Non sono molto bravo con le parole.
Più che altro il problema è provare a farle uscire. Nella mia mente prendono forma pensieri e immagini, talvolta anche complessi, ma poi la paura mi paralizza le corde vocali. A chi mai può interessare ciò che ho da dire? Sono ossessionato da questa domanda. Da questa verità.
La verità è che ho sempre preferito ascoltare piuttosto che aprire bocca.
Sin da bambino è sempre stato così. Forse è un’attitudine, una qualità innata come possono essere gli occhi verdi o le lentiggini sul viso.
Comunque sia, per certe cose non siamo noi a decidere, succedono e basta. È un po' come col fato, il destino, o come diavolo volete chiamarlo. Tanto la sostanza non cambia, quando desideriamo davvero qualcosa e pensiamo di essere felici, lui si mette in mezzo e si diverte a prenderci a calci.
Riesco ancora a sentire le parole di Mbali. «Potresti avere un futuro come mimo, davvero» mi ripeteva spesso. Anche con lei parlavo poco.
In compenso l’amavo tanto.
L’amo ancora tanto, più della mia vita.
L’amo così tanto che ho finito di frequentare il corso di mimo che mi aveva regalato in una delle sue folli uscite.
Questa era la sua qualità che adoravo più di tutte: l’imprevedibilità, la giocosa follia che mi faceva sentire vivo come mai mi era successo fino ad allora.
Osservo le mie movenze sullo specchio che ricopre la parete est della soffitta. Sto ripetendo la scena da due giorni.
Due giorni tappato in casa a reiterare in modo maniacale quei movimenti che mi proiettano nel futuro. Ieri ho smesso solo per mangiare e seguire la cerimonia d’apertura dei giochi olimpici di Los Angeles. È strano. Mi sono ritrovato a canticchiare When the saints go marching in assieme al coro gospel, senza sapere perché. Dopo mi sono sentito in colpa e ho preso l’album delle fotografie. L’ho sfogliato solo per qualche minuto, con la compagnia dei canti in sottofondo.
Io e Mbali siamo felici, sorridiamo sempre, anche se il sole non può carezzare i nostri volti e la brezza non può scompigliarci i capelli. Non ci siamo potuti concedere il lusso d’immortalare quella felicità fuori dalle mura di un amore clandestino. Quattro pareti circoscrivono ogni volta i nostri corpi nell’attimo di un’eternità.
Lo specchio riflette l’ondeggiamento della mia anima in subbuglio ancora una volta: avanzo con le braccia larghe per poi restringerle sino a fare quasi toccare le mani. Ruoto il corpo di centottanta gradi, abbassando il braccio sinistro e tenendo alzato a mezz’aria quello destro. Sorrido. Sono sereno. Poi la mano sinistra sfiora la schiena e risale in un impeto fulmineo, le dita serrate. Il pugno si abbassa una, due, tre volte.
M’inginocchio. Il pugno cala ancora e ancora, senza soluzione di continuità. Il volto adesso è contratto in una espressione stralunata che rasenta la follia.
Avanzo verso il fondo della soffitta. Sotto un luminello colorato con l’azzurro del cielo, una vasca dai piedi leonini è parcheggiata nell’angolo. L’abbiamo trovata lì quando all’inizio dell’anno abbiamo affittato questo nido vicino alla ferrovia, nel quartiere di Claremont, periferia sud di Città del Capo.
Quando l’ha vista è scoppiata a ridere. «Cosa diavolo ci fa una vasca in soffitta?» Così ha detto, poi ha riso di nuovo.
Comunque ha sempre voluto lasciarla lì, a testimonianza dell’irrazionalità che governa il mondo.
Aveva ragione.
Guardo dentro la vasca. Gli attrezzi sono adagiati sul fondo smaltato di bianco. È tutto pronto.
Va bene così.
Mi dico che va bene così.
Avevo conosciuto Mbali in un cinque stelle su Victoria Road, nella zona di Camps Bay Beach. La società di mio padre, la Van Linden Trading, operante nel commercio internazionale delle pietre preziose, aveva organizzato la consueta cena aziendale d’inizio anno. In verità, avrei fatto volentieri a meno di quell’impegno: i primi quattro giorni di gennaio erano stati particolarmente torridi e anche quella sera la temperatura superava i trenta gradi. Mi sentivo fiacco, svuotato, annoiato anche, ma Theo Van Linden non avrebbe mai permesso al suo erede di marcare visita.
Il vecchio squalo (questo era il nomignolo affibbiatogli nell’ambiente) era uno della vecchia guardia, abituato a decidere su tutto, anche sulle decorazioni della carta igienica. Soprattutto detestava essere contraddetto. Ciò che diceva era legge.
Quando entrammo nel ristorante dell’hotel, Theodore Van Linden si lasciò scappare una smorfia di contrarietà. Parlo poco, ma non mi sfugge niente.
«Che succede, papà?»
«Guardati in giro, Jeremy. Solo qualche tempo fa tutto questo sarebbe stato impensabile. Invece ora iniziano a vedersi le prime faccine scure.»
Feci spaziare lo sguardo per la sala. Tra il drappello dei camerieri c’erano una ragazza nera e due mulatti.
«Purtroppo sarà sempre peggio, Theodore» s’intromise Robbie Chievers, il direttore amministrativo. «La crisi economica di certo non aiuta il Partito Nazionalista a ponderare le proprie decisioni. I permessi speciali per lavorare sono aumentati a dismisura e la contaminazione delle aree urbane ne è la logica conseguenza.»
Fissai con attenzione mio padre. Sembrava molto contrariato.
«L’ingerenza e le sanzioni della comunità internazionale contro la politica segregazionista sono una disgrazia per questo paese. Di questo passo, Robbie, ci ritroveremo a pisciare nello stesso orinale coi negri.»
Chievers si lasciò scappare un sorriso d’intesa.
La contrarietà del vecchio sfociò in una sorta d’incazzatura quando, dopo qualche minuto, la ragazza nera si avvicinò con i menù. Lì per lì pensai che mio padre avrebbe fatto una scenata per farsi assegnare un cameriere bianco, ma poi vidi spuntare un sorriso maligno e capii.
Theodore non perse occasione di tartassare la ragazza durante tutta la serata. Si prodigò in battute di cattivo gusto dal velato contenuto razzista, la provocò, a metà della serata arrivò anche ad insultarla apertamente, ma lei nulla, non reagì mai, continuò a servirci come se niente fosse, sempre con un sorriso spiazzante sul viso.
Spiazzante. Mi sforzai parecchio, ma non riuscii a trovare un termine migliore per descrivere quel sorriso e ciò che mi provocava.
Mi sentivo disorientato, le gambe molli come un condannato davanti al plotone d’esecuzione.
Contemplai decine di treccine ornare ogni angolo del capo della ragazza, per poi convergere sulla nuca, imprigionate in una crocchia elegante. Immaginai come potessero essere libere da quella gabbia, sciolte nel vento.
Se fossi stato un pittore avrei adagiato quel viso su tela in modo da poterlo ammirare per sempre. Fossi stato un poeta lo avrei impresso sulla carta per poterne leggere sino alla fine dei miei giorni. Ma non ero né un pittore né un poeta. Quelle immagini e quelle parole rimasero scolpite soltanto nella mia testa in un titolo: sinfonia d’avorio incastonata su colonna d’ebano.
Mi limitai a osservarla per tutta la serata, senza dire una sola parola. Senza ascoltare le battute dei colleghi, le lagnanze del padre padrone, il chiacchiericcio informe della sala. Sempre in silenzio.
Tornai il giorno dopo, e quello dopo ancora, quando mi notò e si ricordò di me.
«Mi scusi, lei è già stato qui l’altra sera, per la cena aziendale, giusto?»
«È così.»
«Ci avrei giurato. Non ha detto una parola, ma è l’unico che non è stato scortese con me.»
Mi trincerai dietro un mezzo sorriso imbarazzato. «È stata brava a non reagire, davvero.»
«Se voglio lavorare non posso permettermi di reagire, non crede?» disse la ragazza, rabbuiandosi per un attimo. Fu solo un momento, poi il buonumore tornò a impadronirsi di lei. «Allora, cosa le porto?»
«Dammi del tu. Io sono Jeremy.»
«Io sono Mbali. Se vuoi saperlo nella mia lingua significa fiore.»
Pensai che non esistesse significato più appropriato.
«Senti, volevo chiederti scusa. Non siamo stati una tavolata molto simpatica. Soprattutto mio padre.»
«Chi? Il signore un po' arrogante coi capelli tinti?» Mbali si lasciò scappare una risatina, poi si ricompose. «Scusa, stavo scherzando.»
«Già, il re degli stronzi» dissi, stupendomi di me stesso.
Mbali sgranò gli occhi e si coprì la bocca per soffocare una risata. Quando la tolse, il suo eterno sorriso era ancora lì, per dimostrare a chi sapeva osservare quanto fosse bello il mondo, nonostante le sue tante contraddizioni.
Prima di lasciare il ristorante passai a salutarla e, chissà come, trovai il coraggio per chiederle di uscire.
Mi ero aspettato un rifiuto netto, categorico, tanto più che le relazioni miste erano osteggiate dal governo. Invece lei mi stupì.
«Volentieri. Ma lo faccio solo per dare un dispiacere a tuo padre» mi confidò sorridendo.
Il giorno libero di Mbali era il martedì, così la passai a prendere nel primo pomeriggio.
«Sai dove mi piacerebbe andare, Jeremy? Vorrei salire sulla Montagna. Non ci sono ancora stata.»
L’accontentai. Prendemmo la funivia a Tafelberg Road: nella cabina solo poche persone che ci guardavano con diffidenza. Mbali indossava dei jeans leggeri e una camicetta bianca. Sulla testa un fazzoletto bianco a pois rossi.
Qualcuno fece dei commenti stizziti, ma lei non si scompose.
«Sono la sua domestica» rispose docilmente, sollevando con cura il paniere dove riposavano i toasts e le bevande per il picnic.
Ci godemmo fino in fondo il viaggio verso la sommità della Table Mountain, la città ridotta a una macchia policromatica che andava a incontrare il blu dell’oceano.
«Jeremy, è bellissimo qui. Grazie di avermi accompagnato.» Sorrise.
Io feci lo stesso.
Stendemmo la tovaglia sopra un muretto in prossimità del parapetto che proteggeva dal precipizio. Seduti su uno scomodo blocco di roccia, come in preda a un incantesimo, osservammo ancora Cape Town, la zona portuale e il golfo. Una brezza leggera animava gli arbusti che crescevano tra le rocce, una coreografia giallo verde supportata dal canto vitale degli uccelli. Una lucertola marrone sbucò fuori da una fenditura tra i massi, come in seguito a un richiamo, e restò in bilico sul burrone a farsi scaldare dal sole. Rimase ancorata alla roccia per quasi un minuto, salvo poi scattare alla volta d’incombenze più urgenti.
«Sembra il paradiso» disse Mbali. «Non credevo potesse essere così bello.»
Allungai la mano per prendere il toast che mi porgeva.
«Carne di maiale, pomodoro e formaggio. Spero ti piaccia.»
«Molto. È il mio preferito.»
«È incredibile come la città sembri piccola da quassù. Sai che da piccola soffrivo di vertigini? I miei amici giocavano ad arrampicarsi sugli alberi e io restavo giù a guardarli. Non era divertente. Poi verso i tredici anni sono dovuta salire su una scala e mi sono accorta di non avere più problemi con l’altezza.»
La guardavo senza frenesia, gustandola un boccone alla volta, come col toast.
«Non sei uno che parla molto, eh?»
«Direi di no.» Inghiottii carne e saliva. «Preferisco ascoltare.»
«Senti, non è vero quello che ti ho detto ieri.»
«Su cosa?» domandai.
«Che sono uscita con te solo per fare un dispetto a tuo padre.»
«No? C’è un altro motivo?»
Mbali rise, si alzò e raggiunse la ringhiera. «Ho caldo» disse, dandomi le spalle. Poi levò il fazzoletto dalla testa, liberando una cascata di treccine. Quando si girò mi sorrise. Un sorriso accogliente e sincero, che prometteva solo cose belle.
Il suo sorriso. Se mai ce ne fosse stato bisogno, in quell’attimo preciso realizzai che la felicità (se mai esisteva per davvero) sarebbe arrivata con lei.
La felicità era lei.
Siamo stati insieme circa sei mesi, sino alla metà di luglio.
Sei mesi possono essere pochi o molti, dipende da come si vivono.
Noi li abbiamo vissuti intensamente. Dopo tanto tempo ho sentito che la mia esistenza aveva un senso. Finalmente.
Se ero venuto al mondo un motivo doveva pur esserci e quel motivo era prendermi cura di Mbali, anche se forse era lei che si prendeva cura di me. Questo, comunque, non ha molta importanza, il punto è che quando ami davvero una persona e sei ricambiato ti senti invincibile.
Niente ti può scalfire.
Il mio stato di grazia è durato per quei centottanta giorni, poi è svanito insieme a Mbali. È successo tutto in un attimo: da un momento all’altro non ho avuto più sue notizie e stop, fine della storia. Anche al ristorante in cui lavorava non hanno saputo dirmi niente. È stato come spingere un interruttore: la luce dentro di me si è spenta.
E allora mi sono tornati in mente tutti i pensieri che mi tormentavano prima di conoscerla, la sensazione che la mia vita non sarebbe mai potuta cambiare in meglio. Che senso aveva programmare, fare progetti, desiderare qualcosa? O qualcuno? Tanto la verità era evidente: se non ti aspetti nulla di buono e smetti di sperare, non puoi rimanere deluso.
Avrei potuto rassegnarmi, finirla lì, invece ho giocato l’ultima carta a mia disposizione e mi sono rivolto a mio padre. Ho pensato che è un uomo importante, ha delle conoscenze e mi può aiutare a cercarla, così l’altro ieri sono stato da lui.
Mi sbagliavo, non può proprio aiutarmi. Come se non bastasse le sue parole mi hanno annientato. Ucciso.
Tra qualche minuto verrà qui.
Non posso più tenermi tutto dentro.
Voglio fargli capire che ciò che ha detto mi ha fatto troppo male.
L’altro giorno non ce l’ho fatta, non ho avuto la forza e il coraggio di reagire. Ora è diverso.
Ripeto ancora una volta la scena.
I movimenti sono fluidi e naturali. L’insegnante ha detto che sono stato il migliore del corso. Penso che mi licenzierò dalla ditta di mio padre e mi unirò a una compagnia teatrale. Questa volta non sarà un problema andare contro la sua volontà, sono pronto ad arrivare sino in fondo.
Ho la sensazione che questo sia l’ultimo regalo di Mbali e so che in qualunque posto si trovi adesso vuole questo per me.
Allargo le braccia davanti a me, poi le avvicino. Mi giro, abbasso il braccio sinistro e tengo ad altezza spalla il destro. Le dita della mano sinistra toccano la parte bassa della schiena, infine tornano verso l’alto, chiuse. Il pugno cala tre volte e continua ad abbassarsi anche dopo che mi sono inginocchiato. Vado avanti imperterrito, smetto solo quando sento il trillo del campanello. Dal citofono mi arriva la sua tipica voce scocciata; dico che sono in soffitta e gli apro il portone.
Il cuore mi batte forte e faccio quasi fatica a respirare, poi sento i suoi passi rimbombare su per la scala in legno. Quando lo vedo materializzarsi davanti alla porta sorrido e lo accolgo a braccia aperte.
Il cuore nel petto è una locomotiva impazzita.
Lo abbraccio, quindi mi volto.
La mia mano destra cinge la sua spalla, la sinistra invece è scomparsa sotto il maglione all’altezza del fondoschiena. Quando riappare le dita sono serrate attorno al coltello. Senza pensarci lo calo con forza sulla schiena e sul collo di chi ha contribuito a mettermi al mondo.
Quando si accascia sul pavimento m’inginocchio accanto a lui e continuo a pugnalarlo senza pietà. Le parole che ci siamo detti neppure quarantott’ore prima vorticano tra gli spazi della mia mente come vagoni di una giostra senza più controllo.
«Ho bisogno del tuo aiuto, papà.»
«Per cosa?»
«Non ho più notizie della mia ragazza. Pensavo che tu potevi…»
«Chi? La negra? Giace in fondo all’oceano, sempre che non se la siano già mangiata gli squali.»
Strabuzzo gli occhi. La sicurezza con la quale mi fa quella rivelazione mi gela il sangue. La sua totale mancanza di pudore è qualcosa di alieno.
«Che c’è? Perché fai quella faccia? Credevi che non sarei venuto a saperlo?»
Vorrei rispondergli di no, che pensavo fossimo stati attenti nel nascondere la nostra relazione. Evidentemente non è stato così.
«È meglio così, credimi. E non preoccuparti, ti passerà. Ci sono tante ragazze con cui affogare la delusione. Bianche.»
L’ultima parola l’ha pronunciata con gli occhi gonfi d’odio, poi mi ha congedato.
Trascino il corpo senza vita di Theodore Van Linden verso la vasca da bagno. Rido e il suono che scaturisce mi fa accapponare la pelle. Recupero dal fondo l’ascia e la sega, poi vi adagio il cadavere.
Mbali, al nostro primo appuntamento, aveva detto che non era uscita con me solo per fare un dispetto a lui. No, io le piacevo per davvero.
E comunque non si può fare un torto a chi non è mai stato abituato dalla vita a riceverne. Persone del genere, a lungo andare, rischiano di perdere il contatto con la realtà.
Lo guardo. Osservo quello che ho fatto.
Era un uomo tutto d’un pezzo mio padre, ma adesso è giunto il momento di fargli cambiare condotta. Posiziono il suo braccio sul bordo della vasca e impugno la scure. Lo farò a piccoli pezzettini, come con ogni probabilità ha fatto lui con Mbali, poi lo darò in pasto agli squali.
Credo che non sarò più felice, per molto, molto tempo.
Forse non lo sarò mai più.