Se un uomo sogna perché ha un desiderio, non è possibile che rimanga inascoltato. Non si può non tendere l’orecchio alla sua preghiera. Se una creatura lascia entrare nella sua vita radici e rami che si allungano verso la sua finestra, e l’acqua che si trascina sotto i ponti, e l’aria tra i capelli, allora è possibile che qualcuno ascolti i suoi desideri e li avveri.
Io sono Terra, sono Madre, perché nutro senza fare distinzioni e senza preferenze. La necessità è l'unica legge che conosco, se così non fosse sarei scomparsa miliardi di anni fa.
Sono padrona dello spazio e del tempo. I miei occhi sono le foglie degli alberi, le mie mani sono fatte di vento con cui plasmo le cose. La cascata urla, la rugiada mi sussurra. Se mi attraversa un uragano, sono come una donna dopo una nottata insonne. Se mi scuote un terremoto, sembro il letto sfatto dove ha dormito. Cerco riposo voltando una faccia al Sole e la notte stende sopra di me il suo morbido telo.
La Luna mi rischiara e anche al buio vedo quello che succede. Ma è all’Astro Lucente che sono debitrice, perché con la sua luce mi feconda, senza di lui nulla sarebbe pensabile, la vita impossibile. Sono fatta di roccia e foreste, di fiumi e di mari, di deserto e di sete, ho un cuore pulsante come gli abitanti che vivono sopra di me.
Eppure, non sempre mi si dice tutto e non sempre riesco ad arrivare ovunque.
Lo rividi una mattina di fine inverno. Trascinava i piedi con passo stanco, sembrava più minuto e smunto di come lo ricordassi. Portava una barba incolta che gli ingrigiva il viso e vestiti troppo larghi per essere suoi. Non sembrava più né giovane né vecchio, solo le spalle erano curve.
Non avevo dimenticato la sua esistenza, difficilmente mi sfugge una nascita o una morte. E poi quell’uomo aveva avuto, da sempre, qualcosa di curioso che aveva destato la mia attenzione, come una forza gravitazionale più forte che negli altri, che lo attirava verso il centro del mio essere.
Era da poco uscito di prigione. Era entrato con l’accusa di omicidio. L’avevano trovato in una strada buia con un coltello in mano, davanti a un corpo senza vita, le mani insanguinate senza una ragione. Per dimostrare la sua innocenza erano stati necessari dieci anni, quando il fratello della vittima, prima di morire, aveva confessato. Era tornato libero, con qualche tatuaggio in più per coprire le nuove cicatrici.
Stava seduto all’ombra di un albero sopra una panchina, nei pressi di una stazione chiusa al passaggio dei treni. Ci andavano a giocare i bambini che abitavano qualche isolato più in là, con i loro carretti di cartone con quattro ruote sotto. Li spingevano a perdifiato sopra i binari verso una destinazione che non era mai la stessa. Li sentivo pronunciare nomi che neppure nell’angolo più remoto dei miei emisferi avevo mai sentito e la cosa mi divertiva molto. Lo chiamavano il Passeggero, con la malvagità che a volte anche i bambini riescono ad avere.
«Adesso che non stai più in prigione, dove vorresti andare? Te lo paghiamo noi il biglietto» e ridevano dandosi spintarelle. L’uomo non sembrava ascoltarli, immerso in chissà quali pensieri.
Era una persona semplice, che non riusciva a fare del male a nessuno e tanto meno a comprendere il valore del bene. Viveva di arte e di genio, era un pittore, per questo bastava a se stesso.
Un giorno venne con il cavalletto e i colori. Aveva tastato a lungo il suolo, spostandosi a piccoli passi fino a trovare un pezzetto senza buche o pendenze, dove collocarsi e cercare la giusta angolazione.
Mi sono sempre piaciuti gli artisti. Quelli che cercano di fissare la bellezza del creato che ospito per mostrare, a chi ancora non si rende conto, le meraviglie del pianeta in cui vivono.
Mi faccio bella per chi mi dipinge, sono specializzata, modestamente, nell’abbinare i colori. Indosso mantelli di neve, mi vesto di raggi allungati in un tramonto, divento scura per il cielo plumbeo sopra il mare in burrasca.
Amo i danzatori che seguono i passi del corteggiamento degli animali, i musicisti che imitano il linguaggio degli uccelli e gli scrittori che riempiono pagine per spiegare, con parole, l’inspiegabile.
Il mio uomo iniziava i suoi quadri colorando le ombre, macchie grigie o violacee, partiva da quelle per continuare dov’era la luce ma non sempre raffigurava la realtà.
Il buio predominava con il suo carico di mistero e cercava di allargarsi dove era il colore per diventare, senza ombreggiamenti, luminoso e nitido. Non avevo mai visto nessuno disegnare come lui, scavava nel torbido per arrivare al chiarore.
Per lui l’ombra era il sangue della luce, una ferita aperta da cui sgorgava la vita.
Quella volta si fermò più a lungo, i bambini avevano smesso di giocare e gli stavano intorno. Mi fece il ritratto più somigliante che qualcuno abbia mai realizzato. Mi ritrasse con il volto di tre donne, la prima di fronte e le altre due ai lati, di tre quarti. Un velo azzurro, picchiettato di pietre preziose e topazi ci copriva il capo, lasciando nude le mani intrecciate. Nello sguardo di quelle donne c’era tutta la mia storia, dalla comparsa, fino all’ultimo granello di polvere quando l’universo si sarebbe dissolto.
Ero bellissima e così mi presentò: «Ecco mia Madre» lo sentii dire ad alta voce, lui che non parlava mai. Lo fece come se fosse convinto che non solo i bambini lo stessero ascoltando.
Le sue parole mi toccarono talmente tanto, fino a commuovermi e, per alcuni giorni, venne giù una leggera pioggia a rigarmi il volto.
Stava sempre solitario e taciturno, ma poi incontrò l’unico essere possibile con cui realizzare la sua storia.
Era un piccolo uccello, un incrocio tra una cinciallegra, un usignolo di fiume e un cardellino, uno di quelli che compaiono una volta ogni trecento anni.
Aveva le piume gialle sul dorso e sulla gola, quelle della coda e delle ali erano grigio bluastre, le guance bianche e il capo striato di tutti i colori. I riflessi sembravano trasparenze di ambra e di giada, era la perfezione concentrata dentro il palmo di una mano, un corpicino da cui si sprigionava, tra gorgheggi e acuti, un canto melodioso.
Per sua sfortuna venne catturato e venduto di contrabbando a un collezionista dall’udito finissimo, un tipo robusto, sempre sudato e con qualche anello di troppo. Era stato imprigionato in una gabbia, con l’unico scopo di deliziare il suo padrone. Un giorno il nipote, venuto dalla città, incuriosito dal canto triste, chiese: «Nonno, perché lo tieni chiuso e non lo lasci volare?» Prima che il grassone rispondesse, aveva aperto la gabbia, e incoraggiato l’incredulo pennuto verso la libertà. A volte solo i bambini sono capaci di gesti gratuitamente eroici.
Fu inutile il goffo tentativo di riacciuffare l’uccello, una finestra aperta gli aveva regalato ciò che gli era dovuto. Il gesto aveva scatenato l’ira del nonno ma, alla fine, era il nipote preferito e aveva dovuto pazientare.
Ma riconquistata la libertà, l’animale sembrava avesse dimenticato che uso farne.
Era come impazzito, fuggiva veloce verso ogni direzione, impaurito sbatteva sulle vetrine dei negozi, sui vetri delle case, su qualsiasi superficie riflettesse la sua immagine.
Lo trovarono i bambini ai piedi della vetrata della stazione fantasma, ferito, con il becco sanguinante e un’ala rotta.
«È morto?»
«Ma no, respira ancora.»
«Che gli è successo?»
«Mio padre dice che alcuni uccelli fanno così, se si vedono riflessi. Pensano di essere attaccati da un rapace e per difendersi gli vanno contro. Sbattono la testa e muoiono».
«Poveretto.»
«Diamogli l’acqua.»
«E che gli fa, non lo vedi che è ferito?»
«Portiamolo dal Passeggero, prima che un gatto se lo mangi» giunsero tutti alla stessa conclusione, facendo sperare in bene per il futuro dell’umanità.
Quando glielo portarono e gli raccontarono la sua storia, l'uomo pensò a quante volte si era trovato nella stessa situazione. Di quando, guardandosi allo specchio, aveva visto un estraneo a cui era capitato un destino diverso dal suo, ma che aveva dovuto condividere. Era diventato, senza saperlo, la causa del suo stesso male, il rivale peggiore di se stesso. Combatteva con un nemico allo specchio, pensando che fosse fuori. Si proteggeva e invece rischiava di farsi un male peggiore.
L’uomo lo prese tra le mani chiuse a culla e l’uccello, con un fremito rassegnato, abbandonò tutta la sua stanchezza. Non so come abbiano fatto a riconoscersi, come abbiano sentito di aver vissuto un’uguale esperienza. È questa l’inspiegabile bellezza, la conferma che tutte le creature sono mosse dagli stessi sentimenti, dalle stesse emozioni.
Lo portò a casa sua e si prese cura di lui più che di se stesso.
Gli diede da mangiare dalle sue mani, lo lasciò dormire nel suo palmo, lo nutrì di insetti e di semi, gli guarì l’ala. L’animaletto lo seguiva ovunque andasse, con piccoli saltelli, come fanno i bambini d’estate sulla sabbia bollente, cercando riparo sotto gli ombrelloni. Riprese a cantare come non aveva mai fatto, con più voce e con sempre nuove melodie. E come spesso accade, la guarigione avvenne per entrambi.
Quando fu in grado di volare, e libero di andare o restare, l’uccello restò. Non per gratitudine ma per scelta di felicità.
Quando l’uomo, con il cavalletto e i colori, cercava un posto da dipingere, dal ramo più vicino gli faceva compagnia con le sue melodie sempre diverse, balsamo per tutte le ferite. Finché un giorno decise di dipingere tutta la bellezza di quell’essere così piccolo ma così potente. E per farlo, oltre alla meraviglia del suo piumaggio colorato, decise di disegnare anche il suo canto. Era quello il motivo per cui si erano incontrati, per realizzare l’impossibile desiderio a cui aspirava, la riproduzione del suono sulla tela.
Prese il pennello più sottile che avesse, dal diametro di un filo di capello, sottile quanto una ragnatela. Come se l’uccello sapesse, sembrava dettargli le note, senza fretta e con la pazienza con cui si insegna a un bambino a scrivere. A ogni pennellata, dal colore usciva una nota, un concerto a più mani che continuò finché ogni suono fu dipinto. Una melodia dolcissima, simile al canto degli angeli, si sprigionò dalla tela. Non so ancora spiegarmi come sia stato possibile, ma sono testimone che la cosa avvenne. Era riuscito a disegnare il canto dell’uccello, ogni nota era fissata nei colori che, come un pentagramma, erano visibilmente udibili.
Il mio uomo, o come lo chiamavano i bambini, il Passeggero, aveva capito davvero quello che tutti i miei abitanti dovrebbero ricordare, che sono passeggeri che attraversano, come meteore, lo spazio infinito, ma che il loro passaggio può lasciare una luce.
Il quadro esiste e fa parte della mia collezione privata. Il luogo e il tempo della sua creazione rimarranno segreti, perché certe cose sono troppo intime per essere condivise.
Io sono Terra, sono Madre, perché nutro senza fare distinzioni e senza preferenze. La necessità è l'unica legge che conosco, se così non fosse sarei scomparsa miliardi di anni fa.
Sono padrona dello spazio e del tempo. I miei occhi sono le foglie degli alberi, le mie mani sono fatte di vento con cui plasmo le cose. La cascata urla, la rugiada mi sussurra. Se mi attraversa un uragano, sono come una donna dopo una nottata insonne. Se mi scuote un terremoto, sembro il letto sfatto dove ha dormito. Cerco riposo voltando una faccia al Sole e la notte stende sopra di me il suo morbido telo.
La Luna mi rischiara e anche al buio vedo quello che succede. Ma è all’Astro Lucente che sono debitrice, perché con la sua luce mi feconda, senza di lui nulla sarebbe pensabile, la vita impossibile. Sono fatta di roccia e foreste, di fiumi e di mari, di deserto e di sete, ho un cuore pulsante come gli abitanti che vivono sopra di me.
Eppure, non sempre mi si dice tutto e non sempre riesco ad arrivare ovunque.
Lo rividi una mattina di fine inverno. Trascinava i piedi con passo stanco, sembrava più minuto e smunto di come lo ricordassi. Portava una barba incolta che gli ingrigiva il viso e vestiti troppo larghi per essere suoi. Non sembrava più né giovane né vecchio, solo le spalle erano curve.
Non avevo dimenticato la sua esistenza, difficilmente mi sfugge una nascita o una morte. E poi quell’uomo aveva avuto, da sempre, qualcosa di curioso che aveva destato la mia attenzione, come una forza gravitazionale più forte che negli altri, che lo attirava verso il centro del mio essere.
Era da poco uscito di prigione. Era entrato con l’accusa di omicidio. L’avevano trovato in una strada buia con un coltello in mano, davanti a un corpo senza vita, le mani insanguinate senza una ragione. Per dimostrare la sua innocenza erano stati necessari dieci anni, quando il fratello della vittima, prima di morire, aveva confessato. Era tornato libero, con qualche tatuaggio in più per coprire le nuove cicatrici.
Stava seduto all’ombra di un albero sopra una panchina, nei pressi di una stazione chiusa al passaggio dei treni. Ci andavano a giocare i bambini che abitavano qualche isolato più in là, con i loro carretti di cartone con quattro ruote sotto. Li spingevano a perdifiato sopra i binari verso una destinazione che non era mai la stessa. Li sentivo pronunciare nomi che neppure nell’angolo più remoto dei miei emisferi avevo mai sentito e la cosa mi divertiva molto. Lo chiamavano il Passeggero, con la malvagità che a volte anche i bambini riescono ad avere.
«Adesso che non stai più in prigione, dove vorresti andare? Te lo paghiamo noi il biglietto» e ridevano dandosi spintarelle. L’uomo non sembrava ascoltarli, immerso in chissà quali pensieri.
Era una persona semplice, che non riusciva a fare del male a nessuno e tanto meno a comprendere il valore del bene. Viveva di arte e di genio, era un pittore, per questo bastava a se stesso.
Un giorno venne con il cavalletto e i colori. Aveva tastato a lungo il suolo, spostandosi a piccoli passi fino a trovare un pezzetto senza buche o pendenze, dove collocarsi e cercare la giusta angolazione.
Mi sono sempre piaciuti gli artisti. Quelli che cercano di fissare la bellezza del creato che ospito per mostrare, a chi ancora non si rende conto, le meraviglie del pianeta in cui vivono.
Mi faccio bella per chi mi dipinge, sono specializzata, modestamente, nell’abbinare i colori. Indosso mantelli di neve, mi vesto di raggi allungati in un tramonto, divento scura per il cielo plumbeo sopra il mare in burrasca.
Amo i danzatori che seguono i passi del corteggiamento degli animali, i musicisti che imitano il linguaggio degli uccelli e gli scrittori che riempiono pagine per spiegare, con parole, l’inspiegabile.
Il mio uomo iniziava i suoi quadri colorando le ombre, macchie grigie o violacee, partiva da quelle per continuare dov’era la luce ma non sempre raffigurava la realtà.
Il buio predominava con il suo carico di mistero e cercava di allargarsi dove era il colore per diventare, senza ombreggiamenti, luminoso e nitido. Non avevo mai visto nessuno disegnare come lui, scavava nel torbido per arrivare al chiarore.
Per lui l’ombra era il sangue della luce, una ferita aperta da cui sgorgava la vita.
Quella volta si fermò più a lungo, i bambini avevano smesso di giocare e gli stavano intorno. Mi fece il ritratto più somigliante che qualcuno abbia mai realizzato. Mi ritrasse con il volto di tre donne, la prima di fronte e le altre due ai lati, di tre quarti. Un velo azzurro, picchiettato di pietre preziose e topazi ci copriva il capo, lasciando nude le mani intrecciate. Nello sguardo di quelle donne c’era tutta la mia storia, dalla comparsa, fino all’ultimo granello di polvere quando l’universo si sarebbe dissolto.
Ero bellissima e così mi presentò: «Ecco mia Madre» lo sentii dire ad alta voce, lui che non parlava mai. Lo fece come se fosse convinto che non solo i bambini lo stessero ascoltando.
Le sue parole mi toccarono talmente tanto, fino a commuovermi e, per alcuni giorni, venne giù una leggera pioggia a rigarmi il volto.
Stava sempre solitario e taciturno, ma poi incontrò l’unico essere possibile con cui realizzare la sua storia.
Era un piccolo uccello, un incrocio tra una cinciallegra, un usignolo di fiume e un cardellino, uno di quelli che compaiono una volta ogni trecento anni.
Aveva le piume gialle sul dorso e sulla gola, quelle della coda e delle ali erano grigio bluastre, le guance bianche e il capo striato di tutti i colori. I riflessi sembravano trasparenze di ambra e di giada, era la perfezione concentrata dentro il palmo di una mano, un corpicino da cui si sprigionava, tra gorgheggi e acuti, un canto melodioso.
Per sua sfortuna venne catturato e venduto di contrabbando a un collezionista dall’udito finissimo, un tipo robusto, sempre sudato e con qualche anello di troppo. Era stato imprigionato in una gabbia, con l’unico scopo di deliziare il suo padrone. Un giorno il nipote, venuto dalla città, incuriosito dal canto triste, chiese: «Nonno, perché lo tieni chiuso e non lo lasci volare?» Prima che il grassone rispondesse, aveva aperto la gabbia, e incoraggiato l’incredulo pennuto verso la libertà. A volte solo i bambini sono capaci di gesti gratuitamente eroici.
Fu inutile il goffo tentativo di riacciuffare l’uccello, una finestra aperta gli aveva regalato ciò che gli era dovuto. Il gesto aveva scatenato l’ira del nonno ma, alla fine, era il nipote preferito e aveva dovuto pazientare.
Ma riconquistata la libertà, l’animale sembrava avesse dimenticato che uso farne.
Era come impazzito, fuggiva veloce verso ogni direzione, impaurito sbatteva sulle vetrine dei negozi, sui vetri delle case, su qualsiasi superficie riflettesse la sua immagine.
Lo trovarono i bambini ai piedi della vetrata della stazione fantasma, ferito, con il becco sanguinante e un’ala rotta.
«È morto?»
«Ma no, respira ancora.»
«Che gli è successo?»
«Mio padre dice che alcuni uccelli fanno così, se si vedono riflessi. Pensano di essere attaccati da un rapace e per difendersi gli vanno contro. Sbattono la testa e muoiono».
«Poveretto.»
«Diamogli l’acqua.»
«E che gli fa, non lo vedi che è ferito?»
«Portiamolo dal Passeggero, prima che un gatto se lo mangi» giunsero tutti alla stessa conclusione, facendo sperare in bene per il futuro dell’umanità.
Quando glielo portarono e gli raccontarono la sua storia, l'uomo pensò a quante volte si era trovato nella stessa situazione. Di quando, guardandosi allo specchio, aveva visto un estraneo a cui era capitato un destino diverso dal suo, ma che aveva dovuto condividere. Era diventato, senza saperlo, la causa del suo stesso male, il rivale peggiore di se stesso. Combatteva con un nemico allo specchio, pensando che fosse fuori. Si proteggeva e invece rischiava di farsi un male peggiore.
L’uomo lo prese tra le mani chiuse a culla e l’uccello, con un fremito rassegnato, abbandonò tutta la sua stanchezza. Non so come abbiano fatto a riconoscersi, come abbiano sentito di aver vissuto un’uguale esperienza. È questa l’inspiegabile bellezza, la conferma che tutte le creature sono mosse dagli stessi sentimenti, dalle stesse emozioni.
Lo portò a casa sua e si prese cura di lui più che di se stesso.
Gli diede da mangiare dalle sue mani, lo lasciò dormire nel suo palmo, lo nutrì di insetti e di semi, gli guarì l’ala. L’animaletto lo seguiva ovunque andasse, con piccoli saltelli, come fanno i bambini d’estate sulla sabbia bollente, cercando riparo sotto gli ombrelloni. Riprese a cantare come non aveva mai fatto, con più voce e con sempre nuove melodie. E come spesso accade, la guarigione avvenne per entrambi.
Quando fu in grado di volare, e libero di andare o restare, l’uccello restò. Non per gratitudine ma per scelta di felicità.
Quando l’uomo, con il cavalletto e i colori, cercava un posto da dipingere, dal ramo più vicino gli faceva compagnia con le sue melodie sempre diverse, balsamo per tutte le ferite. Finché un giorno decise di dipingere tutta la bellezza di quell’essere così piccolo ma così potente. E per farlo, oltre alla meraviglia del suo piumaggio colorato, decise di disegnare anche il suo canto. Era quello il motivo per cui si erano incontrati, per realizzare l’impossibile desiderio a cui aspirava, la riproduzione del suono sulla tela.
Prese il pennello più sottile che avesse, dal diametro di un filo di capello, sottile quanto una ragnatela. Come se l’uccello sapesse, sembrava dettargli le note, senza fretta e con la pazienza con cui si insegna a un bambino a scrivere. A ogni pennellata, dal colore usciva una nota, un concerto a più mani che continuò finché ogni suono fu dipinto. Una melodia dolcissima, simile al canto degli angeli, si sprigionò dalla tela. Non so ancora spiegarmi come sia stato possibile, ma sono testimone che la cosa avvenne. Era riuscito a disegnare il canto dell’uccello, ogni nota era fissata nei colori che, come un pentagramma, erano visibilmente udibili.
Il mio uomo, o come lo chiamavano i bambini, il Passeggero, aveva capito davvero quello che tutti i miei abitanti dovrebbero ricordare, che sono passeggeri che attraversano, come meteore, lo spazio infinito, ma che il loro passaggio può lasciare una luce.
Il quadro esiste e fa parte della mia collezione privata. Il luogo e il tempo della sua creazione rimarranno segreti, perché certe cose sono troppo intime per essere condivise.