si illuminò di stupore:
«Wow, signore! Che graziosa cella frigorifera a vapore! Ne avevamo una nella nave di ritorno dal Brasile… non sapevo che ve ne fossero versioni così piccole, adattabili per un carro!»
Almeno la storia del Brasile era vera, gli diedi una seconda possibilità:
«Il nostro amato e stimato conte di Cavour cerca una nuova bevanda che sia capace di deliziare le sue raffinate serate in compagnia di amici e parenti, sicché voglio rimetterti nelle sue mani. Ti terremo qui con noi e ti condurremo quindi a Corte, introducendoti a Sua Eccellenza Camillo Benso: se giudicherà il contenuto di quelle bottiglie abbastanza buono da deliziargli il palato, potrà concederti la grazia».
«Ma cosa dite, quel liquore è una porcheria, una barbaria russa indegna delle peggiori bettole di Vanchiglia, perfino!»
Volli comunque provare: stappai una bottiglia, presi un bicchierino dalla lavastoviglie elettromeccanica e lo colmai. Non feci nemmeno in tempo a bagnarmi le labbra che non seppi trattenermi:
«Perbacco ragazzo, hai proprio ragione. Questa bevanda è il fuoco dell’inferno con le sembianze dell’acquasanta!»
Il suo destino era segnato, non c’erano dubbi. Posai il bicchiere e non appena il ragazzo si mise a sedere il corvo Oska prese una fettina di limone dal pass e centrò perfettamente il bicchiere. Alessio balzò in piedi come spinto da mille molle e si avvicinò alla credenza ad apertura automatica.
«Che fai ragazzo, non vorrai mica rubare nella mia cucina viaggiante!»
Mi sentì appena, la sua sorpresa fu invece massima quando esclamò:
«Oska ha ragione! L’ha visto fare migliaia di volte al suo vecchio padrone: sulla nave avevamo un liquore brasiliano così disgustoso e infimo che per ingentilirlo soleva aggiungerci ghiaccio, zucchero e limone. Presto, proviamo a fare altrettanto con questo intruglio per incivili, di certo non potrà peggiorarlo.»
Eseguì la ricetta con accuratezza e mano ferma, esattamente come l’aveva imparata dal vecchio marinaio.
«Caspita, questa è una delizia, mai provato un cordiale così corroborante. Il conte di Cavour ne sarà entusiasta!» Avrei di certo vinto la scommessa con il grande ometto dagli occhialini tondi. «A proposito, come si chiama questa gradevole bevanda?»
«In Brasile la chiamano caipirinha…»
«E allora, in onore del corvo Oska, questa la chiameremo Caipiroska!»
Il ragazzo guardò fuori dal finestrino. Dalle colline si levava un fumo denso di polvere pirica e schegge, dal quale lo avevamo tratto in salvo; non gli avevo salvato la vita, ma quantomeno gli avevo dato una speranza.
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Ultima modifica di Different Staff il Mar Dic 06, 2022 11:33 am - modificato 1 volta.