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Abeti rossi

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1Abeti rossi Empty Abeti rossi Ieri alle 8:41 pm

paluca66

paluca66
Maestro Jedi
Maestro Jedi


La pioggia scende sempre più violenta sui miei rami e sul terreno ai miei piedi ormai intriso di acqua.
Come ogni sabato sono in attesa di avvertire i loro passi avvicinarsi.
Normalmente arrivano e sento le loro mani che si appoggiano al mio tronco, lo accarezzano con dolcezza; poi entrambi si siedono sulle mie radici, appoggiano la schiena al fusto, il padre da una parte, il figlio dall’altra e rimangono in silenzio ad ascoltare.
Sanno che il mattino è il momento migliore, il vento leggero muove appena le fronde ma si insinua nel bosco tra le migliaia di tronchi facendoli risuonare.
È un suono che soltanto noi riusciamo a sentire, vibra dentro di noi e si propaga per chilometri trasmettendosi di albero in albero.
Però ci sono alcuni esseri umani che hanno quello che noi definiamo “il dono” e riescono a sentire il suono; non so dire se sentono esattamente ciò che sentiamo noi, ma “sentono” e questo è quello che conta: Fabio e suo figlio Alberto il dono ce lo hanno, forse, da sempre e da quando mi hanno trapiantato qui, sotto mia madre, non hanno quasi mai trascorso un sabato senza farmi visita.
Aspetto e penso che forse oggi farò più fatica a sentirli avvicinarsi: il rumore della pioggia sui miei rami e sulle mie foglie e il terreno fangoso rendono ogni altro rumore ovattato.
 
Comincia a imbrunire mentre la pioggia continua a scendere inesorabile.
Non sono venuti.
Sono bagnato in ogni singola fogliolina, e avverto l’assenza delle loro mani sul mio tronco.
Oggi non abbiamo risuonato, la pioggia ha sconfitto il vento, il bosco osserva silenzioso l’acqua che scende sempre più forte, sempre più intensa.
 
“Papà domani lo portiamo nel bosco, allora?”.
“Sì Alberto, me lo hai già chiesto almeno dieci volte oggi; ora vai a prepararti, metti il pigiama e fila a letto”.
Ricordo che Alberto mi si era avvicinato e mi aveva parlato a bassa voce, forse per non farsi sentire da Fabio.
“Domani ti riportiamo vicino alla tua mamma, sei felice?”
Felicità era un concetto che non avevo mai compreso, non riuscivo a elaborarlo e pensavo che forse ero ancora troppo piccolo.
“Nel bosco diventerai sempre più alto, forte e bello, me lo ha detto il papà; non devi essere triste, lo facciamo per il tuo bene”.
Io non ero triste, non sapevo nemmeno bene cosa pensare, non ero mai stato in un bosco e non sapevo di cosa parlasse Alberto.
Avevo sentito la mamma di Alberto avvicinarsi e dire al bambino: “Forza Alberto, a nanna adesso; domani è una giornata importante, devi essere in forma”. E poi la sua mano che scorreva dolce sul mio tronco seguita subito dopo da quella del bambino.
“Buonanotte” mi aveva detto prima che li sentissi allontanarsi; avevo tre anni.
 
La notte è stata lunghissima con la pioggia che non ha mai smesso di precipitarmi addosso con intensità sempre maggiore.
Il terreno sotto di me è sempre più pieno d’acqua, sembra perdere consistenza; è come se le mie radici galleggiassero anche se mi rendo conto che è solo una sensazione.
Nel bosco regna un silenzio irreale, solo la pioggia fa sentire la sua voce ruggente, appare sempre più arrabbiata e non accenna a rallentare nemmeno un po’.
 
L’operazione di carico aveva richiesto un po’ di tempo in quanto io ero già diventato piuttosto grande e avevano dovuto stendermi sul cassone del camion.
Alberto non lo avevo sentito per tutto il tempo in cui gli uomini avevano trafficato segno che lo avevano tenuto lontano da possibili pericoli
Poi quando tutto era stato pronto per la partenza lo avevano chiamato.
Era arrivato correndo, avevo sentito i suoi rapidi passi e, appena prima di salire sul camion la sua manina si era appoggiata sul mio tronco steso.
“Tra poco sarai a casa” mi aveva detto.
Eravamo arrivati a metà mattina e c’era voluto quasi tutto il giorno.
Avevo sentito Alberto saltellare intorno agli uomini al lavoro che spesso lo avevano rimproverato; alla fine il trapianto si era concluso felicemente e io mi ero ritrovato con le radici affondate in una terra morbida con tantissimo spazio intorno.
Prima di salutarmi Alberto mi aveva cinto con entrambe le sue piccole braccia, una cosa che finché ero stato in un vaso a casa sua non aveva mai fatto.
“Ti abbiamo messo accanto alla tua mamma, è proprio dietro di te” mi aveva detto prima di salutarmi ma il concetto di “mamma” non ero riuscito a comprenderlo.
 
È trascorsa un’altra giornata e la pioggia non ha mai smesso di scendere; ma ora c’è anche il vento, sempre più forte, non l’ho mai sentito così.
Non è il vento cui siamo abituati, quel vento che ci fa risuonare, è un vento sconosciuto, cattivo, violento, un vento che fa paura.
Cerco di affondare le mie radici nel terreno ma non riesco a fare presa e adesso temo che il vento mi strappi via.
Il terreno è fradicio, troppo molle per trattenermi, credo di provare qualcosa di simile a un sentimento degli uomini, la paura.
 
Era un sabato di piena primavera, un bel sole scaldava i rami e le foglie e Alberto e Fabio erano arrivati come ogni settimana a salutarmi.
Avevano appoggiato le mani sul mio tronco e si erano seduti; dopo un po’ Alberto si era alzato ed era andato accanto a suo padre.
“Papà ho paura che un giorno anche il mio albero verrà abbattuto per farne tanti violini come con gli alberi che avete tagliato la settimana scorsa”.
Fabio aveva riso forte: “Alberto non devi temere, quegli alberi avevano quasi centocinquant’anni”.
“Erano vecchi come il nonno?” aveva chiesto Alberto.
“Molto di più, il nonno non è così vecchio” aveva risposto Fabio mettendosi nuovamente a ridere.
“Sarà meglio che il nonno non sappia cosa hai appena detto”.
Poi si era fatto nuovamente serio e aveva spiegato al bambino che per costruire degli strumenti musicali di valore ci voleva un legno molto particolare, che non tutti gli alberi erano adatti e che, come gli aveva appena finito di dire, dovevano avere un’età tra i centotrenta e i centocinquant’anni.
“Quando il tuo albero verrà abbattuto per farne legna da strumenti, tu non ci sarai più” aveva concluso.
Alberto si era alzato mi aveva accarezzato il tronco con le sue manine delicate e poi come faceva sempre prima di andarsene mi aveva circondato con le sue braccia.
 
*                    *                    *
 
Ha smesso di piovere e anche il vento è cessato completamente.
Nel bosco c’è un silenzio che non ho mai sentito.
Mi sento sola, come se non ci fosse più nessun albero attorno a me.
Il sole non riesce a penetrare le fitte nuvole basse e rami e foglie sono ancora fradici, freddi.
 
Sono trascorsi due giorni e due notti e finalmente le nuvole si sono un po’ sollevate anche se il sole ancora non riesce a raggiungermi.
Il vento ha ricominciato a soffiare con la delicatezza di sempre ma non riesce a spezzare il silenzio che mi circonda: niente risuona.
Finalmente sento dei passi avvicinarsi, sono in tanti, almeno cinque o sei.
Improvvisa la voce di Fabio: “Che disastro! Non è rimasto in piedi più nulla!”
Una voce accanto a lui ribadisce: “Non ho mai visto nulla del genere!”
Gli altri tacciono, probabilmente osservano in silenzio quello che comincio a immaginare, non hanno la forza di dire alcunché.
Sento una mano appoggiarsi al mio tronco, delicata.
“Come hai fatto a rimanere in piedi, tu?” domanda anche se sa che non esiste risposta.
“Quello era l’albero di Alberto” sussurra mentre la sua mano non vuole staccarsi dal mio tronco.
 
Alberto…
Compiva quattro anni la mattina in cui era venuto per la prima volta nel bosco con suo papà e sua mamma.
Avevano appoggiato una scala al mio tronco.
“Fai attenzione Fabio, mi raccomando”.
“Stai tranquilla, la scala è ben ancorata al terreno”.
Lo avevo sentito arrampicarsi sulla scala fino a raggiungere i miei rami più bassi.
“Papà, prendi quella!” aveva gridato Alberto da terra.
“Questa?” la voce di Fabio era molto vicina.
“No, quella più grande di sopra” aveva ribadito il bambino.
Avevo sentito Fabio staccare una pigna da uno dei miei rami e poi scendere la scala mentre Alberto gridava di gioia.
“È piena di semi, ne pianteremo un po’, vedrai che qualcuno attecchirà” aveva detto la mamma.
Poi Fabio aveva detto alla moglie e al figlio di sedersi appoggiati al mio tronco ed erano rimasti in silenzio in attesa che il vento rinnovasse il miracolo di far risuonare gli alberi del bosco.
“Mamma, papà, lo sento…” aveva detto Alberto con un filo di voce.
“Lo sapevo…” si era limitato a replicare Fabio.
 
Sono tornati dopo due giorni, solo Fabio e Alberto.
Il sole ora splende e scalda i miei rami e il mio tronco.
Sento le mani e la fronte di Alberto appoggiati su di me, poi staccandosi e rivolgendosi al padre: “non c’è niente da fare, vero?”.
“No, Alberto, era troppo giovane; non c’è nulla da fare, non potrà mai diventare uno strumento musicale”.
Sento Alberto gironzolarmi attorno, sicuramente sta osservando gli incredibili danni fatti dal vento; ormai ho capito che il bosco non esiste più, siamo rimasti pochi alberi in piedi, sparsi qua e là.
“Mi è venuta un’idea. Andiamo!” dice improvvisamente Alberto.
Sento che si allontanano, Fabio non gli ha chiesto nulla.
 
Prima di ripartire Alberto si era avvicinato a me e mi aveva cinto con le sue piccole braccia.
“Ti ricordi la prima volta che sono venuto nel bosco e mio papà si è arrampicato con la scala a prendere una pigna dal tuo ramo? Ecco, uno dei semi di quella pigna è diventato l’albero che abbiamo appena piantato qui davanti a te, è tuo figlio”.
Non avevo capito bene il concetto di figlio ma avevo intuito che quell’albero piantato accanto a me era un pezzo di me.
E negli anni, ogni volta che il vento al mattino era arrivato nel bosco, io e quell’albero che Alberto aveva chiamato figlio avevamo risuonato all’unisono.
 
È passato un anno da quando il vento ha distrutto il nostro bosco, stamattina il sole splende come se fosse ancora estate.
Il vento arriva leggero come tutte le mattine e come tutte le mattine dell’ultimo anno non c’è nulla che risuona, solo silenzio.
Improvvisamente sento un gran frastuono, tanti esseri umani stanno avvicinandosi.
Il primo ad arrivare è Alberto, lo sento appoggiare le sue mani sul mio tronco.
“Abbiamo una sorpresa per te” mi dice mentre sento sempre più persone arrivare in quello che una volta era il bosco.
“Ho organizzato un concerto per te e in ricordo dell’albero che era tuo figlio e che ora non c’è più” mi dice ancora Alberto.
“Purtroppo non abbiamo potuto costruire un violino con il suo tronco però gli strumenti che tra poco suoneranno vengono tutti dal legno del bosco. Ma ho voluto portare un pezzo del mio albero in questa occasione, il podio del maestro è fatto con il legno del suo tronco”.
Non capisco tutto quello che dice, maestro? Podio? Ma non ho tempo di pensarci perché forte sopra tutti i rumori che hanno invaso l’area si alza la voce di Fabio.
“Vi chiediamo di accomodarvi, per favore, tra tre minuti cominciamo”.
Sento le persone un po’ alla volta fermarsi, si fa silenzio mentre Fabio e Alberto si appoggiano al mio tronco, come sempre il padre da una parte, il figlio dall’altra.
Poi, improvviso, un suono dolce, melodioso, si leva dai violini costruiti con gli alberi del nostro bosco negli anni; finalmente, dopo lunghi mesi, sento nuovamente risuonare il legno come faceva il vento quando ancora eravamo bosco: quello stesso vento che in una lunga giornata di follia lo ha distrutto per sempre.


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