La pioggia scende sempre più violenta e io la osservo dalla finestra.
Come ogni sabato sono in attesa di andare nel bosco a trovare il “mio” albero.
Normalmente arrivo e appoggio le mie mani sul suo tronco, lo accarezzo con dolcezza; poi mi siedo sulle sue radici, appoggio la schiena al fusto e rimango in silenzio ad ascoltare.
So che il mattino è il momento migliore, il vento leggero muove appena le fronde ma si insinua nel bosco tra le migliaia di tronchi facendoli risuonare.
È un suono particolare, vibra tra i tronchi e si propaga per chilometri trasmettendosi di albero in albero.
Solo pochi esseri umani hanno quello che io definisco “il dono” e riescono a sentire il suono; non so dire se sentono esattamente tutti allo stesso modo, ma “sentono” e questo è quello che conta: io il dono ce l’ho, forse, da sempre; mi ha insegnato mio padre a scoprirlo e da quando ho trapiantato il “mio” albero non lascio passare un solo sabato senza venirlo a trovare.
Guardo dalla finestra e penso che forse oggi sarà più difficile sentirlo risuonare perché il rumore della pioggia sui rami, sulle foglie e sul terreno fangoso renderanno ogni altro rumore ovattato.
Comincia a imbrunire mentre la pioggia continua a scendere inesorabile.
Non sono andato.
Lo immagino bagnato in ogni singola fogliolina, Chissà se avrà avvertito l’assenza delle mie mani sul suo tronco.
Oggi non ho sentito gli alberi risuonare, la pioggia ha sconfitto anche me!
Posso solo pensare al bosco che osserva silenzioso l’acqua che scende sempre più forte, sempre più intensa.
“Papà domani lo portiamo nel bosco, allora?”.
“Sì Fabio, me lo hai già chiesto almeno dieci volte oggi; ora vai a prepararti, metti il pigiama e fila a letto”.
Mi ero avvicinato all’albero e gli avevo parlato a bassa voce, per non farmi sentire dai miei genitori, chissà poi perché...
“Domani ti riportiamo vicino alla tua mamma, sei felice?”
Allora non mi ero posto il dubbio se “Felicità” fosse un concetto che un albero potesse comprendere, a malapena riuscivo a elaborarlo io: ero ancora troppo piccolo.
“Nel bosco diventerai sempre più alto, forte e bello, me lo ha detto il papà; non devi essere triste, lo facciamo per il tuo bene”.
Io non ero triste perché la mamma mi aveva spiegato che ormai era diventato troppo grande per stre in un vaso e che nel bosco sarebbe cresciuto sempre più forte e bello.
Avevo sentito la mamma avvicinarsi e dirmi: “Forza Fabio, a nanna adesso; domani è una giornata importante, devi essere in forma”. E poi la sua mano che scorreva dolce sulla mia schiena mentre con l’altra accarezzava il tronco dell’albero seguita subito dopo dalla mia.
“Buonanotte” gli avevo detto prima di allontanarmi; avevo otto anni.
La notte è stata lunghissima con la pioggia che non ha mai smesso di scendere con intensità sempre maggiore.
Il terreno è sempre più pieno d’acqua, sembra perdere consistenza; mi aggiro per il giardino di casa, introno c’è un silenzio irreale, si sente solo il rumore ruggente, incessante, della pioggia che appare sempre più arrabbiata e non sembra proprio voler cessare o, almeno, rallentare un po’.
L’operazione di carico aveva richiesto un po’ di tempo in quanto l’albero era già diventato piuttosto grande e avevano dovuto stenderlo sul cassone del camion.
Io ero stato in casa a osservare dalla finestra per tutto il tempo in cui gli uomini avevano trafficato in quanto avevano detto a mia mamma che poteva essere pericoloso avermi tra i piedi e lei non aveva ceduto alle mie continue preghiere.
Poi quando tutto era stato pronto per la partenza mi avevano chiamato.
Ero uscito correndo, ero saltato in braccio a mio papà e, appena prima di salire sul camion avevo appoggiato la mia piccola mano sul suo tronco steso.
“Tra poco sarai a casa” gli avevo detto.
Eravamo arrivati a metà mattina e c’era voluto quasi tutto il giorno.
Avevo saltellato intorno agli uomini al lavoro che spesso mi avevano rimproverato; ero troppo impaziente per starmene fermo da una parte e alla fine il trapianto si era concluso felicemente e il mio si era ritrovato con le radici affondate in una terra morbida con tantissimo spazio intorno.
Prima di salutarlo lo aveva cinto con entrambe le mie piccole braccia, una cosa che finché era stato in un vaso a casa mia non avevo mai fatto.
“Ti abbiamo messo accanto alla tua mamma, è proprio dietro di te” gli aveva detto prima di salutarlo anche se mio papà, sorridendo, mi aveva spiegato che probabilmente il concetto di “mamma” era molto difficile da comprendere per un albero.
È trascorsa un’altra giornata e la pioggia non ha mai smesso di scendere; ma ora c’è anche il vento, sempre più forte, non l’ho mai sentito così.
Non è il vento cui siamo abituati, quel vento che fa risuonare gli abeti rossi, è un vento sconosciuto, cattivo, violento, un vento che fa paura.
Cerco di ragionare andando avanti e indietro in soggiorno, guardando dalla finestra la violenza di una natura che ora mi sembra lontanissima da quella cui sono abituato qui tra le mie montagne.
Non riesco più a trattenermi, indosso il giaccone pesante, gli stivaloni, prendo le chiavi del pick up ed esco.
Il terreno è fradicio, il vento sempre più forte, so che è irrazionale ma temo per il mio albero, penso che in questo momento possa provare un sentimento che è solo umano: la paura.
Era un sabato di piena primavera, un bel sole scaldava il bosco e, come ogni settimana, eravamo arrivati a salutare il mio albero; quella mattina con me e papà c’era anche la mamma.
Avevamo appoggiato le mani sul suo tronco e ci eravamo seduti; dopo un po’ mi ero alzato ed ero andato accanto alla mamma.
“mamma ho paura che un giorno anche il mio albero verrà abbattuto per farne tanti violini come con gli alberi che papà e gli altri uomini hanno tagliato la settimana scorsa”.
Papà aveva riso forte: “Fabio non devi temere, quegli alberi avevano quasi centocinquant’anni”.
“Erano vecchi come il nonno?” avevo chiesto.
“Molto di più, il nonno non è così vecchio” aveva risposto Fabio mettendosi nuovamente a ridere.
“Sarà meglio che il nonno non sappia cosa hai appena detto”, aveva concluso la mamma anche lei ridendo.
Poi papà si era fatto nuovamente serio e mi aveva spiegato che per costruire degli strumenti musicali di valore ci voleva un legno molto particolare, che non tutti gli alberi erano adatti e che, come mi aveva appena finito di dire, dovevano avere un’età tra i centotrenta e i centocinquant’anni.
“Quando il tuo albero verrà abbattuto per farne legna da strumenti, tu non ci sarai più” aveva concluso.
Mi ero alzato e avevo accarezzato il tronco con le mie manine delicate e poi, come facevo sempre prima di andarmene, lo avevo circondato con le mie braccia.
* * *
Aveva smesso di piovere e anche il vento era cessato completamente.
Eravamo senza luce, completamente isolati; i mezzi non potevano muoversi a causa delle strade interrotte, le nuvole basse impedivano anche agli elicotteri di alzarsi in volo.
Un pensiero lontano, in una parte sepolta della mia mente, mi agitava.
Ricordo che mi ero stretta a mio marito sussurrandogli “ho paura”.
Lui mi aveva guardata e mi aveva detto “non devi temere, è stato brutto ma per fortuna ora è finito”.
Ricordo un brivido scorrermi lungo la schiena.
Erano trascorsi due giorni e due notti e finalmente la corrente era tornata.
D’istinto, come prima cosa avevo chiamato Fabio al telefono ma non mi aveva risposto.
Mio marito aveva cercato di tranquillizzarmi dicendomi che probabilmente non ancora dappertutto le linee erano ripristinate e che sarebbero state sicuramente ampie zone ancora senza campo.
Ma avevo scorto nei suoi occhi una paura che non gli apparteneva.
Aveva raccolto gli uomini e si erano avviati verso il bosco: “Sono sicuro che lo troveremo là” mi aveva detto salutandomi mentre si chiudeva l’uscio di casa alle spalle.
Non avevano più trovato il bosco, erano rimasti in piedi solo pochissimi alberi, sparsi qua e là.
Gli altri uomini mi hanno raccontato che una volta arrivati, mio marito si era diretto deciso verso un punto che solo lui sembrava conoscere in mezzo a quell’immane disastro, qualcosa che non si era mai visto.
Lo avevano visto fermarsi improvvisamente, crollare sulle ginocchia e portarsi le mani al volto.
Quando si erano avvicinati avevano visto che piangeva in silenzio; davanti a lui, sotto il suo albero, quasi a volerlo ancora circondare, abbracciare, proteggere con le sue braccia, il mio Fabio.
.
Fabio…
Compiva quattro anni la mattina in cui era venuto per la prima volta nel bosco con me e suo papà.
Avevamo appoggiato una scala al tronco.
“Fai attenzione caro, mi raccomando”.
“Stai tranquilla, la scala è ben ancorata al terreno”.
Mio marito si era arrampicato sulla scala fino a raggiungere i rami più bassi.
“Papà, prendi quella!” aveva gridato Fabio da terra.
“Questa?”.
“No, quella più grande di sopra” aveva ribadito il nostro bambino.
Mentre suo padre staccava una pigna da uno dei rami e poi scendeva la scala Fabio non aveva smesso un attimo di gridare di gioia.
“È piena di semi, ne pianteremo un po’, vedrai che qualcuno attecchirà” gli avevo detto.
Poi suo padre ci aveva detto di sederci appoggiati al tronco ed eravamo rimasti in silenzio in attesa che il vento rinnovasse il miracolo di far risuonare gli alberi del bosco.
“Mamma, papà, lo sento…” aveva detto Fabio con un filo di voce.
“Lo sapevo…” si era limitato a replicare mio marito con il suo splendido sorriso a illuminargli il volto.
Mi avevano portata dopo due giorni, cedendo alle mie insistenze: volevo vedere.
Il sole splendeva e scaldava il mio corpo mentre dentro morivo anch’io un po’ alla volta.
Mi ero appoggiata all’albero da cui avevamo preso la pigna tanti anni prima, l’unico rimasto miracolosamente in piedi in mezzo a tutta quella devastazione.
Avevo guardato gli uomini che mi avevano aiutata a salire, mio marito non ce l’aveva fatta: “non c’è niente da fare, vero?”.
“No, signora, era troppo giovane; non c’è nulla da fare, non potrà mai diventare uno strumento musicale”.
Avevo gironzolato attorno per un po’ osservando gli incredibili danni fatti dal vento; il bosco non esisteva più, solo pochi alberi in piedi, sparsi qua e là.
“Mi è venuta un’idea. Andiamo!” avevo detto improvvisamente.
E per la prima volta, mentre ci allontanavamo, avevo provato come un leggero senso di sollievo.
Prima di ripartire Fabio si era avvicinato al grande albero che si trovava dietro al suo e lo aveva cinto con le sue piccole braccia.
“Ti ricordi la prima volta che sono venuto nel bosco e mio papà si è arrampicato con la scala a prendere una pigna dal tuo ramo? Ecco, uno dei semi di quella pigna è diventato l’albero che abbiamo appena piantato qui davanti a te, è tuo figlio”.
Avevo sorriso immaginando quel grosso albero che provava a capire il concetto di “mamma” e “figlio” e avevo sentito un profondo affetto per quel bambino che stava crescendo con lo stesso amore per la natura di suo padre.
Quante volte, negli anni, avremmo sentito quei due alberi insieme a tutti gli altri del bosco, risuonare all’unisono, proprio come madre e figlio! avevamo risuonato all’unisono.
È passato un anno da quando il vento ha distrutto il nostro bosco prendendosi nostro figlio: stamattina il sole splende come se fosse ancora estate.
Il vento arriva leggero come tutte le mattine e come tutte le mattine dell’ultimo anno non c’è nulla che risuoni, solo silenzio.
Stanno arrivando in tantissimi, molto più di quanti mi sarei aspettata e arrivano da tante parti della regione, non solo dal nostro paese.
Quasi in processione, prima di andarsi a sedere, passano accanto all’unico albero rimasto e vi appoggiano una mano in una sorta di rito a metà tra il pagano e il religioso.
Mio marito sale sul podio in legno, il legno che abbiamo salvato dall’albero di Fabio e, trattenendo a stento la commozione, comincia a parlare.
“Ringrazio tutti per essere qui in questo giorno così importante per la nostra famiglia; mia moglie ha voluto fortemente questo concerto in ricordo di nostro figlio Fabio. Avremmo tanto voluto che con il legno di quello che fu il “suo” albero si potesse costruire uno dei violini per cui il nostro bosco è tanto famoso nel mondo, ma l’albero era troppo il giovane e il legno inadatto.
Abbiamo perciò deciso di invitare dei musicisti che sono saliti portando alcuni dei tanti violini costruiti nel tempo con il legno del nostro bosco e di dedicare questo concerto alla memoria di nostro figlio Fabio e al bosco che lui aveva tanto amato e che, assieme a lui, è scomparso.
Ora vi chiedo di accomodarvi, di fare silenzio e di godervi questo concerto unico nel suo genere.
Scende dal podio e lascia posto al maestro.
E, improvviso, un suono dolce, melodioso, si leva dai violini costruiti con gli alberi del nostro bosco negli anni; finalmente, dopo lunghi mesi, sento nuovamente risuonare il legno come faceva il vento quando ancora era bosco: quello stesso vento che in una lunga giornata di follia lo ha distrutto per sempre.