17 settembre
Oggi il vento soffiava forte. Dalla finestra ho notato un ragazzo, sui vent’anni, che camminava avanti e indietro vicino a una panchina nel parco. Sembrava agitato, come se stesse aspettando qualcuno o qualcosa, ma non si allontanava mai troppo da quel punto. Indossava auricolari con il cavo, un dettaglio che mi ha colpita perché è insolito al giorno d’oggi.
I suoi capelli scuri erano continuamente scompigliati. Ogni tanto cercava di tirarsi su il cappuccio della felpa grigia, ma il vento glielo faceva subito ricadere. Continuava a controllare l’ingresso del parco, fermandosi ogni tanto per guardare meglio, ma non si è mai seduto. Non ho visto nessuno avvicinarsi a lui né salutarlo.
Poco dopo, ho notato una berlina nera rallentare vicino all’ingresso del parco. Pensavo che si sarebbe fermata, invece ha proseguito oltre. Quando ho distolto lo sguardo dalla macchina, il ragazzo era scomparso. Al suo posto, accanto alla panchina, c’era una vecchia borsa di tela, con una cinghia che pendeva da un lato, mossa a tratti dal vento. Non credo fosse sua: non l’avevo notata prima.
18 settembre
Questa mattina la tempesta è arrivata all’improvviso, come se il cielo avesse deciso di riversare tutto il suo peso sulla Terra. Il vento era così forte che piegava i rami e le foglie volavano ovunque, come impazzite. Quando finalmente si è calmato, ho guardato fuori e ho notato che la borsa scura accanto alla panchina era sparita. Non ricordo di aver visto nessuno prenderla, ma con la tempesta poteva essere successa qualsiasi cosa.
Accanto alla panchina si era formata una pozzanghera e qualcosa sembrava affiorare, come se fosse stata portata dal vento. Non riuscivo a distinguere cosa fosse. Poco dopo, ho visto una figura nel parco: forse una ragazza, dato che era piuttosto bassa. Non l’avevo mai vista prima. Camminava nervosamente vicino alla panchina e continuava a guardare verso l’ingresso del parco, proprio come il ragazzo di ieri. Alla fine si è chinata, ha raccolto l’oggetto che spuntava dalla pozzanghera e se n’è andata in fretta.
19 settembre
Oggi il vento era più calmo, ma il cielo rimaneva grigio. La berlina nera è tornata. Si è avvicinata all’ingresso del parco, proprio come l’altro giorno, ma stavolta si è fermata del tutto. Mi aspettavo che qualcuno scendesse, ma non è successo. La macchina è rimasta lì per qualche minuto, immobile. Poi è ripartita senza fretta, scomparendo oltre l’angolo della strada.
Intanto il vento aveva ripreso a soffiare più forte, facendo tremare gli scuri della finestra. Anche i cespugli nel parco si agitavano. Poi, come per magia, accanto alla panchina era riapparsa la borsa scura! Era esattamente nello stesso punto in cui l’avevo vista l’altro giorno, come se non fosse mai sparita. Non ho idea di come sia possibile. Nessuno l’ha portata e non c’era nessuno nei dintorni.
Mi sono chiesta se fosse sempre stata lì, nascosta, o se c’è dell’altro che mi sfugge. C’è qualcosa che mi fa sentire inquieta in tutto questo, come se il vento stesse giocando con la mia mente.
20 settembre
Oggi ho visto i due ragazzi dei giorni scorsi arrivare al parco da direzioni opposte. Lui veniva dall’ingresso principale, lei da un sentiero laterale. Si muovevano come se volessero evitarsi, ma allo stesso tempo si studiavano a distanza, cercando di intuire le intenzioni l’uno dell’altra. Si sono aggirati intorno alla panchina, senza incrociare gli sguardi, ma era evidente che qualcosa li attirava proprio lì.
Alla fine si sono fermati e hanno cominciato a parlare. Sembravano cauti, misurandosi con attenzione. Dopo qualche minuto, la ragazza ha infilato una mano nei tasconi della sua felpa viola e ha tirato fuori un oggetto. Sembrava lo stesso che aveva raccolto l’altro giorno dalla pozzanghera. Non riuscivo a capire cosa fosse, ma l’hanno osservato insieme, chinandosi per esaminarlo meglio.
Dopo un po’, l’hanno rimesso dov’era stato trovato, accanto alla panchina. A quel punto, il ragazzo le ha passato uno dei suoi auricolari e ha smanettato sul suo smartphone, probabilmente cercando una playlist o una canzone. Poi sono usciti insieme dal parco, fianco a fianco, mentre il vento riprendeva forza.
Sono sicura che nessuno dei due avesse con sé la borsa scura. Eppure, quando ho guardato di nuovo verso la panchina, era scomparsa. Di nuovo. Non so come sia possibile. È come se la borsa continuasse a giocare a nascondino, parte di questo mistero che il vento porta con sé.
21 settembre
Questa mattina il telegiornale locale ha riportato una notizia che mi ha sconvolta. Due giovani, un ragazzo e una ragazza, sono stati investiti mentre erano in moto, travolti da una berlina nera con i vetri oscurati, proprio come quella che ho visto nei giorni scorsi. Sembra che abbiano perso il controllo a causa di una raffica di vento improvvisa. Entrambi sono ora in rianimazione. Hanno intervistato le famiglie, scavando in ogni emozione, evidenziando il fatto che i due ragazzi non si conoscessero. Ma nessuna parola su chi fosse alla guida della macchina.
Questa coincidenza mi ha lasciata inquieta. Non può essere stato solo il vento. C’è qualcos’altro che mi sfugge. L’oggetto che i due ragazzi stavano esaminando ieri è ancora lì, accanto alla panchina. Nessuno sembra farci caso, e la borsa scura non è più riapparsa.
Non posso più rimanere a guardare da lontano. Domani, costi quel che costi, scenderò al parco. Devo vedere con i miei occhi cos’è quell’oggetto e capire cosa sta succedendo. Il vento non può essere soltanto una coincidenza.
***
Stavo sistemando le cose di Nadia, cercando di mettere ordine nel caos che mi ha lasciato la sua perdita. L’ho seppellita solo qualche giorno fa. Un incidente banale, assurdo. Stava cercando di salire sul marciapiede con la sedia a rotelle, proprio davanti al parco. Non so come abbia fatto a cadere, ma ha sbattuto la testa violentemente e non si è più svegliata. È morta così, senza un perché, lontana da me. Continuo a chiedermi cosa stesse facendo lì, da sola. Mi sento in colpa per non essere stata con lei, per non averla protetta, per averle permesso di uscire e lasciarmi un vuoto innaturale che ora mi strazia il cuore.
Poi ho trovato quegli appunti sul suo tablet. Li ho letti d’un fiato, cercando disperatamente di capire. Il parco… è inagibile da mesi. C’è un cartello fuori, il cancello è sempre chiuso. Una parte di me vorrebbe credere che si tratti solo di un sogno, di un’allucinazione, il prodotto di una mente stanca e intrappolata. Ma Nadia non era il tipo da inventarsi storie.
Così mi sono affacciata alla finestra, proprio come faceva lei ogni giorno, e il cuore mi si è fermato. La borsa scura. Quella di cui parla nei suoi appunti… era lì. Accanto alla panchina. Esattamente dove e come l’aveva descritta. Come può essere? Non ci ho pensato due volte. Ho lasciato tutto e mi sono precipitata giù per le scale. Il cuore batteva all’impazzata mentre attraversavo la strada, tremando.
Con tutte le mie forze cerco di aprire il cancello. È bloccato da una catena con un lucchetto arrugginito. Spingo, tiro, grido, ma niente. Il parco è deserto, il vento soffia leggero, e quella borsa oltre l’ingresso sembra sfidarmi con la sua presenza.
Aggrappata al cancello, le mani che tremano, la gola stretta da un senso di impotenza che mi soffoca, sento un ronzio alle mie spalle. Mi giro e la vedo.
La berlina nera.
È ferma, proprio qui accanto al marciapiede. Sembra uscita dal nulla, come un’ombra. Il cuore accelera. I vetri oscurati riflettono il cielo grigio sopra di me, non posso vedere dentro. Il vento, sempre più forte, fa frusciare le foglie e agita i miei capelli, mentre la macchina resta immobile.
Aspetto, ma non succede nulla. Nessuno scende. Nessun suono. Solo il vento che cresce d’intensità, quasi a voler spazzare via ogni cosa. Mi sento osservata, e un brivido mi corre lungo la schiena. Il freddo mi penetra nelle ossa e tremo all’idea che quella macchina possa custodire una risposta.
Alla fine, con il cuore in gola, decido di avvicinarmi. Grido: «Ehi! Chiunque voi siate… per favore! Perché siete qui? Cosa volete ancora da me?»
Il vento soffia, spingendomi i capelli davanti agli occhi. Rimango con la mano sollevata, indecisa se batterla sulla fiancata della berlina.
L’auto riparte lentamente, scivolando via lungo la strada.
Con la voce spezzata, urlo: «Rispondete! Vi prego.»
Una raffica improvvisa di vento mi colpisce, facendomi barcollare. In quel momento, sento un tintinnio dietro di me. Mi giro di scatto, il cuore che mi balza in gola.
La catena che teneva chiuso il cancello… è spezzata. Intorno, però, non c’è anima viva! Resto lì, paralizzata, per un tempo interminabile. La borsa scura è ancora accanto alla panchina. E ora il cancello è aperto, un invito silenzioso a entrare, a guardare più da vicino.
Non riesco a crederci. Con il cuore in gola attraverso l’ingresso.
Non so più da quanto tempo sono qui, sul vialetto che porta alla panchina. Tutto sembra immobile, come se il tempo stesso si fosse congelato. Solo il vento continua a soffiare. Ogni passo mi sembra un’eco lontana, mentre i miei occhi restano fissi sulla borsa scura.
Una giovane donna in sedia a rotelle si avvicina dall’ingresso laterale. Ci guardiamo. Nei suoi occhi c’è qualcosa di familiare, ma non riesco a capire cosa. Ci muoviamo intorno alla panchina, entrambe in silenzio. Non ci sono parole, solo sguardi che s’incrociano e si evitano. Lei si ferma davanti alla borsa, la osserva per un lungo momento. Per un attimo guarda verso l’ingresso principale, poi allunga una mano e la raccoglie, come se fosse sua da sempre. Un gesto che mi sembra di riconoscere.
Ho un tuffo al cuore e un brivido lungo la schiena. Possibile che…?
«N… Nadia?» riesco a sussurrare.
La giovane mi guarda. «Scusi?» Ha una bella voce, armoniosa. Sconosciuta, almeno credo.
«Mi scusi lei.» Arrossisco. «L’ho scambiata per un’altra persona.»
La giovane se ne va borbottando qualcosa sottovoce.
Una folata improvvisa di vento colpisce la borsa scura, e un oggetto cade al suolo con un tonfo sordo. Mi si ferma il cuore. Vorrei chiamarla, ma la voce mi si blocca in gola, e la giovane sparisce da dov’era venuta.
Mi avvicino all’oggetto caduto. È un portadocumenti. Mi guardo intorno, soprattutto verso l’ingresso del parco, temendo che qualcuno possa vedermi o che la giovane torni. Lo raccolgo con le mani che tremano.
Decido che è il momento di andarmene. Stringendo il portadocumenti al petto, mi incammino verso l’uscita, sperando di trovare finalmente le risposte che cerco.
Arrivata sul marciapiede, una forte raffica di vento fa sbattere violentemente il cancello dietro di me. Trasalisco, il cuore che batte all’impazzata. Mi giro di scatto.
Il cancello è di nuovo chiuso. E la borsa scura… è di nuovo accanto alla panchina, proprio dove l’avevo vista la prima volta.
Rimango lì, incredula, mentre un brivido mi corre lungo la schiena. Mi guardo intorno, ma non c’è nessuno. Solo il vento, che continua a soffiare implacabile.
Mi tocco il petto, cercando un senso di realtà, e sento ancora il portadocumenti tra le mani. Non ho sognato. Con le dita tremanti lo apro e trovo una foto. La mia bocca si apre in un sospiro strozzato.
È la finestra di casa mia, vista dall’esterno. Nadia è lì, con lo sguardo rivolto verso il parco.
Le lacrime mi riempiono gli occhi e non riesco a trattenerle.
Grido tra i singhiozzi: «Perché? Figlia mia! Nadia… Perché?»
Accarezzo la foto, sentendo il peso della perdita e della confusione che mi travolgono. Le gambe cedono e mi inginocchio sul marciapiede, senza smettere di piangere e urlare.
Poi, con la coda dell’occhio, noto un movimento. Mi giro e vedo la berlina nera allontanarsi, silenziosa. Come un’ombra, si dissolve nel vento che piano piano si placa.