Il bosco dei verdi misteri
Le ore più appaganti del giorno Peppino le trascorreva conducendo al pascolo le sue capre. Da lontano le osservava correre e arrampicarsi in libertà, mentre seduto sull’erba con le spalle appoggiate al tronco di un albero consumava una colazione frugale. A richiamarle bastava un fischio, ma con loro comunicava soprattutto con le mani quando le accarezzava, prima di mungerle con delicatezza o quando le aiutava a partorire.
Certe volte Peppino si chiedeva se era lui a osservare le capre o loro a tenerlo d’occhio, tanto rapide rispondevano al richiamo.
Ne aveva solo cinque quando aveva deciso di trasferirsi in campagna parecchi anni prima, ormai aveva cinquanta capre, ma le conosceva una per una e loro conoscevano lui.
Chi, per caso l’avesse scorto, trovandosi ad attraversare l’aspra terra alle soglie del bosco di Malabotta, non avrebbe mai immaginato che quel pastore – barba e capelli bianchi, ma agile e arzillo da sembrare senza età – era in effetti l’ingegnere Peppino Milana.
La lunga estate di Rina
“In campagna col nonno, perché? ” domandò Vincenzo.
“Perché là l’estate è più lunga” le risposte della figlia lo sconcertavano.
“È stramba, come suo nonno” diceva Lina “ti pare il caso di affidare una ragazzina di undici anni a un vecchio?”
“Ma dai, solo per qualche giorno, è comprensibile che sia attratta dal posto, dagli animali. Dove la vede una capra in città?”
“Le manca il contatto con animali puzzolenti. Già, una lacuna per la sua educazione.”
“Piuttosto un’esperienza diversa. A volte mi chiedo se non li stressiamo troppo, questi ragazzi, con la scuola, il pianoforte, la piscina, l’inglese. Forse è solo stanca.”
“E va bene, accontentiamola per una volta: domenica la lasciamo col nonno, ma venerdì la riportiamo a casa e non se ne parla più”.
Invece divenne un’abitudine. Una grande gioia per Peppino che sentiva crescere una forte vicinanza affettiva con la nipote; per lei, ogni giorno era una festa. Quante sorprese!
Il nonno conosceva i nomi degli alberi.
Certo Rina sapeva che c’erano gli alberi, ma le sembravano uguali - alberi e basta - ora invece imparava a distinguerli perché li vedeva da vicino e ne osservava le foglie.
“Devi guardare con attenzione, non basta solo vedere per conoscere” diceva il nonno mettendole in mano una foglia di acero e una di faggio “ti sembrano uguali?”
“No, anche a toccarle si sente che sono diverse.”
“Hai ragione, si conosce anche con le mani.”
Una mattina Peppino mostrò alla nipote qualcosa che aveva trovato vicino all’ovile: “Guarda!”
“È pieno di spine, cos’è?”
“Un riccio, puoi prendilo in mano, non punge. Se ne sta accartocciato e immobile perché ha paura; si difende così. Se però ne vedi uno che gli somiglia, ma più grosso e con una specie di coda di lunghe spine, non toccarlo: è un istrice. Quello punge.”
Ogni giorno una scoperta continua; ora il minuscolo trionfo di colori di un’orchidea selvatica, ora una tardiva peonia, ora certe erbe aromatiche che il nonno raccoglieva per dare sapore ai formaggi.
Rina aveva scoperto l’odore del latte appena munto, il sapore dolce della ricotta ancora calda col suo siero e quello aspro e tutto speciale della marmellata di bacche preparata dal nonno.
Intorno ai sessanta anni Peppino Milana avrebbe potuto ritenersi soddisfatto della sua vita. Si era lasciato alle spalle l’infanzia campagnola per perseguire un obiettivo: diventare qualcuno. Laurea, impresa, famiglia, tappa dopo tappa, gli sembrava di aver corso una maratona lunga quarant’anni e se più volte gli era capitato di spintonare qualcuno per farsi avanti, alla fine aveva vinto, conseguendo l’ambito premio: l’ascesa sociale.
Eppure, malgrado il successo e la ricchezza raggiunti, l’ingegnere non era contento e si aggirava inquieto tra le stanze degli ultramoderni uffici della sua impresa edilizia, la più grande della città. Da qualche tempo, sentiva come spine su di sé gli occhi di un esercito di impiegati; anche suo figlio Vincenzo lo osservava allarmato.
“Che hai, papà, non ti senti bene?”
“Sto benissimo” e facendo un gesto ampio girando intorno a sé il braccio “ è che sono stanco di tutto questo.”
“Ma non sei obbligato a restare qui tutto il giorno, ci sono io, puoi fidarti. Riposati, va’ a casa.”
La “casa” era una villa favolosa nell’immediata periferia della città situata accanto a un immobile di quattro piani riservato agli uffici. Sul retro c’erano i capannoni industriali.
Al primo piano della villa Peppino viveva da solo dopo la morte della moglie, al secondo abitava Vincenzo con la moglie Lina e la piccola Rina.
Una sera a cena, Vincenzo confidò alla moglie le sue preoccupazioni.
“Insomma, ha un’età, è ora di passare il testimone” fece Lina, sperando di liquidare la questione.
“Ma sta prendendo una brutta piega, vedi che ora non viene nemmeno a cena? Vado a chiamarlo.”
Lo trovò sdraiato sul letto con gli occhi rivolti al soffitto.
“Papà, vieni a mangiare, ti stiamo aspettando.”
“Non ho fame, non mi aspettate.”
“Ma si può sapere che cosa hai?”
“Non è facile da dire, va’ a mangiare, tranquillo.”
“E no! Ora parliamo. Dimmi che c’è.”
“C’è che mi sento un uomo di mezzo.”
“Cioè, cosa intendi dire?”
“Che non appartengo al secolo scorso e nemmeno al duemila. Mi sembrano due mondi diversi e tutto è cambiato troppo in fretta. Non mi raccapezzo più.”
Quando Vincenzo rientrò in sala da pranzo: “Allora viene o no?” domandò Lina.
“Non viene”.
“Va bene. Mangiamo prima che si raffreddi tutto, ma che gli prende?”
“E chi lo sa? Dice di sentirsi un uomo di mezzo.”
“Cosa? Che significa?”
“In un certo senso lo capisco; ha sempre cercato di adeguarsi al passo dei tempi, ma ora non si parla che di crisi energetica, crisi ambientale, intelligenza artificiale e lui stenta a capire, non ce la fa più.”
“In ditta va tutto bene? Ci sono problemi?”
“Grossi no, di ordinaria amministrazione. Restiamo sempre tra le più grandi imprese a livello globale nell’esportazione di materiali edili, vinciamo tutte le gare d’appalto e nei nostri uffici si lavora con i computer di ultima generazione e tuttavia sì, percepiamo segnali di crisi.”
“La verità è che tuo padre sta invecchiando, magari gli sta venendo qualche malattia del cervello. Perché non lo fai vedere da un geriatra?”
“Ma dai, è solo un brutto momento. Passerà.”
Invece no. Non si trattava di una crisi passeggera. Qualcosa di più profondo andava maturando nei pensieri dell’ingegnere, che una sera sintetizzò il frutto delle sue elucubrazioni comunicando ai suoi cari la decisione: “ Vado a stare in campagna.”
“A fare cosa?” domandò Lina.
“Ho fatto l’ingegnere, ora voglio fare il pastore.”
“Non ci sta più con la testa.” Commentò la nuora.
In famiglia decisero di farlo visitare, temendo un declino fisico e cognitivo, ma i medici assicurarono che l’uomo stava benissimo e possedeva una fibra eccezionale: “Camperà cent’anni!” aveva pronosticato l’illustre geriatra.
In paese lo avevano ribattezzato Mastru Peppino, perché i contadini della zona lo avevano visto ristrutturare con le sue mani il vecchio casolare di famiglia e l’ovile.
Da ingegnere a mastru poteva sembrare una retrocessione, ma Peppino lo considerava un avanzamento perché, dedicandosi alla terra oltre all’allevamento delle capre, aveva trovato appagamento in un modello arcaico di vita.
“Non sempre ciò che viene dopo è progresso” era solito dire.
Per Rina era solo suo nonno, le piaceva quel casolare tra i boschi, le sembrava affascinante quella vita così diversa da quella cittadina.
Le giornate cominciavano presto e scorrevano senza fretta tra gesti e passi lenti - niente a che vedere con le ore convulse dei giorni in città - perché la natura ha tempi lunghi e un frutto non matura in un giorno.
In campagna si respirava al ritmo della natura. Bastava sdraiarsi a terra per sentirne il respiro, lasciando fluire i pensieri sotto quel cielo così blu da venir voglia di nuotarci dentro.
“Non ti annoi in campagna, da sola con tuo nonno, non ti mancano i compagni di scuola?” chiedeva la madre.
“Non sono sempre sola, c’è anche Gino.”
“E chi è?”
“Il figlio del compare.”
“Dio, parla come una contadina” si lamentava Lina col marito, “ma chi è questo Gino?”
“ Uno dei sei figli del compare Pietro, un amico d’infanzia di mio padre.”
“Anche tu con ‘sto compare?”
“È un modo di dire. In paese siamo tutti compari.”
Vincenzo sapeva del casolare dove viveva compare Pietro. Sapeva che Peppino e Pietro si conoscevano da sempre. Si erano ritrovati con reciproco piacere e spesso si aiutavano l’un l’altro nelle piccole incombenze della vita quotidiana.
Lina era sconcertata. Sua figlia rubava ore preziose allo studio per trascorrerle in compagnia di un vecchio e di una banda di mocciosi, animandosi tutta nel racconto di corse e giochi con i nuovi compagni e con quel Gino, che pareva l’amico del cuore.
“Di bene in meglio, non poteva trovare amici più adatti. Non ti preoccupano queste scorribande tra sentieri rupestri, ambienti torrentizi e il bosco. Non è pericoloso?”
“No, no, non corre alcun rischio. Quei ragazzi sono addestrati, imparano a difendersi fin da piccoli, Gino poi ha quasi quindici anni, non si può considerare un bambino.”
“Non ci sono parole” commentò Lina sempre più allarmata “stiamo affidando una bambina a un vecchio rimbecillito e a un ragazzo ignorante. E dove poi? In campagna in mezzo ai boschi.”
“Non del tutto ignorante, Gino ha frequentato le medie; sembra molto intelligente, insomma promette bene.”
“Ah, allora! Non ci sono problemi, ma che siamo pazzi davvero?” Rina doveva essere allontanata. Mandarla a studiare all’estero, poteva essere la soluzione.
Il bosco di Malabotta
Fino all’età di undici anni, per Rina come per molti bambini di città, il bosco era il luogo delle fiabe, al più ne aveva visto immagini sui libri o qualche volta al cinema, ma rimaneva incantata ad ascoltare quando Gino raccontava di percorsi avventurosi.
“Il bosco è un paese di verdi misteri” aveva sentito dire dal nonno, invece pareva non avesse segreti per quel ragazzo dai capelli incolti come un cespuglio.
Lui conosceva il silenzio del bosco e i suoi rumori. Il buio del giorno quando il fogliame è così fitto da non far trapelare i raggi del sole e quello minaccioso del crepuscolo che anticipa la notte.
“Non hai paura?”
“Dei caprioli, dei gatti selvatici?”
“Degli animali.”
“Che ti immagini il lupo di cappuccetto rosso? Qui ci sono volpi, donnole, istrici, sono loro che hanno paura, se sentono che ti avvicini. Falchi e Poiane, volano alto.
Gino teneva in gabbia un allocco ferito a un’ala per curarlo: “Se vuoi, te lo mostro.”
“Che occhi!” fece Rina a vederlo.
“Occhi che vedono al buio” scherzò lui.
“Davvero?”
“Al buio fitto no, ma la sua pupilla è fatta per catturare più luce possibile.”
“Ha gli occhi tondi come te.”
“Ma l’allocca sei tu” rise.
Le piaceva quando rideva; aveva labbra piene e denti bianchissimi. Gino parlava degli animali del bosco: “Sai?” le diceva “sembra tutto fermo e invece tutto si muove.”
A un certo punto, Rina aveva detto: “ Voglio vederlo anch’io il bosco.”
“Un giorno ci andiamo, te lo prometto. Non è lontana da qui la riserva naturale, ci arriva una strada che porta al sentiero principale e il cancello è quasi sempre aperto. A Malabotta ci sono enormi alberi meravigliosi con tronchi così grossi che non riesci ad abbracciarli, li chiamano i patriarchi del bosco e per arrivare alla riserva si attraversa un luogo misterioso. È l’Argimusco, lì ci sono i dolmen, rocce gigantesche dalle forme strane, disegnate nei millenni dal vento e dalla pioggia.”
Aveva mantenuto la promessa.
Una mattina Gino, i suoi fratelli e Rina si erano spinti tra il fiume Alcantara e l’inizio del parco dei Nebrodi, ma non andarono oltre. Si era fatto tardi e bisognava fare ritorno al casolare.
Affascinata da quel mondo incantato, appena intravisto, lei aveva chiesto: “Ci torniamo qui?”
“Sì, ci torniamo.”
Ci tornarono da soli.
Peppino e Pietro erano uomini di poche parole; vedevano crescere i loro ragazzi e li guardavano compiaciuti.
In due anni Gino era già alto come un uomo e Rina aveva perso quell’aria da maschiaccio che dispiaceva tanto a sua madre. Stavano sempre più spesso insieme; sguardi e gesti d’intesa non sfuggivano ai vecchi amici.
“Sembrano fatti apposta l’uno per l’altra” disse Pietro, mentre aiutava l’amico a spaccare legna, indicando col mento i ragazzi che si allontanavano dal casolare in cerca di more.
“Già, gli piacciono le stesse cose.”
“Chissà” fece Pietro.
“Se son rose… si dice così? ” sussurrò Peppino.
Ma l’incanto finì presto, quando una mattina Lina mostrò a suo marito le mutandine della “bambina”.
“Che c’è?” domandò lui.
“Non vedi? È sangue.”
“Sta diventando donna, ha le sue cose?”
“Ho paura di no.”
Aveva ragione; nei mesi successivi non comparvero tracce di sangue nelle mutandine di Rina. Lina aveva intuito cosa era capitato alla figlia, ma ne ebbe conferma leggendo una pagina del suo diario.
“Un motivo in più per spedirla in Inghilterra senza se e senza ma” sentenziò. Così fu.
Al college era andata controvoglia, ma poi Rina si adattò alla nuova vita e rimase a Londra.
A metà del terzo millennio, i miti d’inizio secolo - salutati con gioia e fiducia nel progresso - s’erano rivelati non solo illusori, ma nocivi per via dello sfruttamento sconsiderato delle risorse energetiche.Ne sveva fatto le spese l’ambiente; l’impazzimento del clima causava l’alternarsi di siccità e allagamenti, lo scioglimento dei ghiacciai, la riduzione e talvolta la scomparsa di foreste. Distrutti da incendi dolosi e non, anno dopo anno sempre più alberi sparivano, depauperando la terra delle radici e dando luogo a frane sempre più frequenti.
Il pianeta stava invecchiando e non c’erano scienziati capaci di scoprire cure di ringiovanimento; le nuove risorse dell’intelligenza artificiale impotenti a risolvere le crisi in ogni campo; inetti i politici e le organizzazioni internazionali.
Metà della vita di Rina era trascorsa a Londra ed era ormai una perfetta signora inglese. Era vissuta lontano dalla Sicilia, ma quando ebbe modo di tornarvi per i funerali della madre, d’improvviso si sentì catapultata nel passato.
Sospinta dalla forza dei ricordi a rivisitare i luoghi della sua infanzia, Rina era tornata alla casa del nonno.
Sapeva che era morto molto prima che una grossa frana distruggesse il casolare, ora ridotto a rudere, ma desiderava rivedere quei luoghi e farli conoscere alla figlia Martina, anche se la stagione non era la più propizia.
Una strana visita
“Aspettiamo che smetta di nevicare almeno. Guarda, esce del fumo dal camino. Dev’esserci qualcuno, proviamo a ripararci dentro.” Entrarono: “ Permesso, c’è qualcuno?”
Si trovarono di fronte a una scena inaspettata.
Una tavola di legno grossolano, fatta con tronchi d’albero segati, era coperta da una tovaglia. Sopra c’erano funghi arrostiti, focacce ripiene di verdure selvatiche e formaggi.
“Accomodatevi pure” disse senza voltarsi l’uomo intento a riattizzare il fuoco “vi aspettavo; in paese si parla molto di voi.” Si voltò, si tolse il grembiule a quadri e aggiunse: “Io ho già mangiato, ma vi faccio compagnia, vi verso il vino. Se continua a nevicare, potete dormire qui.”
C’era qualcosa di strano nei gesti e nel tono familiare delle parole; la presenza stessa del vecchio nel rudere abbandonato era insolita, Rina continuava a fissare la faccia incartapecorita come se le ricordasse qualcosa di molto lontano.
Sedettero e mangiarono.
Martina faceva finta di niente, ma anche lei era rimasta turbata dalla vista dell’uomo. Si capiva dal silenzio, piombato come una coltre di nebbia su di loro. Per superare l’imbarazzo, Rina propose di fare un giro nel bosco a raccogliere un po’ di legna per il camino; quella accatastata di scorta non sarebbe bastata per una notte molto fredda.
“Ma davvero vuoi restare qui stanotte?”
“Dove vuoi andare con le strade gelate? Ce ne andremo domattina. Copriti bene e usciamo, dev’essere bellissimo là fuori!”
“Ma se sta nevicando!”
“Guarda, non nevica più; era nevischio e si è sciolto. Dopo tutto non è stagione di neve.”
Uscirono.
C’era nel bosco un’atmosfera magica per l’oro e il rame che l’autunno inoltrato regalava alle foglie, ma gli alberi non erano fitti come un tempo e niente era come Rina ricordava, anzi percepiva qualcosa di inquietante. Allarmata dal calpestio di scarponi sulle foglie secche: «Ascolta! C’è qualcuno» disse a Martina.
L’uomo indossava abiti da montanaro e un berretto che non riusciva a trattenere ciuffi di capelli incolti come cespugli; teneva in mano un cesto di more. Venendogli incontro domandò: “Da dove venite?”
“Dalla casupola lassù” rispose Martina.
“Ah, ‘u pagghiaru di zi’Peppino. ‘A casa rossa” fece quello.
“Credo di sì. Forse si riferisce al vecchietto con i capelli bianchi che indossa un grembiule a quadri?”
“Non so di che vecchio parla. Ma un uomo molto anziano ha abitato davvero in quella casa, perciò la chiamiamo così.”
“E adesso dove abita?”
“Al cimitero, signora. Sto parlando di decenni fa.”
A Martina il bosco faceva paura: “Mamma andiamo!”
Raggiunsero quasi correndo la radura dove era parcheggiato il fuoristrada e - neanche fossero inseguite dai fantasmi - volarono via lungo la trazzera che correva nell’altopiano.
Mai parlarono dell’avventura tra i boschi; Martina cercò di cancellarla dalla memoria; quanto a Rina si convinse che era giunto il tempo di dimenticare l’infanzia.
Non serve lasciarsi assalire dai ricordi e inseguirli è inutile come tentare di afferrare l’ombra di qualcosa che non c’è più. Quando scompaiono gli alberi, anche la loro ombra scompare.