La grande cucina profumava di torta di mele, di stufato e di brodo: profumi avvolgenti come il calore che emanava dalla stufa a legna dove le pietanze erano tenute in caldo, in attesa degli ospiti di Matilde: Sergio e Clelia, gli amici di sempre.
La donna prese le stoviglie da una vecchia credenza e apparecchiò un tavolo che era stato nuovo qualche decennio prima, così come datate erano le sedie, tutte scompagnate.
Matilde amava quella stanza, colorata e intima, così simile alla modesta cucina della sua infanzia, dove si cucinava e si stirava, la radio per compagnia e un angolo del tavolo per i compiti. Nei due anni che ci erano voluti per ristrutturare Ca’ Cicogna, Matilde aveva girato i rigattieri e i piccoli antiquari della zona, recuperando mobili e quant’altro per creare quella che lei chiamava “rilassante comodità”.
L’arrivo degli amici la riscosse dai ricordi. Rabboccò la legna nella stufa e li accolse con un abbraccio: quando, poco più che ventenni, avevano cercato le loro strade, si erano ripromessi di non perdersi di vista e di incontrarsi almeno una volta l’anno. Ora che Matilde era rientrata da Londra, era tutto più semplice.
«Davvero vuoi fare questo? Beh, ricca come sei, puoi farlo, vero Yoghi?»
Clelia non aveva mai smesso di chiamare così Sergio, che tra stazza, cappello e carattere ne era la versione umanizzata.
«Schifosamente ricca!» Sergio lanciò a Matilde uno sguardo divertito, mentre controllava la moka.
Il tavolo ora era occupato dal Mac di Matilde e da una cartina geografica, su cui spiccava una spessa linea rossa, quasi un circolo.
«Come ti è venuta ‘sta idea?» chiese Sergio.
«Non è mia, è sua. Lord Byron, prego.»
Nella stanza era entrato, silenziosamente, un uomo alto, sui settanta, dall’aspetto distinto: si presentò, con un marcato accento inglese, come Gordon Whistley.
«Lord Byron: nickname o discendente del poeta?» chiese Clelia, ironica.
«Alla lunga e alla larga, discendente.»
«Traduco: i vari lord Byron non riuscivano a tenerlo nei pantaloni.» Clelia amava le biografie, soprattutto se un po’ pruriginose.
«Anche le ladies hanno piedi freddi da scaldare e here I am.»
Il rametto di Gordon nell’albero genealogico dei Byron era di quelli molto sottili:
«Mia madre mi concepì con l’undicesimo lord Byron, che era già sposato, in Australia. Un accordo per un sostegno fino al termine dei miei studi evitò lo scandalo. Io lo seppi solo a trent’anni, nel ’75, alla morte di mia madre, quando trovai, assieme a una lunga lettera, copia dell’accordo, alcuni scritti del poeta e questo quaderno, che lei aveva sottratto a mio padre, più per rancore che per altro.»
«Fatto bene. E quindi?» Clelia, l’impaziente.
«Ritengo che George Byron abbia mascherato, in questi appunti di un viaggio un po’ stravagante, le località segrete in cui incontrò membri della Carboneria, in cui era entrato nel 1821. Forse con l’idea di trarne un nuovo canto di Childe Herald, come dice in una delle lettere, ma l’ultimo appunto è del giorno prima della sua fuga a Pisa. Poi più nulla.»
«E tu, eccentrico inglese, vuoi rifare quel viaggio. Uno scopo, tuo, ci sarà, ma noi che c’entriamo? Perché ho l’impressione che mi sfugga qualcosa, Matilde?» domandò Clelia, fissando Lord Byron.
«Davvero non ti ricordi? 2015, i nostri sessant’anni, viaggio a tre? Anzi, a quattro, visto che loro stanno insieme. O sbaglio?» Farfugliò Yoghi, alle prese con la torta di mele.
Clelia, che si stava pericolosamente dondolando sulla sedia, finì di dondolare, rovinando a terra. Ci mise due secondi a rialzarsi, infuriata:
«Cosa? E non mi hai detto niente! Stronza.» E corse via, seguita da Matilde.
Ci volle un po’ prima di vederle tornare, rasserenate e trovarono Sergio e Gordon che studiavano l’itinerario e il piano del viaggio sul Mac: era fatta.
«E con che viaggiamo? Carrozza o camper?» Clelia aveva ancora una puntina di acido da spendere.
Con un sorriso malizioso, Matilde richiamò un’immagine al computer.
«Nooo! Con… » Sergio e Clelia rimasero senza parole: il loro sogni da ragazzini.
«Yesss! Ecco il piano di viaggio. Ci vediamo tra due settimane.»
Si ritrovarono in stazione due settimane dopo: una compagnia a dir poco pittoresca.
Clelia infilata in una salopette anni ’70, che ancora le stava bene; Matilde che pareva pronta per un safari, mentre Gordon era in camicia e jeans con la piega perfetta. Sergio aveva preferito maglietta e bermuda, col solito cappello e i chili di troppo al seguito. Ad attenderli, oltre al capostazione e ad alcuni curiosi, un militare sui cinquant’anni con un corvo appollaiato sulla spalla. Matilde lo presentò come Josè, ma preferiva essere chiamato Fante: si sarebbe occupato della cucina.
«Mi scusi, ma lei non è in servizio, cioè alla sua età…» Sergio si era avvicinato, tenuto d’occhio dal corvo.
«Mai fatto il militare. Riformato. La divisa era di mio zio buon’anima, mi piaceva un casino e me l’ha regalata. Aveva ragione, sa? Divisa e ragazze… avevo la fila dietro. Le mostrine le ho trovato a un mercatino, ma non so che cosa significano. Lei piuttosto, non ha caldo? Con tutto quel pelo, che se tanto mi dà tanto… sembra un orso col cappello. Guardi che io roba da dieta non ne cucino, sia chiaro.»
Furono distolti dalle presentazioni dall’arrivo del loro treno: una magnifica locomotiva a vapore, una versione più piccola di un modello Rocket della Stevenson, che trinava due vagoni, rossi con fregi nero e oro.
Matilde l’aveva comprata in Scozia, ingombrante eredità di un duca in ristrettezze economiche con la passione per i treni. Una locomotiva era anche il logo della sua società di informatica, una delle prime a produrre videogiochi e che l’aveva resa ricca. Quando si era ritirata, ai nuovi proprietari non interessava “quella ferraglia” e, con gran sfoggio di generosità, gliel’avevano regalata.
Dalla locomotiva scesero due uomini sulla quarantina, gemelli identici in tutto, anche nelle movenze. Si presentarono - Ugo e Lino - caricarono i bagagli e poi risalirono a bordo, non senza aver allontanato con fermezza alcuni curiosi che cercavano di arrampicarsi sulla locomotiva.
Li avrebbero visti solo al momento dei pasti, sempre impegnati con Giuditta, la locomotiva battezzata col nome della loro madre. Difficile capirli, avevano un linguaggio tutto loro. E non era importante sapere chi erano in caso di necessità: o Ugo o Lino, rispondevano sempre.
Partirono tra i fischi della locomotiva e poderosi sbuffi di vapore, salutati come personaggi famosi: impiegarono un paio d’ore a sistemarsi negli scompartimenti trasformati in piccole camere, ritrovandosi poi nell’altro vagone, adibito a zona giorno.
Nei giorni successivi il viaggio procedette lentamente, su linee secondarie che consentirono loro di arrivare nei paesi segnati sul quaderno o nelle immediate vicinanze. Si godettero la campagna tranquilla, le prime colline dai colori intensi: anche le periferie di alcune cittadine finirono per avere un loro fascino particolare.
Gli orari concordati per occupare i binari, frutto di un anno di lavoro da parte di Gordon e Matilde, erano molto precisi, così come le soste per i rifornimenti, lasciando però loro il tempo di visitare piccoli borghi, qualche chiesa o convento, anche un paio di musei.
Clelia, che aveva un blog in cui parlava di viaggi brevi, aveva iniziato a commentare il viaggio. Tempo tre giorni, grazie al tam tam del web, e all’arrivo nelle stazioni cominciarono ad essere accolti da gruppi di curiosi festanti, alcuni regalarono anche cesti di frutta e verdura, formaggi e quant’altro, che qualche volta divisero poi con i vagabondi che giravano tra i binari.
Matilde e Fante di davano il cambio in cucina, che si trovava nel primo vagone: una cucina piccola con un bancone che era stato di un pub, rimesso a nuovo e attrezzato a dovere.
Sergio, che si occupava di fare le riprese per il diario del viaggio, mantenne la fama di orso Yoghi: al minimo sentore che Josè fosse al lavoro… posto in prima fila e spuntini anche a mezzanotte, spesso in compagnia dei gemelli.
Il suo slogan era: in cucina non si avanza nulla.
Oltre al tavolo per i pasti c’era un salottino, dove si riunivano dopo cena a parlare della giornata appena trascorsa: anche qui i profumi del cibo avevano qualcosa di speciale, che andava oltre il sapore o la novità di una ricetta. Furono le ore per i ricordi, per raccontare le fatiche di trovare un posto nel mondo, le avventure finite in niente, qualche amore importante, di amici che non c’erano più. Se non arrivavano le risate a stemperare la nostalgia, ecco che partiva il momento caipiroska, un cocktail che Fante preparava in modo superbo. Scoprirono che mentre Fante era astemio, quindi andava a occhio con le dosi e con la sperimentazione di fantasiose varianti in base alla frutta disponibile, il corvo - detto Corvo - non lo era. Una sera bevve qualche goccia di liquore da un bicchiere e mentre si posava ciondolando sulla spalla di Clelia, si sentì distintamente un sonoro “Stronza!”
«Ehi, ha detto stronza! Ma i corvi parlano?»
«Questo sì, ma solo se incontra l’anima gemella.»
Gordon controllava sul quaderno l’itinerario: molti paesi o villaggi segnati non esistevano più o erano ormai abbandonati: Fontenera, la Cupolotta, Briantino erano solo ricordi lontani, tra campi incolti e ruscelli impetuosi. Qualcuno era stato fagocitato da paesi più grandi e di essi rimaneva solo il ricordo nel nome di qualche contrada.
Nel quaderno di Lord Byron, a parte qualche breve descrizione di usi locali e schizzi del paesaggio, era frequente trovare riferimenti a qualche giovane pulzella che aveva conquistato declinando poesie col fascino dello staniero, con un certo disappunto di Gordon, che si aspettava ben altro dal suo avo.
Forse era un modo escogitato per mascherare i nomi dei Carbonari incontrati, ma cominciava a dubitarne.
Incrociarono anche un paio di stazioncine abbandonate, dove vecchie piante ornamentali, sistemate in grandi mastelle, continuavano però a fiorire, rigogliose e ormai inselvatichite.
Un venerdì pomeriggio arrivarono a Castagneto, un borgo dove era rimasto un solo castagno, proprio in mezzo alla piazza. Era il giorno della sagra e gli amici si aggirarono tra le bancarelle del mercato, comprarono cose di cui non avevano bisogno, si fecero persino qualche giro in giostra. Il Fante di salire sulla “calcinculo” proprio non ne voleva sentire, preferì girare tra le giostre: incrociò alcuni militari di una vicina caserma, che lo salutarono rispettosi. Forse loro sapevano riconoscere quei gradi comprati su una bancarella. Rispose al saluto con gran sussiego.
Gordon andò invece alla ricerca di un vecchio convento, ormai abitato solo da pochi di frati, nessuno dei quali sapeva se ci fossero documenti relativi al periodo in cui Lord Byron si era fermato. Tornò mestamente al treno per dar modo anche a Ugo e Lino di farsi un giro per la fiera: trovarono i due che oltre a farsi fotografare in posa sui predellini della Giuditta, distribuivano pure autografi.
Alla stazione di Corte dei Topi, Gordon riuscì a intravedere oltre un boschetto, quello che rimaneva del castello citato da Lord Byron, di cui c’era anche un bel disegno, ricco si particolari.
Profittando di una lunga sosta, vi arrivarono in bicicletta: era chiuso al pubblico, parzialmente diroccato e coperti di edera. Il parroco della vicina chiesa mostrò loro quei pochi documenti antichi custoditi in una teca e Gordon trovò una labile traccia della visita di un gentiluomo inglese, tale Lord Burun, nome dell’antico casato dei Byron.
Gordon ormai aveva capito che il viaggio non era quello che si aspettava, anche se scartabellando i documenti che aveva trovato durante i suoi studi, ogni tanto pareva riprendere fiducia.
«Sapete quel castello che abbiamo visto oggi, a Castel dè Torti? Mi ricorda tanto il castello dove mio zio George - ormai il Lord Byron originario era diventato zio George - impalmò la…. ecco, ne ho un ritratto… Virginia Toderi. Bella donna eh, che ne dite?»
La valigia di George era una fonte inesauribile di documenti, tracce della vita del poeta e di quella che oggi verrebbe chiamata famiglia allargata.
A Campinelli lo persero di vista mentre, assieme a Sergio pedalava verso una grande tenuta dove si allevavano Angus: quando tornarono, appena in tempo per la partenza, Sergio, che di professione faceva il veterinario, aveva un quadernetto con un sacco di annotazioni che quella sera Clelia, l’unica che sapesse decifrare la sua scrittura, trasferì su un file.
«Ragazzi, vi ricordare quando Sergio è stato bocciato in seconda media? Sua mamma me lo rifilò per un’intera estate, per studiare. Un giorno, faceva un caldo che non vi dico, mia madre lo trovò in bagno, steso nella vasca, vuota ovviamente, col libro di matematica. Non vi dico la scena. Mia madre per diversi giorni bussava alla porta anche se era aperta.»
«Dai, pubblichiamolo sui giornali…» Incredibile, ma Sergio era arrossito. Pochi secondi e tutti stavano ridendo a crepapelle, compresi i gemelli che però ci misero un po’ a immaginare la scena.
Capitava che di notte dovessero fermarsi per lasciare i binari a lunghi treni merci. Una sera di fermarono a Torrazza, un paesotto proprio a ridosso della ferrovia.
Le prime case erano appena oltre la massicciata: piccole palazzine, alcune case a schiera.
Le luci nelle case erano accese e potevano vedere famiglie a tavola, altre davanti alla tv, qualcuno sul balcone a godersi le ultime serate settembrine.
Matilde e Clelia se ne stavano volentieri ai finestrini, godendo dei suoni della campagna o dei rumori che arrivavano sfumati e al contempo chiari. Motorini, schiamazzi di bambini, abbaiare di cani, muggiti dalle stalle.
Ad un certo punto sentirono un fischio: da una finestra qualcuno faceva loro dei segnali con una torcia. Era una ragazzina che li salutò sbracciandosi:
«Salve, gente del treno rosso! Siete famosi, lo sapete? Buon viaggio! Ehi Gordon, sei un mito!»
La sera in cui sostarono a Torre dei Torti, Lord Byron era stranamente silenzioso e non aveva portato con sé la valigia-archivio. Non era il suo turno per riordinare la cucina ma si offrì di farlo: lo lasciarono fare, consapevoli che qualcosa non andava. Svuotò i pensili, i cassetti e gli stipi, pulendo tutto con cura, quasi con rabbia. Lavò piatti e bicchieri con cura maniacale: alla fine tutto era lucido e in perfetto ordine.
Poi, sempre nervosamente, andò a prendere la sua valigia e, quasi piangendo, sparpagliò fogli e cartelline sul tavolo. Nessuno si mosse, era un momento tutto suo: quando si calmò, abbassarono le luci, cosicché i volti restassero in ombra.
«So che la gente ride alle mie spalle e che all’inizio ero anche per voi una macchietta.»
Cercò in tasca un fazzoletto.
«Un professore inglese, maldestro e un po’ suonato, che non parla altro che del suo antenato o presunto tale, ogni occasione è buona per infilarlo nei discorsi. Patetico. Lo so.»
«Ehi, nessuno ti trova patetico.»
«Me lo dico da solo, Clelia. Vedete tutti questi documenti? Quando ho saputo del mio avo, ho fatto ricerche su ricerche, volevo sapere tutto su di lui. I miei corsi sul poeta, al college, erano seguitissimi e dentro di me mi vantavo, sempre col desiderio di poter dire al verità. Spesi un sacco di soldi per tentare un riconoscimento ufficiale, ma non ci fu nulla da fare. Rischiai anche una denuncia da parte dei miei “cugini” Ecco il perché di questo viaggio: condividere qualcosa della famiglia, di quella famiglia, ma qualcosa da cui loro fossero esclusi. Sì Clelia, è patetico perché ho quasi settant’anni.»
Prese i documenti, compreso il quaderno, scese dal treno e girò lì dattorno finché non trovò un bidone e bruciò tutto. Si chiuse nel suo scompartimento e ne uscì solo a mattina inoltrata, confabulando poi a lungo con Matilde.
Il viaggio continuò comunque, anche se con uno spirito diverso.
Arrivarono a Ponte di San Guelfo, ormai quasi alla fine del viaggio, dove Fante aveva dei parenti. Lo aspettavano alla stazione, con cassette di frutta e verdura, persino un paio di galline, vive. Erano di quei parenti che ci vuole parecchio per districarne i collegamenti, ma tutti si ricordavano di quello che per comodità Gordon tradusse in “cugino”.
Quando Giuditta, tirata a lucido, entrò nella stazione di Valdibasso, fine del viaggio, ad attenerla c’era mezzo paese, il sindaco addirittura con la fascia tricolore. La segretaria della scuola consegnò a Matilde una cartellina in cui aveva raccolto gli articoli di giornale che parlavano di una vecchia locomotiva a vapore e di un gruppo di amici che aveva ridato lustro, sia pure per qualche ora soltanto, a posti dimenticati. Finirono sui giornali locale ed ebbero anche un trafiletto sul Corriere. Gordon Whistely era diventato famoso.
Due anni dopo
Il cortile di Ca’ Cicogna ospitava ora, in un angolo ben ombreggiato e su dei binari regolamentari, Giuditta e un vagone, uno solo, rosso con scritte dorate e nere.
Accanto, la voliera per Corvo.
Una sorta di serra collegava la cucina al vagone: all’esterno alcuni cespugli di rose rampicanti crescevano rigogliose, mentre all’interno, durante la stagione fredda, venivano sistemate piantine di limoni.
Per festeggiare il loro quarto anniversario di matrimonio, Matilde e Gordon invitarono “La compagnia del treno”: apparecchiarono come al solito in cucina. A cucinare, anche per Corvo, ci aveva pensato Josè. Al momento del dolce, Gordon invitò tutti a trasferirsi sul treno: quando si furono accomodati, con aria da cospiratore dapprima abbassò le tendine, poi armeggiò con un telecomando.
Si udì il fischio della locomotiva e il vagone parve muoversi sui binari, con un effetto davvero molto realistico. Su un grande schermo, cominciarono a scorrere le immagini di quel viaggio.
Dalla piccola cucina arrivava un buon profumo di crostata e di caffè. Di amicizia.
«Biglietti, prego!» Il Fante alle divise proprio non rinunciava.
«Stronzo!» Anche Corvo aveva il suo posto in prima fila.