È la stessa sensazione, sulla pelle, sul volto, quando apro la finestra del salone e il Buster solca lo spirito, scuotendo la veste, foggiandoti i capelli.
Sei entrata nella mia vita nel modo in cui fanno certe sfide, e una sfida è stata la nostra storia. Una sfida continua.
Siamo andati lontano, Enri, siamo andati oltre, questa volta.
È diventata una cosa più grande di noi.
Spingo il Wrangler sulla sabbia rossa della strada; il sole di traverso, la dannata polvere, l’ancor più dannata guida a destra. Mai abituato.
Ci sono troppi mezzi fermi sullo spiazzo, troppi SUV impolverati, e i tendaggi e il viavai.
Siamo andati oltre.
La Serpe non vale tutto questo.
Fermo il fuoristrada in mezzo a parecchi altri, ma è come se tutti aspettassero solo me; smonto tra sguardi attenti, con la maglietta già sudata, il cappello calcato a caso, i Ray-Ban segnati.
E poi il caldo, il frinire della savana, e tutti questi occhi addosso, la grande, immensa roccia rossa stagliata contro l’orizzonte che sembra guardarci a sua volta, tutti quanti, senza alcun interesse.
Io e te, ovunque tu sia in mezzo a questa gente che non conosco e neanche vorrei avere intorno.
“Mai puntuale,” la voce è gioviale e lo sguardo rubicondo, s’avvicina con la mano già tesa, “come a lezione, mai puntuale.”
Sorrido quel poco che la vita, nel nulla assolato dell’Uluru-Kata, permette. Di Noah Lang ricordo i sermoni più accorati sull’Etica Antropologica, a Ginevra, i modi cortesi e la bassa statura. Vestito di candido e khaki, col cappello a tesa corta, gli occhiali tondi e i capelli imbiancati, sembra sputato fuori da quegli anni senza averne passato alcuno: la sua stretta è energica nonostante il sorriso affabile.
“Ha voluto lei, sul serio?” chiedo già sapendo la risposta.
Lang apre le mani come a dire che non ha avuto scelta, ma con lo sguardo di chi non aspettava altro nella vita. “Supervisionerò la vostra contesa, e voi v’impegnerete a condurla nel rispetto delle regole.”
Acconsento sapendo di mentire.
Un vecchio docente e la calca di testimoni, le auto, la savana, il caldo, e Uluru sullo sfondo, e questa terra in cui siamo venuti a vivere per un tuo dannato capriccio.
Tu. In piedi accanto al Wrangler bianco, che li abbiamo comprati uguali ma di colore opposto, la camicia di lino bordeaux, i calzoncini chiari, gli stivali corti. E poi la treccia scura che porti sulla spalla, e le braccia conserte, lo sguardo cupo.
Sei ancora tutto quello che ho voluto lasciar entrare nella mia vita, come il vento dalla finestra del salone, nonostante il logorio di questi mesi, il tempo andato inseguendo una nuova, enorme chimera.
I nostri occhi sono allacciati alla maniera del filo spinato: stretti a forza, per ganci e piegature.
Vorrei dirtelo e mi trattengo, come per tutto il viaggio da Melbourne.
“Animo!” Lang non sta più nella pelle, raduna gli astanti, attacca un sermone ispirato in ottimo inglese. La posta in gioco della sfida, le condizioni, le regole.
Se all’ombra di Uluru ci saranno davvero i resti della Serpe Arcobaleno avrai vinto tu. Se non ci sarà nulla, la gloria è mia.
Un applauso e i versi d’entusiasmo: anche qui, dall’altra parte del mondo, amano gli spargimenti di sangue. Il mio, il tuo. Il sangue.
Non riesco a smettere di guardarti.
Il sole scalda, la terra di più. I lavoranti scavano e picchettano dove li hai disposti, lungo l’arco che è la proiezione dell’Ayers-Rock, calcolato seguendo le obsolete stime di Krafft, cento dannati anni fa.
“Enri.”
M’accosto sapendo che svicolerai, e così giri sui tacchi, lasciando il tuo posto accanto al tendone, cercando la copertura dei dispenser d’acqua.
“Enri, devo parlarti.”
Alzi gli occhi dietro le lenti scure, quel modo nervoso che hai d’aggrapparti alle cose, i capelli, la cintura. “Non abbiamo niente da dirci.”
“Io sì, invece.” Levo i Ray-Ban perché tu veda che non è più solo una questione d’orgoglio. “Siamo andati oltre, Enri. Troppo oltre. Questa cosa è più grande di te, di noi.”
“Vattene. Non possiamo parlare, è nelle regole della sfida.”
“Me ne frego della sfida. Apri gli occhi: non c’è niente là fuori, nulla, nessuna Serpe primordiale. Ti farai coprire di ridicolo.”
“Mi stai annoiando.”
“Stai usando i calcoli di un esploratore d’un secolo fa per cercare una leggenda Aborigena, Enri, Cristo: come puoi pensare che sia reale?!”
Sorridi, appena, quel modo distaccato che di te non ho mai amato. “Ho abbandonato i calcoli di Krafft da parecchio. Ho trovato una fonte più attendibile.”
Freddo nella calura. “Che significa?”
Abbassi le lenti e stavolta anche gli occhi ti sorridono in quel modo che non amo. “Che troverò la Serpe, che riscriverò un pezzo di Storia.”
Scuoto il capo, amaro. “Fermati finché puoi. Ti demoliranno questa volta: stai sbagliando tutto.”
“Non è quello che vuoi?”
Tono di sfida, acre; per noi è sempre stato questo: una sfida.
“No.”
Uno schiarire di voce e Lang compare nel vano del tendone, bianco come i suoi capelli, l’espressione vaga di chi non capita per caso. “Sarebbe proibito,” commenta sornione, “per voi due parlarvi. Ne va della credibilità della contesa.”
“Si stava solo esibendo,” scandisci pungente, “in provocazioni da stadio. Grazie dell’intervento, professore.”
Lasci l’alveo sicuro dell’ombra per la savana, occhiali in viso, un nuovo giro di controllo a tutti i siti di scavo. Io attendo il biasimo di Lang, lui si limita a scuotere il capo, senza più un sorriso a decorarlo. “Non fossi il giudice,” commenta, “direi a entrambi di lasciar perdere questa follia.”
“Sa perché non lo farà, professore?”
Alza di spalle che in fondo non è importante.
Per causa mia, non lo dico.
Perché siamo noi stessi una sfida.
Non dico neppure questo.
Il buio è calato. Falò e fari perimetrali sono il segno della nostra presenza in una landa altrimenti vuota.
Uluru osserva, ammantato di tenebra e confuso con la notte.
Seduto su una seggiola pieghevole, la testa sulla fiancata del Wrangler: sono e non sono qui, sulle retine il fuoco, più dietro la villa di Melbourne, casa. La nostra casa.
Il salotto che un tempo era spoglio e negli anni abbiamo riempito coi sogni più vividi e antichi, quelli scavati fuori dalla roccia, la terra, in cento parti del mondo. L’ossessione che abbiamo reso professione, insieme.
Compari e scompari di continuo nel mio personale oblio, ora in piedi accanto alla finestra ora insieme, seduti sul divano, le tue gambe raccolte, la sottoveste scura, i giochi di luce soffusa sulla pelle. Le maschere Xibalba sulla parete sorridono dei nostri silenzi, e così noi.
Enri, occhi allacciati nel modo dei fili di seta: senza sforzo né tensione, Devo chiederti una cosa.
Una mano sulla spalla cancella i ricordi, Melbourne e ogni cosa: un sussulto riporta qui i fuochi, le luci, la savana e Uluru sullo sfondo.
“Ah, se c’è di mezzo il personale,” Lang poggia una sedia accanto alla mia, siede con i primi segni della vecchiaia mal celati da un verso di fastidio. Sorride come sorridono gli anziani. “In che modo siete arrivati a tutto questo?”
La saliva ha un gusto amaro.
“È lunga da spiegare, professore.”
Guarda intorno come vedesse il nulla per la prima volta. “Ha impegni per la serata, figliolo?”
Mi sfugge un riso ancor più amaro.
“È iniziato come un gioco: sfidarsi a trovare l’anomalia, il raro, il fuori dal comune. Un reperto, una meraviglia dimenticata, un luogo, qualsiasi cosa. La competizione. Quando questo non è più bastato siamo passati alle leggende. Siamo venuti a vivere in Australia per questo. E ogni sfida ci ha avvelenato di più, il desiderio di vincere a ogni costo.”
“Fino al punto di voler trovare la Serpe Arcobaleno?”
“Fino al punto.”
Non possiamo essere andati così oltre, Enri. Non siamo più noi.
Lang sospira con le labbra piegate in basso. “Facevo la dottoressa una persona più razionale.”
“Io lo avrei detto di me stesso.”
Sorride appena. “Forse dovreste smettere di cercare il vostro equilibrio nei detriti del mondo che fu e guardare di più in quelli che portate sepolti dentro. Dentro di voi, dico.”
Sento freddo e non è la notte. “È un gioco al massacro, e può finire solo in un modo.”
“Io credo che questo,” accenna e le sue mani sembrano disegnare le spire del Serpente, “possa essere un buon modo per scrivere la parola fine.”
“Alla carriera di Enri, certo. A noi, certo.” Ricordo le sue parole, oggi. “Ha menzionato una nuova fonte, più attendibile di Krafft. Ha idea di cosa si riferisca?”
“Non dovrei dirglielo, da giudice di gara.”
“Lo faccia da ex docente, allora.”
Lang sospira ancora, controlla intorno, ritorna con meno luce in volto. “Ha ricevuto una soffiata, un paio di mesi fa: qualcuno le ha inviato studi geologici di quest’area incrociati con il rapporto Sulner, che vuole Uluru come tana primordiale della Serpe. Dove cercherebbe lei i resti di un essere mitologico se non all’ombra della sua dimora?”
Brivido.
“Chi le ha mandato quei documenti?”
“Questo non lo so. E le sconsiglio di chiederlo alla dottoressa: sarebbe un’infrazione alle regole della sfida sulla quale non chiuderò un occhio.”
Sorriderei se non sapessi di cosa stiamo parlando.
Qualcuno la sta aiutando. L’ha messa su una pista che non può essere reale. Qualcuno che vuole rovinarle la reputazione, o forse no.
Enri, come quella sera, in salone, noi due, seduti accanto, Devo chiederti una cosa.
Mi alzo dalla seggiola seguendo l’impulso di andarla a cercare, Lang frena con un gesto della mano. “Non può farlo, figliolo. Ne va della sfida.”
Risiedo e Uluru osserva, colosso nel buio.
I fuochi e la notte, noi due insieme, stesi sul grande divano.
Il giorno scorre, sotto il sole e i refoli d’aria calda.
Alterno il mio tempo tra la seggiola, il furgone dei freschi e le passeggiate lontano dagli scavi; la grande roccia rossa, per quanto m’avvicini, rimane lontana e insondabile.
La noia e l’attesa scandiscono ore infinite.
A volte siedo dove sento essere il mio posto: nella sabbia, tra scinchi e scorpioni, e vorrei restare lì senza più attendere nulla.
A volte torno al nostro salotto, e non ho idea se verrà un tempo in cui saremo lì ancora, entrambi, sotto lo sguardo delle maschere Xibalba.
È il vuoto feroce che cerco di riempire aprendo una finestra sul vento d’estate, che ci ricordi chi eravamo.
Lang, seduto, poetizza. Io, steso sul cofano del Wrangler, una coperta di stelle sulla testa, conto i fili che la vita ha intrecciato per me e li trovo troppo lontani. Tu sei lontana.
Un malessere che sembra lo stesso di questo posto: solo, nel nulla, vuoto.
Seduti di fronte, sulle poltrone in vimini, casa, senza una sola parola da dirci.
Insieme eppure altrove.
Altrove.
“Non c’è alcun serpente,” lo dico in un soffio, “solo conti da regolare. Cercherebbe anche Dio pur di vincere. Di vedermi perdere.”
“Dovete trovare un punto d’incontro, figliolo.”
“Temo sia tardi.”
“Non è mai tardi.”
Chiudo gli occhi e sogno il Buster tra i capelli, incorniciato nella finestra della sala, un dì d’estate.
Ti guardo di lontano, come troppe volte da quando abbiamo smesso di essere noi.
Ho ancora una cosa da chiederti, Enri. Ce l’ho lì da troppo tempo.
Vago e ritorno tra vicoli di sonnolenza che il caldo rende più densi: rimpiango l’hotel e l’aria condizionata.
Sembra un miraggio quando uno dei manovali si sbraccia e grida, e poi un secondo.
Conosco i falsi allarmi come si conoscono i propri ritmi del sonno.
Gli altri che accorrono, e scavano intorno, l’entusiasmo cresce così il volume delle urla, e il caldo non c’è più, il sole non brucia, Uluru non incombe, distante e pacifico.
“Sarà il caso d’andare a vedere?”
Lang si terge il sudore con un fazzoletto, scruta a occhi strizzati nella calura, s’aggiusta il cappello.
“Lasci perdere. Non ne vale la pena.”
Aspetto e calo la tesa per non vedere, non sentire, restare ancora nel mondo incolore che ho scelto come rifugio: uno nel quale siamo ancora noi.
Altri lavoratori iniziano ad agitarsi, qua e là, ma non ti darò la soddisfazione di sembrare interessato.
Scavano, puliscono e la terra risuona di richiami.
Gridano la Serpe! e sento un certo freddo.
Lang si sforza di vedere e capire, invano. “Beh, sembra che qualcosa stia succedendo.”
Non mi alzerò da qui, neanche ora che mi guardi con tutta la sfida del mondo, distanti come siamo, divisi dal sole, la sabbia, l’azzurro del cielo.
Distanti.
Un vecchio professore vestito di bianco s’avvia nella luce, lo accompagnano a vedere, controllare, qua e là lungo la linea degli scavi. Quando mi fa cenno di raggiungerlo capisco che siamo al punto di non ritorno.
M’alzo e marcio nella sabbia col passo dei morti che camminano, una non-vita ancora ferma a giorni passati, svaniti, vincolati al dogma di te. Cammino e il caldo, questa terra, mi chiamano: l’ombra s’allunga nel mezzodì.
Comincio a vederle, le ossa, le vertebre, che si snodano tra un blocco e l’altro della roccia; grandi, lunghe, distese, affiorano qua e là per decine di metri, sparse, spaccate, pure lì, davanti a noi, davanti al sole, il cielo, e Uluru beffardo.
La Serpe Arcobaleno ha scelto questo posto per morire e farsi ritrovare, da te, eoni dopo.
“È,” persino Lang ha l’entusiasmo dei bambini, “immenso…”
Sorridi nel tuo modo spietato. Sorridi con le mani aperte come a dire che hai sempre avuto ragione, sul mito, la leggenda, la vita, il mondo. Noi.
Mesi di studi e giorni di scavi, nel sole, per guardarmi in silenzio di fronte alla sconfitta: solo per questo.
Non ci starà mai, questo mostro, in salotto.
“Se solo potessi vedere la tua faccia,” parli in un sibilo fiero.
Annuisco, in silenzio, l’enorme abominio dormiente poco diverso dal male che ho dentro.
C’è una cosa che devo chiederti, Enri.
E il giubilo, i cappelli lanciati in aria, le birre in lattina portate di fretta. Uluru che attende la nostra resa dei conti.
“Sei stata brava,” lo dico in un soffio perché la montagna non senta.
“Per te sono stata sempre questo,” e hai nella voce tutto l’odio di questa terra bruciata, “qualcuno cui dire brava.”
Ti sbagli, Enri, non sai quanto.
“Brava davvero: lasciare i deliri di Krafft per Sulner e uno studio geologico d’avanguardia su un’area fuori dai bacini di ricerca archeologica. Ottima intuizione.”
Mi guardi con l’astio che monta e qualcosa di più. “Tu cosa ne sai?”
“Cerca all’ombra di Uluru: non serve neanche scavare a fondo.”
“Tu,” la voce ti muore e un pezzo di me con essa, “cosa ne sai?!”
M’avvio nella piana infuocata, il cappello calato sugli occhi e più d’un baleno dentro.
“Direi che abbiamo il verdetto della gara,” Lang sorride, gioviale e accaldato: stende una mano e il trionfo è tuo.
C’è stato un tempo in cui amavo il tuo irrompere nella mia vita come fa il vento fresco d’estate in questa terra rovente.
Siedo sul sedile del Wrangler con la tua mano a bloccare la portiera. Lo sguardo che hai è ferito, e più attonito ancora di quando hai visto la Serpe primordiale.
“Sei,” mormori con voce rotta, “sei stato tu.”
Fisso il volante, il parabrezza impolverato, e Uluru sullo sfondo.
“Sei stato tu a mandarmi quegli studi, e il rapporto Sulner…”
Ti guardo come si guardano le cose belle e lontane. “Basta sfide, Enri. Hanno cambiato chi eravamo, avvelenato quanto di buono c’era.”
“Non puoi capire. Non hai mai capito.”
“Volevo che questa follia finisse. E volevo che vincessi tu.”
“Ti aspetti un grazie?”
Hai lo sguardo della sfida, quello che ormai fa parte di te.
“Non mi aspetto nulla. Ma aspetto te, a Melbourne. A casa.”
Scuoti il capo, i begli occhi frementi, la treccia sulla spalla. “Non finisce qui.”
“Non finisce mai, se non sei anche tu a volerlo.”
Indichi gli scavi e la mano ti trema. “Ho una scoperta epocale da mostrare al mondo. Tornaci tu a Melbourne.”
“E quello che farò.”
Chiudo la portiera che stavolta non trattieni.
“Non capisci. Non hai mai capito.”
“Neanche tu, Enri.” Metto in moto e il Wrangler romba sordo. “A proposito, controlla bene la sezione intermedia della carcassa. Non vorrei che la tua Serpe…” Ti chiamano sbracciandosi da uno dei siti, c’è qualcosa che devi vedere. Qualcosa di grosso e inaspettato.
Vorrei sorridere ma non ci riesco.
“…avesse femori di quattro metri.”
Guardi me e i lavoranti con l’orrore negli occhi.
Uluru scruta entrambi mentre distruggiamo quel che resta di noi.
Faccio inversione e guido via, nella polvere rossa, senza fretta, come certi giorni che scorrono privi d’enfasi, nel caldo, d’estate, le ore.
Il Buster è tornato.
Fresco, intenso, abbatte la calura e spazza la costa, l’entroterra. Rigenera questo angolo lontano di mondo.
Hai vinto la sfida, Enri, e avuto la tua scoperta d’eccezione. Il più grosso dei trofei.
Sempre più studiosi sostengono che l’Australia è un giacimento di fossili, e che ci sono alcuni dei sauropodi più grandi che il mondo abbia mai visto: aspettano solo d’essere portati alla luce.
Hai sempre odiato i dinosauri.
Questo salotto parla di noi e di tutti i viaggi che abbiamo fatto assieme. Tutti i trofei che abbiamo conquistato, scavato fuori dalle viscere del mondo. Le maschere Xibalba, le poltrone in vimini, e questo divano.
Ogni cosa siamo noi, o lo eravamo.
Il Buster è tornato: gonfia le tende e scuote le frasche, così mi alzo, vado alla finestra.
La apro lasciando che il vento decori i miei capelli, agiti la camicia, accarezzi quel che resta del mio spirito esausto.
Ho sempre quella domanda da farti, Enri, sempre la stessa.
Ne è valsa la pena?
Sorrido a occhi chiusi in questo salotto che abbiamo costruito insieme.
Ma tu non sei con me.