La prima volta che Tomislav vide Jerina era un giorno d’ottobre.
La ragazza era seduta con le gambe penzoloni su un muricciolo non distante dell’unico bar del villaggio e stava assaporando un gelato.
Ne strofinava la parte esterna sulla lingua e le labbra per arrotondarlo e con la punta della lingua raccoglieva le gocce che scivolavano sulla cialda. Poi, tenendo fermo il cono davanti alla bocca, piegava la testa su e giù e continuava a leccare tutto intorno. Quando il gelato era a metà se lo ficcava in bocca, succhiandolo con voluttà a occhi semichiusi.
Tomislav rimase a guardarla incantato.
Di colpo non si sentiva più giovane, preso da una nostalgia vaga, come capita nel vedere ciò che si sa di non poter mai avere e neanche desiderare. Lei, tra i tredici e i quindici anni, era come solo le adolescenti sanno essere, seduttiva e inarrivabile.
Quando la ragazza si accorse dell’uomo seduto a una decina di passi da lei, saltò giù dal muricciolo e si avvicinò.
«Scusi… non l’avevo visto» disse, ostentando un certo imbarazzo.
C’era della malizia in quell’ingenuità. Tomislav sospettò d’avere assistito a una scena recitata a suo beneficio e sentì il cuore accelerare. Si alzò.
«Non avevo mai visto apprezzare tanto un gelato.»
Jerina lo guardò con un’espressione radiosa.
«Piace anche a lei?» gli chiese, entusiasta.
«Cosa?»
«Il gelato allo zafferano» rispose e il viso si aprì in un sorriso stupendo.
«In realtà lo detesto.»
«Come si fa a detestare un gusto così raffinato?»
«Il fatto è che per me significa fatica. Lavoro nell’azienda Bajlavi e di zafferano ne ho fin sui capelli.»
Lei fece la faccia buffa e Tomislav pensò di aver detto qualcosa di sbagliato. Per superare l’attimo di imbarazzo, estrasse da una tasca un pacchetto di sigarette e ne accese una.
«Posso averne una anch’io?»
Lui le porse il pacchetto e la ragazza si servì.
«Lei non è di Klapčići, vero?»
«No. Sono di Lubiana.»
«Non ci sono mai stata; mi piacerebbe visitarla. Dicono che… » si mise a parlare per un pezzo, senza fermarsi.
Tomislav la guardava senza ascoltare. A un certo punto la interruppe.
«Scusi, io la conosco?»
«No. Ma io conosco lei. L’ho visto in azienda. Sono Jerina Bajlavi.»
«E io Tomislav Milan.»
Tese la mano per salutarla ma lei, sollevandosi sulla punta dei piedi, gli diede un bacio sulla guancia.
«Adesso devo andare. Non dica a nessuno che fumo. Intesi?»
«Josip… secondo te, ci si può innamorare di una ragazza di quindici anni?»
«No.»
«Come puoi esserne sicuro?»
«Non sono sicuro di niente; immagino di no.»
«E invece ti dico che mi è successo: l’ho vista e mi sono innamorato.»
«Oh, Tomislav, che parola grossa, pensa a cose concrete, al lavoro che ti aspetta, per esempio. Pensa a quanti fiori dovrai raccogliere tra qualche giorno.»
«Circa centoquaranta in un’ora, quanti ce ne vogliono per ottenere un grammo di spezie.»
«Già, tanta fatica per un pizzico di polvere. Avrai la schiena a pezzi dopo dieci ore di lavoro.»
«Però, quest’anno Bajlavi ha aumentato il salario.»
«Sì e anche le ore di lavoro.»
«Vuole ricavare almeno un chilo di pistilli dal raccolto di ogni contadino. Tu fai parte dei nostri, no?»
«Certo, amico mio, faccio parte della squadra come l’anno scorso, ma voglio lavorare con calma. Non mi spaccherò la schiena per riempire le tasche al furbone. Tu fa’ come ti pare. Pensa alla tua schiena e lascia perdere l’amore che è roba da adolescenti.»
«E se ti dicessi che mi sono innamorato come un adolescente?»
«Direi che ti sei rimbecillito, Tomislav.»
Dopo il primo incontro, Jerina e Tomislav s’erano rivisti altre volte prima dell’inizio del raccolto.
Un giorno, Jerina voleva andare in una spiaggia deserta: «Deve essere bello, ora che non ci sono più turisti. Ci verresti con me, Tomislav?»
«A far cosa?»
Lei gli regalò quella sua risata deliziosa con la testa un po’ piegata indietro, poi con finta ingenuità: «Che domande, a fare il bagno, no?»
Tomislav avrebbe voluto coprire quella gola di baci e continuare a baciarla sul mento e sulla bocca; ma era poco più d’una una bambina e non lo fece. Trattenersi gli procurava un malessere quasi fisico perché, standole vicino, avvertiva sensazioni intense anche senza toccarla. Ne provava disagio, perché la ragazza, beffarda e impudica, lo fissava proprio là, dove l’uomo non può nascondere la sua eccitazione.
Andarono al mare.
A Josip non furono risparmiati i particolari della giornata. Del resto era l’unico, tra i lavoranti dell’azienda Bajlavi, con cui Tomislav aveva intrecciato una amicizia duratura.
«Che mi stai dicendo? Davvero hai fatto sesso con una minorenne, ma sei fuori di testa?»
«Ha fatto tutto lei, non ho potuto resistere.»
«Da uomo, avresti dovuto.»
«Facile a dirsi, ma è stato fantastico, e poi nulla di grave: ho eiaculato in acqua.»
«Devi smetterla, Tomislav, quella ragazza potrebbe causarti guai seri. Pensa se lo sapesse suo padre; non scordarti che è la figlia del padrone.»
«Hai ragione, ma sono ossessionato. Lo so che non dovrei, ma la cerco dappertutto; non dovrei neanche restare qui, anzi farei bene ad andarmene e non tornare più. Non ho il diritto di amarla, ma sono pazzo di lei. E non posso farci niente.»
«Vedrai che quando inizierà la raccolta dei fiori, non vedendola più, piano piano finirai col non pensarci.»
«Allora non hai capito. Penso a lei tutto il giorno anche se non la vedo, da quando apro gli occhi a quando li chiudo, capisci? Sono posseduto.»
«Ti passerà, vedrai, oh se passerà!»
«Josip, continui a non capire, non è solo una questione di sesso. Questo è amore.»
«Non preoccuparti, col tempo passa anche l’amore.»
Marija e Milo Bajlavi coltivavano la spezie più costosa del mondo sui terreni di famiglia nei pressi di Klapčići, un villaggio in zona Labin Nedešćina. Una fascia territoriale attraversata – sostengono alcuni ̶ da concentrazioni di energia tanto intense da far pensare a qualcosa di eccezionale.
Oltre ai terreni, i due fratelli avevano ereditato la casa, una tipica abitazione istriana che, coi proventi della loro attività, avevano abbellito e dotato di ogni confort. Marija aveva voluto la piscina e una spaziosa veranda, da dove controllava il lavoro nei campi. Un mattino, mentre stava lì a guardare, rimase turbata dalla scena che si svolgeva sotto i suoi occhi.
La veranda offriva un’ombra confortevole, ma giù nel campo i raggi del sole ancora caldo picchiavano sulla schiena dei contadini. Uno di loro si tolse la camicia, rivelando braccia robuste e la schiena lucida di sudore.
Lei ne fu attratta. Non riusciva a staccare gli occhi da quel fascio di muscoli che si tendevano appena in gesti lievi; c’era della grazia in quei movimenti. L’uomo lavorava con ritmo sostenuto: accovacciato, raccoglieva i fiori e li metteva nel cesto, poi si alzava e si spostava più avanti, piegandosi di nuovo sulle ginocchia. Quanto era alto e come era rapido! Aveva un fisico possente, eppure si muoveva con l’agilità di un gatto.
Marija fu colta da una sensazione intima, una specie di necessità repressa, che si manifestava con urgenza improvvisa.
Da quel giorno prese a trascorrere molto tempo in veranda. Con lo sguardo cercava l’uomo che si toglieva la camicia, ma non riusciva mai a vederlo in faccia.
Un giorno se lo trovò davanti. Era scesa a mezzogiorno in cortile; a quell’ora i contadini si radunavano sotto la tettoia per consumare un pasto frugale e dissetarsi alla fontana. Marija stava riempiendo l’annaffiatoio per dare acqua ai vasi di gerani. Lui era lì e aspettava in piedi.
«Se deve bere, faccia pure!»
«No, finisca prima lei» disse, fissandola negli occhi.
Lei rimase folgorata da quello sguardo azzurro. In quel preciso istante decise che voleva quell’uomo. Avrebbe fatto di tutto per averlo.
Una sera di metà ottobre, all’ora che i contadini lasciavano i campi, Marija disse al fratello di non aspettarla per cena; non aveva appetito e voleva fare due passi.
Sapeva che l’uomo dagli occhi brillanti era sempre l’ultimo a lasciare il campo, poi andava a dormire su una branda di fortuna nello sgabuzzino degli attrezzi, invece che nello stanzone con gli altri lavoranti.
Tomislav la vide arrivare. Un po’ sorpreso, vide la donna avvicinarsi e inciampare nel cesto di fiori che finirono sparsi per terra.
«Scusi, non ho visto il cesto, comincia a fare buio.»
«Non si preoccupi, ora li raccolgo.»
«L’aiuto io.»
«Non occorre, ma se vuole farlo, li prenda con delicatezza, Non bisogna dimenticare che sono fiori» sorridendo, la guardò dritto negli occhi.
Llei si sentì rimescolare dentro. L’uomo capì.
Così vicini non potevano non sfiorarsi, le mani di lei lo tastavano sotto la camicia e poi più giù sulla cerniera dei pantaloni: «Scusi, non so che sto facendo» di colpo abbandonò la testa sul petto di lui e scoppiò a piangere.
Tomislav cercò di calmarla, accarezzandola e con le labbra asciugandole le lacrime, disse: «Su, su, non è niente di grave. Sono cose che capitano.»
Lei disse soltanto: «Prendimi», lui la strinse più forte, sentendola tremare.
Rimasero a terra tra i fiori ormai appassiti. Tomislav si alzò per primo: «Ti sei pentita?» le chiese.
«No» rispose lei.
Marija prese l’abitudine di saltare la cena sempre più spesso, Tomislav ne era attratto; non innamorato, ma eccitato dal desiderio di lei.
A vent’anni Marija era stata la ragazza più strepitosa della zona, con trent’anni di più, era ancora una donna dalla bellezza straordinaria, ma non era Jerina.
All’azienda Bajlavi la produzione dello zafferano era iniziata nel 2002, allora vi lavoravano sia gli uomini che le donne, ma da quando Milo aveva avuto una figlia da una contadina, le donne erano state tolte di mezzo. Milo aveva allontanato la madre di Jerina dopo il parto, sbarazzandosene con una grossa somma. Della bambina si era occupata la zia con affetto materno.
Di recente però Marija aveva mutato atteggiamento nei confronti della ragazza; s’era accorta che gironzolava intorno a Tomislav e la sgridava spesso. Si lamentava anche col fratello ed era solita dire: «È selvaggia e lasciva come sua madre. Milo, sei troppo indulgente con lei, non la rimproveri mai.»
«Ci pensi tu a questo, Marija, non ti pare abbastanza?»
«E ti sembra giusto, con tutti gli uomini che girano per casa e nel campo, che indossi quelle magliette striminzite e quei pantaloncini così corti?»
«Non vedi che è ancora una bambina?»
«Ma sei cieco? Non ti accorgi che attira tutti gli sguardi e se ne compiace. È abbastanza grande per dare una mano in casa, invece non fa che oziare.»
Le discussioni erano iniziate da quando una sera Marija, mentre giaceva nel campo con Tomislav dopo l’amore, aveva visto la luce accesa in veranda e dietro il vetro la figuretta di Jerina.
Caspita, li aveva visti!
In casa Bajlavi non c’era più armonia. Marija e Milo litigavano e in quella casa Jerina cercava di starci il meno possibile.
Josip aveva detto che una volta iniziato il raccolto, Tomisav avrebbe finito col non pensare più alla ragazza, ma si sbagliava. Però aveva ragione su un punto. Dall’inizio del lavoro, non aveva più incontrato Jerina, solo una volta l’aveva vista sfrecciare nel cortile deserto, rincasando mentre scendeva la sera.
L’aveva fermata e lei gli si era stretta addosso dicendo: «Dimmi che mi ami anche tu» avvicinando il viso per dargli un bacio. Tomislav si era scostato con fare brusco: «Ierina, non è possibile.»
«Cosa? Ma perché?»
«Perché tu e io… è troppo complicato.»
«Che c’è di complicato?»
«Tutto. Penso che dobbiamo smettere di vederci. Ecco, volevo dirtelo.»
«Tutto cosa? Che vuoi dire?»
«Ho quarantasette anni, potrei essere tuo padre.»
«Non è per questo. Ti piacciono le vecchie, lo so» e corse via come un uccello ferito, lasciandogli uno sguardo lancinante di sdegno e dolore. Tomislav avrebbe voluto trattenerla, ma la lasciò andare perché avrebbe fatto fatica a non abbracciarla e a dirle quanto l’amava.
Nei giorni successivi, per sforzarsi di allontanare quel pensiero, Tomislav continuò a fare sesso con Marija. Da quando Jerina li aveva visti, si rifugiavano nello stanzino degli attrezzi, ma anche durante l’orgasmo lui pensava a Jerina.
Il lavoro nel campo procedeva a ritmo sostenuto. Alla raccolta dei fiori seguiva l’operazione finale: gli stimmi, già separati dai petali, venivano essiccati su brace di quercia alla temperatura di sessanta gradi, in modo da lasciar sprigionare tutto l’aroma.
Era il momento in cui l’aria si empiva di effluvi odorosi, la gente sembrava ebbra, infatti si diceva che lo zafferano avesse proprietà afrodisiache.
Si raccontavano leggende sugli effetti straordinari della spezie e del suo odore che, in passato, avevano causato folli passioni finite in tragedia. Anche al presente lo zafferano faceva il suo effetto. Le donne assillavano i mariti che le dicevano insaziabili e alle loro lamentele rispondevano: «È colpa dello zafferano!»
Il profumo penetrante segnava il termine del lavoro nei campi;
a fine ottobre, gli uomini sarebbero stati congedati e richiamati l’anno successivo. Marija non voleva aspettare tanto per rivedere Tomislav, anzi non voleva proprio che se ne andasse, perciò pensò a un nuovo lavoro per lui.
Disse a Milo di avere bisogno di una serra per gli ortaggi che coltivava dietro casa. Alle obiezioni del fratello, poco convinto sull’utilità di un impianto costoso e che richiedeva l’impiego di lavoratori specializzati, rispose di averne sottocchio uno esperto.
Alla fine Milo capitolò: «E vada per la serra, ma a patto che te ne occupi tu.»
Lei non aspettava altro. La sera stessa parlò con Tomislav, prospettandogli un nuovo contratto di lavoro, ma l’uomo non sembrava interessato. Infine dichiarò, senza mezzi termini, che era risoluto ad andarsene.
Marija non immaginava un rifiuto. Era furibonda.
«Ah, dunque è così, a me non pensi? Non t’importa niente? Sono stata solo un passatempo, un diversivo piacevole?»
«No. È stato bello, ma le cose belle finiscono.»
«Menti, tu hai un’altra. Vai da lei?»
«Non ho un’altra, nessuna mi aspetta; è qui quella che amo, ma è un amore difficile, di quelli che non finiscono bene, perciò devo andarmene.»
«Vuoi dire che sono io quella che ami?» domandò con un barlume di speranza.
«Non sei tu.»
«Allora è… »
«Jerina.»
Marija lasciò lo sgabuzzino degli attrezzi inferocita. Prima di uscire, gli occhi le andarono al muro dove stavano appesi i coltelli. Ne prese uno e scappò via. Tomislav stava sistemando la branda e non se ne accorse.
La notte era d’argento; la luce della luna entrava dalla finestra aperta, illuminando la stanza, inondata dal profumo di zafferano.
Marija si agitava nel letto girandosi e rigirandosi, senza riuscire a trovare sollievo nel sonno. Non aveva smesso di piangere e le bruciavano gli occhi gonfi e iniettati di sangue, come quelli di una belva affamata.
Tomislav s’era preso gioco di lei, Doveva essere punito, doveva disperarsi come lei; Marija pensò al modo migliore di farlo soffrire. Alla fine decise.
Si alzò, infilò una vestaglia e andò in cucina, dove aveva nascosto il coltellaccio da giardino, lo mise in tasca e con determinazione si recò in camera di Jerina.
La trovò addormentata coi capelli sparsi sul cuscino e le labbra atteggiate a un sorriso indefinibile.
Eccola lì, la dolce bambina che aveva cresciuto come una figlia, che ragazzaccia era diventata! Aveva visto tutto, sapeva che Tomislav era l’unico uomo che Marija avesse desiderato e, nonostante questo, si era divertita a tentarlo, lo aveva confuso, sconvolto. E perché poi? Per un capriccio di bambina viziata.
Sì, quell’ingrata doveva morire.
Il primo colpo alla gola sarebbe bastato a finirla. La giugulare recisa cominciò subito a sanguinare e un fiotto di sangue uscì dalla bocca. Ormai fuori di sé, Marija prese a colpire più volte le tempie e il viso di Jerina, sfigurandolo in modo orrendo, col naso mozzo e gli occhi fuori dalle orbite.
La fuoriuscita di materia cerebrale rendeva l’aria acre, ma la donna non smetteva di accanirsi sul corpo ormai esanime con fendenti furiosi al petto e alla pancia e ancora alle braccia e alle cosce.
Jerina giaceva in un lago di sangue, quando l’assassina uscì dalla stanza. Stralunata e ansimante andò a lavarsi, si cambiò e rimase in camera sua per cercare di calmarsi.
La luna era tramontata quando Marija andò a svegliare Tomislav per dirgli che Jerina lo stava aspettando, gli aveva lasciato la porta della sua stanza accostata per farlo entrare. Lei avrebbe lasciato aperto il portone d’ingresso.
L’uomo, colto nel sonno, non fece domande. Se Jerina aveva bisogno di lui, sarebbe accorso a qualunque ora del giorno e della notte. Si vestì in fretta e uscì di corsa.
Non appena, dalla finestra della sua camera, Marija lo vide entrare in casa, raggiunse il fratello.
«Milo, svegliati! Vieni, presto. Ho sentito dei rumori in camera di Jerina; ci dev’essere qualcuno.»
Milo si precipitò nella stanza, trovandosi di fronte a una scena agghiacciante.
Tomislav s’era gettato sul corpo straziato di Jerina, come per coprirla e singhiozzava, incurante dei vestiti che s’inzuppavano di sangue. Aveva estratto il coltello, rimasto conficcato nella coscia della ragazza e lo teneva ancora in mano.
Milo rimase sulla soglia alcuni istanti, stravolto, incapace di credere ai suoi occhi, poi urlò tutto il suo strazio.
«Dio, Dio mio, Tomislav, che hai fatto?»
Nessuno credette all’innocenza di Tomislav. Le sue impronte erano sull’arma del delitto e la polizia lo aveva trovato sulla scena del crimine.
Marjia fornì il movente. Al processo testimoniò d’aver convinto la nipote a rinunciare alla progettata fuga d’amore, scatenando l’ira dell’amante deluso.
Sotto giuramento, perfino Josip non poté non ammettere che l’amico gli aveva confessato d’essere posseduto da una passione indomabile per la giovane Bajlavi.
Folle di dolore e di rabbia, Tomislav s’impiccò in prigione.