Staffetta 7 - Episodio 1
Achillu
Il mio primo giorno di lezioni all’università era finito e mi sentivo frastornato da tutte le nozioni accumulate; però mi sentivo addosso l’entusiasmo della novità e non vedevo l’ora di sistemare gli appunti.
Attraversai veloce il corridoio al terzo piano del collegio ma mi bloccai davanti alla porta della camera: era accostata. Il cuore mi saltò in gola. Sapevo che, prima o poi, avrei dovuto conoscere il mio compagno di stanza; ecco arrivato il momento! E non mi sentivo pronto.
Guardai a terra: Ma che mi sono messo stamattina? Le Converse con i pantaloni? Chissà cosa penserà… aiuto! Infilai la polo dentro la cintura, poi la tolsi di nuovo. No, sta meglio fuori. I capelli! Oddio, chissà che casino… I libri in mezzo alle gambe, le dita a pettine per sistemarli a memoria, ma giusto una scusa per prendere un altro po’ di tempo. Un sospiro profondo e, alla fine, aprii.
Era seduto sul davanzale della finestra con una gamba penzoloni e si girò verso di me. Mi sforzai di guardarlo negli occhi per non sembrare maleducato; non volevo che pensasse chissà cosa se gli avessi fissato i dreadlock arcobaleno o i jeans strappati.
«Beh?»
In tutto quel marasma di pensieri ero rimasto imbambolato. «Ciao, sono Piero.» Stesi il braccio e feci un paio di passi avanti verso di lui.
Tirò su la destra e guardò la sigaretta; l’appoggiò con cura sul davanzale, si pulì la mano sulla felpa e ricambiò il saluto quasi senza stringere. «Ross.» Si appoggiò di nuovo allo stipite e aspirò un’altra boccata, soffiando il fumo verso il cortile.
Non sapendo cos’altro dire, appoggiai i libri sul letto e andai a chiudere la porta.
«Ah, sei la matricola che abita qui?»
«Sì.»
«Quello è il mio letto.»
«Scusami, non lo sapevo. Mi avevano detto che…»
«Adesso scambi le lenzuola.»
«Ok, lo faccio subito.» Aprii l’armadio per cercare una tuta; trovai una sorpresa.
«Ho spostato la tua roba, quello è il mio.»
«Scusa.» Scacciai dalla mente l’immagine disgustosa di un estraneo che aveva toccato i miei vestiti. Aprii l’altro armadio ed estrassi qualcosa dal mucchio informe che Ross aveva creato.
«Dove vai?»
«A cambiarmi.»
«Non devi rifare i letti?»
Dammi tregua, per favore! «Faccio presto.»
«Mm!»
Anche in bagno tutte le mie cose erano state spostate. Ero stato attento a prendermi la metà esatta di tutti gli spazi disponibili, ma evidentemente mi ero preso la metà sbagliata.
Tornai in camera e rifeci i letti. Ross rimase tutto il tempo seduto sul davanzale, apparentemente disinteressato.
«Ho finito.»
«Vuoi una sigaretta?»
«Non fumo, grazie.»
«Come vuoi.» Scese dalla finestra e controllò il letto. «Sei stato bravo. Adesso vieni in atrio a giocare.»
«Preferisco sistemare gli appunti.»
«Non era una domanda. Vieni giù con me, matricola!» Aprì la porta e attese sulla soglia.
Rimasi pietrificato. Mi avevano detto che c’erano goliardia e nonnismo in collegio, ma “acqua di rose rispetto a ciò che succedeva una volta”. Poi si erano divertiti a raccontarmi episodi assurdi di venti o quarant’anni prima; non so se veri o inventati, ma erano riusciti a terrorizzarmi.
«Allora, ti muovi?»
Mi feci coraggio e m’incamminai. Scendemmo le scale. In atrio c’erano già alcune matricole, allineate contro il muro in silenzio, mentre ragazze e ragazzi degli altri anni vociavano e ridevano. Ross mi accompagnò al muro e poi si mischiò nel gruppo.
Fecero l’appello per controllare che ci fossimo tutti. Quando toccò a me, qualcuno disse: «Tira fuori la voce, matricola! Non ti sento!»
Non ero abituato a parlare a voce alta, ma ci provai: «Comandi, signore!» Andò bene. Una ragazza venne invece bersagliata da diversi «Parla più forte, matricola!» mentre gli anziani ridevano. Ringraziai il cielo che non fosse toccato a me.
Presero alcuni dei più robusti e li fecero lottare tra di loro. Meno male che ero mingherlino e non scelsero me. I perdenti vennero portati in cortile e bersagliati di gavettoni.
Poi ci fecero correre cantando la marcia di Topolino; al termine della gara arrivò un altro gavettone, che colpì anche me. L’acqua era fredda, ma fu anche una benedizione, perché così avrei potuto tornare in camera.
Una ragazza mi fermò: «Dove vai, te? Sei ancora asciutto. Torna in cortile.»
«Lascialo andare, non vedi che ha mezza tuta zuppa?» Era Ross.
«Eddai, ma se è bagnato solo di striscio? Se tornano tutti di sopra finisce il divertimento.»
«Lui è la mia matricola e decido io che è zuppo, ok?»
«Ok, ma che palle, Ross!» Poi, rivolgendosi a me: «Te, va’ via, va’!»
«E ricordati di asciugare, che non voglio vedere acqua per terra quando torno in stanza!» aggiunse Ross.
Annuii.
«Come hai detto? Parla più forte, matricola!»
«Sì, signore!»
Strizzai la tuta prima di rientrare in atrio e mi tolsi pure le scarpe, ma c’era acqua dappertutto, anche per i corridoi fino al terzo piano. Buttai la roba bagnata dentro il bidè e, non avendo altro a disposizione, presi la mia polo usata per pulire il pavimento. Quando ebbi finito di stendere, mi fiondai sotto la doccia; ah, che piacere caldo!
Staffetta 7 - Episodio 2
Hellionor
Non mi sentivo a disagio più di tanto, non mi sentivo toccato emotivamente o scosso. Quello che era capitato in cortile era ben poca cosa rispetto al sentirsi estraneo ogni giorno della propria vita.
«Eccolo qui, il nostro nipote eccentrico». Così mi apostrofava mia nonna, e avevo solo nove anni.
«Precoce anche a cagare il cazzo». Ribadiva mio padre, con quel linguaggio volgare che lo faceva sentire più virile.
Ero abituato a essere messo in disparte, a sentirmi a disagio anche quando non sarebbe stato il caso, a capire quando non mi si voleva intorno.
Le prospettive con il mio compagno di stanza non mi sembravano le migliori, ma tutto sommato non mi importava. Certo, ci avrei tenuto a fare bella impressione, ci avevo anche provato, ma non potevo fare molto più dell’essere quello che ero.
Lo avevo imparato in famiglia. Mi volevano bene, certo, e io lo sapevo e lo sentivo.
Ma non riuscivano a capirmi. Non ero ingenuo. Lo sono su tante cose, sui rapporti interpersonali, sulle dinamiche che muovono le relazioni, sulle donne e sull’amore, ma non sulla mia famiglia. Loro per me non hanno segreti.
In quinta elementare avevo portato a casa una serie di brochure sui collegi migliori per formare il carattere di un ragazzo dell’epoca moderna. Su uno era scritto proprio cosi: “tra le nostre mura i vostri figli diventeranno uomini di carattere pronti ad affrontare l’epoca moderna."
Loro non mi volevano tra i piedi e io non volevo stargli tra i piedi. Nessuno però mi avrebbe mandato via. Ovviamente.
Però le brochure le avevo portate io.
E se era una scelta mia, chi erano loro per impedirmi di fare quello che avevo piacere di fare?
Da quando avevo cominciato le scuole medie la mia vita era passata da un collegio all’altro, con compagni che pativano la situazione e poi io, che invece mi godevo l’idea di non essere messo ogni giorno a confronto con quei super ragazzoni dei miei fratelli e cugini, a non sentirmi a disagio perché mi piace leggere (orrore per mio padre) e mi piace studiare (orrore per i miei fratelli e cugini).
Alle volte ho stretto amicizie alle volte no. Non è mai stato un problema.
Mentre lavavo i denti dopo la doccia, aprii per sbaglio lo stipetto del bagno che ormai era diventato quello di Ross.
Riconobbi al volo la Sertralina, e qualche altra confezione che mi riservai di controllare dopo.
Quando finalmente uscii dal bagno, Ross era seduto alla scrivania.
«Oh finalmente, matricola. Pensavo che avessi deciso di trasferirti in pianta stabile nel bagno. Non te la sarai presa per il cortile?»
«Ma figurati. Sono ancora frastornato dal posto nuovo, ma mi abituerò in fretta».
Mi fissò per un lungo istante, e poi abbassò il capo con un cenno soddisfatto.
«Alle sette e mezza cominciano a servire la cena alla mensa. Se ti va, ti accompagno, così ti faccio vedere come funzionano le cose. Per oggi gli scherzi alle matricole sono finiti, ricominceremo domani, se te lo stavi chiedendo».
Mi sfuggì un sospiro di sollievo. Avrei finalmente potuto sistemare gli appunti della prima giornata di lezione.
Staffetta 7 - Episodio 3
Albemasia
In realtà me la sarei cavata benissimo anche da solo, non era certo la mia prima esperienza in una mensa studentesca quella, però accettai volentieri l’offerta di Ross, soprattutto perché ero pur sempre una matricola e girare per il collegio in compagnia di uno del terzo anno rappresentava un ottimo lasciapassare.
A quell’ora il locale non era molto affollato e dopo una breve fila ci sedemmo con i nostri vassoi a un tavolo non ancora occupato.
«Dimmi un po’, com’è che sei finito qui? Hai una borsa di studio o i tuoi hanno un sacco di grana?» mi domandò lui a bruciapelo. Poi, prima di darmi il tempo di rispondere, esclamò:
«No, non dirmelo: sei un raccomandato!» e simulò una smorfia di indignazione, prima di dedicarsi con entusiasmo al piatto di penne al ragù che aveva davanti.
«Raccomandato io? No, figurati», replicai con un ghigno scrollando la testa. «Borsa di studio», ammisi.
Subito dopo però, ansioso di cambiare argomento, feci un cenno ai suoi dreadlocks colorati, dicendo:
«Il tuo look è pazzesco. Mi piacciono un botto».
Ero certo che Ross avrebbe abboccato e infatti replicò con orgoglio:
«Ci sono voluti anni per averli così lunghi. Il colore, invece, è stato un’idea della mia ragazza. Cioè della mia ex…» aggiunse, rituffandosi nel piatto di pasta.
In quel momento la manica della felpa risalì sul suo avambraccio, lasciandogli un lembo di pelle scoperta e quello che vidi mi fece sussultare. Ross se ne accorse e si aggiustò subito la manica, ma l’imbarazzo durò appena un attimo, perché in quel momento ci raggiunse la stessa tipa che quel pomeriggio ci aveva dato dentro coi gavettoni.
«Eccoti qua», disse appoggiando una mano sulla spalla di Ross.
«Ciao Vale», la salutò lui.
Vista da vicino sembrava ancora più alta e ossuta di come mi era apparsa nell’atrio. Aveva capelli biondo cenere che le spiovevano sul viso spigoloso e esibiva diversi piercing al naso e al sopracciglio. Indossava un maglione oversize che le copriva le mani dalle unghie lunghissime e decorate. Sembrava mangiarsi Ross con gli occhi.
Poi si rivolse a me in tono ironico: «E tu matricola, non avrai sempre la tua guardia del corpo a guardarti le spalle. Nei prossimi giorni ci penso io a te.»
Io non risposi alla provocazione e tenni la testa sul mio piatto, mentre lei continuò la conversazione con Ross. Ma da quel momento sentii che la fame mi era passata.
La lampada della scrivania gettava un cono di luce giallastra sui miei appunti, ma io continuavo a tormentare la matita tra i denti, senza riuscire a concentrarmi.
Nonostante la stagione ancora calda, mi ero accorto che il mio compagno di stanza indossava sempre una felpa o una maglia a manica lunga. Quello che avevo visto sul suo braccio forse era il motivo di quel look così insolito per la stagione: sull'avambraccio diverse cicatrici risaltavano chiare in contrasto con la pelle nera di Ross ed erano rivelatrici di sottili tagli obliqui. Ero certo che non si trattasse di graffi casuali, né di un tentativo di suicidio: non ne avevano né la profondità, né l’angolazione.
Ma quello che mi aveva sorpreso era che alcuni segni erano recenti.
Era chiaro che Ross si tagliava.
Ora mi spiegavo la Sertralina nell’armadietto del bagno e tutti gli altri farmaci: il mio compagno non solo aveva un problema, ma ne aveva uno bello grosso!
E io di quel tipo di problemi ne sapevo qualcosa.
La porta della camera si aprì e Ross entrò, salutandomi con un cenno del capo. Senza parlare andò in bagno e dalla porta che aveva lasciato aperta lo vidi aprire lo stipetto ed estrarre qualcosa.
Poi con due falcate me lo ritrovai davanti che mi fissava, reggendo una boccetta di vetro che mi agitò davanti. Le compresse al suo interno tintinnarono con un suono cristallino.
«Scommetto che hai pure ficcato il naso tra le mie cose, vero?»
Negare avrebbe solo peggiorato la situazione, quindi scelsi di stare zitto.
«Mi sono accorto che mi fissavi il braccio prima, giù alla mensa. Non sai farti i fatti tuoi?» incalzò lui.
«Ross non è così, credimi…» tentai di giustificarmi. «Comunque stai tranquillo, non lo dico a nessuno», aggiunsi per rassicurarlo.
«Sai cosa me ne frega!», replicò lui voltandomi la schiena in un improvviso moto di stizza.
«È vero, ho riconosciuto il flacone quando l’ho visto sulla mensolina», riconobbi.
«E ti sei messo a curiosare in giro per sapere come mai mi impasticco, vero?» La sua era una voce ferita.
«Non ne ho avuto bisogno… Conosco bene quel farmaco. L’ho prendevo anch’io», ammisi con una certa riluttanza.
Ross si voltò: lo sguardo che mi lanciò aveva perso ogni traccia di ostilità. Ora il suo volto aveva assunto un’espressione di stupore misto a curiosità.
Staffetta 7 – Episodio 4
M. Mark o’Knee
Era la pura verità. “Quel farmaco” mi aveva aiutato parecchio. Non posso arrivare a dire che mi avesse salvato la vita, ma ci era andato molto vicino in almeno un paio d’occasioni. E, se non altro, aveva represso sul nascere la strisciante tentazione di appropriarmi di nascosto di un paio di lamette nell’armadietto di mio padre o, semplicemente, di acquistarne una confezione dal tabaccaio e ricamarmi la pelle, come avevo scoperto stava facendo Ross.
È vero, passare da un collegio all’altro; sentirmi in qualche modo superiore ai miei compagni di scuola che non si erano, diciamo così, internati là per libera scelta; essere al riparo dal confronto, già perso in partenza, con i miei fratelli e cugini… Be’, sì, tutte queste cose avevano, o avevano avuto, un peso importante per bilanciare la mia viscerale depressione. Ma sapevo che il mio relativo benessere era solo una sensazione di facciata, un finto senso di superiorità dovuto solo al fatto che nella maggior parte delle occasioni tenevo lo sguardo basso, diretto a chi, in qualche modo, stava peggio di me. E poi, magari, che stessero peggio ero solo io che lo pensavo.
Avevo confessato queste mie debolezze soltanto a una persona, una delle rarissime vere amicizie che ero riuscito a instaurare nel mio vagare da una camerata all’altra, verso la fine del secondo anno di liceo. Era una ragazza mia coetanea e che per certi versi Vale mi aveva riportato in mente: tutta pelle e ossa, con gli occhi bistrati e quasi sempre arrossati; con i capelli neri tagliati cortissimi e un giubbino nero di pelle perennemente addosso.
Seduta per terra in un angolo della mia camera, non si era persa una sillaba del mio racconto e, alla fine, quando entrambi avevamo le lacrime in pelle, si era alzata di scatto, aveva raggiunto la sua stanza ed era tornata da me con un piccolo flacone di vetro tintinnante di invitanti pastiglie azzurro cielo.
«Da allora, quegli angioletti e io siamo diventati quasi inseparabili. Mi hanno accompagnato in tutti i miei pellegrinaggi. È solo da un paio d’anni a questa parte che riesco a farne a meno per periodi sempre più lunghi. L’ultima volta che ne ho presa una? Giusto poco prima dello scorso Natale, durante una classica vacanza in famiglia il cui unico risultato è stato avere la conferma che tutto va a gonfie vele. Cioè, che né mio padre, né i miei fratelli e cugini hanno cambiato opinione nei miei confronti.»
Seduto come al solito sul davanzale della finestra, i dreadlock immersi nel fumo azzurrognolo dell’ennesima sigaretta, neanche Ross si era perso una parola della mia storia, che era sgorgata spontanea dopo aver svelato che anch’io avevo fatto – e facevo – uso della Sertralina. Nei suoi occhi avevo visto alternarsi momenti di stupore e di qualcos’altro, qualcosa di ineffabile che avrei anche potuto definire come comprensione, empatia.
Forse, lo scoprire che in fondo avevamo in comune molto più di quello che ci distingueva stava riuscendo ad aprire una breccia, a scalfire il suo muro di ostentata sicurezza, i cui mattoni erano soprattutto le più o meno feroci goliardate indirizzate a me come alle altre matricole del collegio.
Dopo ciò che avevo scoperto, avevo chiaro in mente che il mio compagno di camera era molto meno cattivo di come amava presentarsi; era chiaro che fare un po’ il bullo e mischiarsi agli altri “vecchi”, se non addirittura aizzarli a tormentare gli ultimi arrivati, era solo un fragile paravento, una cortina di fumo oltre la quale regnavano insicurezze e fragilità che, dopotutto, conoscevo anche troppo bene.
Un bussare improvviso e non troppo discreto alla porta della camera arrivò a interrompere quel momento così particolare, che avrebbe anche potuto evolversi in una qualche forma di… No, non dico di amicizia, ma almeno di maggior confidenza fra me e il mio compagno di stanza.
«Ah, ecco la Vale», disse, staccandosi dal davanzale e dirigendosi verso l’uscita. Poi, già con un piede oltre la porta, si voltò e rimase un attimo a guardarmi.
«Certo che anche te ne hai passate. E non hai neanche la pelle nera.»
Staffetta 7 – Episodio 5
Susanna
Achillu
Il mio primo giorno di lezioni all’università era finito e mi sentivo frastornato da tutte le nozioni accumulate; però mi sentivo addosso l’entusiasmo della novità e non vedevo l’ora di sistemare gli appunti.
Attraversai veloce il corridoio al terzo piano del collegio ma mi bloccai davanti alla porta della camera: era accostata. Il cuore mi saltò in gola. Sapevo che, prima o poi, avrei dovuto conoscere il mio compagno di stanza; ecco arrivato il momento! E non mi sentivo pronto.
Guardai a terra: Ma che mi sono messo stamattina? Le Converse con i pantaloni? Chissà cosa penserà… aiuto! Infilai la polo dentro la cintura, poi la tolsi di nuovo. No, sta meglio fuori. I capelli! Oddio, chissà che casino… I libri in mezzo alle gambe, le dita a pettine per sistemarli a memoria, ma giusto una scusa per prendere un altro po’ di tempo. Un sospiro profondo e, alla fine, aprii.
Era seduto sul davanzale della finestra con una gamba penzoloni e si girò verso di me. Mi sforzai di guardarlo negli occhi per non sembrare maleducato; non volevo che pensasse chissà cosa se gli avessi fissato i dreadlock arcobaleno o i jeans strappati.
«Beh?»
In tutto quel marasma di pensieri ero rimasto imbambolato. «Ciao, sono Piero.» Stesi il braccio e feci un paio di passi avanti verso di lui.
Tirò su la destra e guardò la sigaretta; l’appoggiò con cura sul davanzale, si pulì la mano sulla felpa e ricambiò il saluto quasi senza stringere. «Ross.» Si appoggiò di nuovo allo stipite e aspirò un’altra boccata, soffiando il fumo verso il cortile.
Non sapendo cos’altro dire, appoggiai i libri sul letto e andai a chiudere la porta.
«Ah, sei la matricola che abita qui?»
«Sì.»
«Quello è il mio letto.»
«Scusami, non lo sapevo. Mi avevano detto che…»
«Adesso scambi le lenzuola.»
«Ok, lo faccio subito.» Aprii l’armadio per cercare una tuta; trovai una sorpresa.
«Ho spostato la tua roba, quello è il mio.»
«Scusa.» Scacciai dalla mente l’immagine disgustosa di un estraneo che aveva toccato i miei vestiti. Aprii l’altro armadio ed estrassi qualcosa dal mucchio informe che Ross aveva creato.
«Dove vai?»
«A cambiarmi.»
«Non devi rifare i letti?»
Dammi tregua, per favore! «Faccio presto.»
«Mm!»
Anche in bagno tutte le mie cose erano state spostate. Ero stato attento a prendermi la metà esatta di tutti gli spazi disponibili, ma evidentemente mi ero preso la metà sbagliata.
Tornai in camera e rifeci i letti. Ross rimase tutto il tempo seduto sul davanzale, apparentemente disinteressato.
«Ho finito.»
«Vuoi una sigaretta?»
«Non fumo, grazie.»
«Come vuoi.» Scese dalla finestra e controllò il letto. «Sei stato bravo. Adesso vieni in atrio a giocare.»
«Preferisco sistemare gli appunti.»
«Non era una domanda. Vieni giù con me, matricola!» Aprì la porta e attese sulla soglia.
Rimasi pietrificato. Mi avevano detto che c’erano goliardia e nonnismo in collegio, ma “acqua di rose rispetto a ciò che succedeva una volta”. Poi si erano divertiti a raccontarmi episodi assurdi di venti o quarant’anni prima; non so se veri o inventati, ma erano riusciti a terrorizzarmi.
«Allora, ti muovi?»
Mi feci coraggio e m’incamminai. Scendemmo le scale. In atrio c’erano già alcune matricole, allineate contro il muro in silenzio, mentre ragazze e ragazzi degli altri anni vociavano e ridevano. Ross mi accompagnò al muro e poi si mischiò nel gruppo.
Fecero l’appello per controllare che ci fossimo tutti. Quando toccò a me, qualcuno disse: «Tira fuori la voce, matricola! Non ti sento!»
Non ero abituato a parlare a voce alta, ma ci provai: «Comandi, signore!» Andò bene. Una ragazza venne invece bersagliata da diversi «Parla più forte, matricola!» mentre gli anziani ridevano. Ringraziai il cielo che non fosse toccato a me.
Presero alcuni dei più robusti e li fecero lottare tra di loro. Meno male che ero mingherlino e non scelsero me. I perdenti vennero portati in cortile e bersagliati di gavettoni.
Poi ci fecero correre cantando la marcia di Topolino; al termine della gara arrivò un altro gavettone, che colpì anche me. L’acqua era fredda, ma fu anche una benedizione, perché così avrei potuto tornare in camera.
Una ragazza mi fermò: «Dove vai, te? Sei ancora asciutto. Torna in cortile.»
«Lascialo andare, non vedi che ha mezza tuta zuppa?» Era Ross.
«Eddai, ma se è bagnato solo di striscio? Se tornano tutti di sopra finisce il divertimento.»
«Lui è la mia matricola e decido io che è zuppo, ok?»
«Ok, ma che palle, Ross!» Poi, rivolgendosi a me: «Te, va’ via, va’!»
«E ricordati di asciugare, che non voglio vedere acqua per terra quando torno in stanza!» aggiunse Ross.
Annuii.
«Come hai detto? Parla più forte, matricola!»
«Sì, signore!»
Strizzai la tuta prima di rientrare in atrio e mi tolsi pure le scarpe, ma c’era acqua dappertutto, anche per i corridoi fino al terzo piano. Buttai la roba bagnata dentro il bidè e, non avendo altro a disposizione, presi la mia polo usata per pulire il pavimento. Quando ebbi finito di stendere, mi fiondai sotto la doccia; ah, che piacere caldo!
Staffetta 7 - Episodio 2
Hellionor
Non mi sentivo a disagio più di tanto, non mi sentivo toccato emotivamente o scosso. Quello che era capitato in cortile era ben poca cosa rispetto al sentirsi estraneo ogni giorno della propria vita.
«Eccolo qui, il nostro nipote eccentrico». Così mi apostrofava mia nonna, e avevo solo nove anni.
«Precoce anche a cagare il cazzo». Ribadiva mio padre, con quel linguaggio volgare che lo faceva sentire più virile.
Ero abituato a essere messo in disparte, a sentirmi a disagio anche quando non sarebbe stato il caso, a capire quando non mi si voleva intorno.
Le prospettive con il mio compagno di stanza non mi sembravano le migliori, ma tutto sommato non mi importava. Certo, ci avrei tenuto a fare bella impressione, ci avevo anche provato, ma non potevo fare molto più dell’essere quello che ero.
Lo avevo imparato in famiglia. Mi volevano bene, certo, e io lo sapevo e lo sentivo.
Ma non riuscivano a capirmi. Non ero ingenuo. Lo sono su tante cose, sui rapporti interpersonali, sulle dinamiche che muovono le relazioni, sulle donne e sull’amore, ma non sulla mia famiglia. Loro per me non hanno segreti.
In quinta elementare avevo portato a casa una serie di brochure sui collegi migliori per formare il carattere di un ragazzo dell’epoca moderna. Su uno era scritto proprio cosi: “tra le nostre mura i vostri figli diventeranno uomini di carattere pronti ad affrontare l’epoca moderna."
Loro non mi volevano tra i piedi e io non volevo stargli tra i piedi. Nessuno però mi avrebbe mandato via. Ovviamente.
Però le brochure le avevo portate io.
E se era una scelta mia, chi erano loro per impedirmi di fare quello che avevo piacere di fare?
Da quando avevo cominciato le scuole medie la mia vita era passata da un collegio all’altro, con compagni che pativano la situazione e poi io, che invece mi godevo l’idea di non essere messo ogni giorno a confronto con quei super ragazzoni dei miei fratelli e cugini, a non sentirmi a disagio perché mi piace leggere (orrore per mio padre) e mi piace studiare (orrore per i miei fratelli e cugini).
Alle volte ho stretto amicizie alle volte no. Non è mai stato un problema.
Mentre lavavo i denti dopo la doccia, aprii per sbaglio lo stipetto del bagno che ormai era diventato quello di Ross.
Riconobbi al volo la Sertralina, e qualche altra confezione che mi riservai di controllare dopo.
Quando finalmente uscii dal bagno, Ross era seduto alla scrivania.
«Oh finalmente, matricola. Pensavo che avessi deciso di trasferirti in pianta stabile nel bagno. Non te la sarai presa per il cortile?»
«Ma figurati. Sono ancora frastornato dal posto nuovo, ma mi abituerò in fretta».
Mi fissò per un lungo istante, e poi abbassò il capo con un cenno soddisfatto.
«Alle sette e mezza cominciano a servire la cena alla mensa. Se ti va, ti accompagno, così ti faccio vedere come funzionano le cose. Per oggi gli scherzi alle matricole sono finiti, ricominceremo domani, se te lo stavi chiedendo».
Mi sfuggì un sospiro di sollievo. Avrei finalmente potuto sistemare gli appunti della prima giornata di lezione.
Staffetta 7 - Episodio 3
Albemasia
In realtà me la sarei cavata benissimo anche da solo, non era certo la mia prima esperienza in una mensa studentesca quella, però accettai volentieri l’offerta di Ross, soprattutto perché ero pur sempre una matricola e girare per il collegio in compagnia di uno del terzo anno rappresentava un ottimo lasciapassare.
A quell’ora il locale non era molto affollato e dopo una breve fila ci sedemmo con i nostri vassoi a un tavolo non ancora occupato.
«Dimmi un po’, com’è che sei finito qui? Hai una borsa di studio o i tuoi hanno un sacco di grana?» mi domandò lui a bruciapelo. Poi, prima di darmi il tempo di rispondere, esclamò:
«No, non dirmelo: sei un raccomandato!» e simulò una smorfia di indignazione, prima di dedicarsi con entusiasmo al piatto di penne al ragù che aveva davanti.
«Raccomandato io? No, figurati», replicai con un ghigno scrollando la testa. «Borsa di studio», ammisi.
Subito dopo però, ansioso di cambiare argomento, feci un cenno ai suoi dreadlocks colorati, dicendo:
«Il tuo look è pazzesco. Mi piacciono un botto».
Ero certo che Ross avrebbe abboccato e infatti replicò con orgoglio:
«Ci sono voluti anni per averli così lunghi. Il colore, invece, è stato un’idea della mia ragazza. Cioè della mia ex…» aggiunse, rituffandosi nel piatto di pasta.
In quel momento la manica della felpa risalì sul suo avambraccio, lasciandogli un lembo di pelle scoperta e quello che vidi mi fece sussultare. Ross se ne accorse e si aggiustò subito la manica, ma l’imbarazzo durò appena un attimo, perché in quel momento ci raggiunse la stessa tipa che quel pomeriggio ci aveva dato dentro coi gavettoni.
«Eccoti qua», disse appoggiando una mano sulla spalla di Ross.
«Ciao Vale», la salutò lui.
Vista da vicino sembrava ancora più alta e ossuta di come mi era apparsa nell’atrio. Aveva capelli biondo cenere che le spiovevano sul viso spigoloso e esibiva diversi piercing al naso e al sopracciglio. Indossava un maglione oversize che le copriva le mani dalle unghie lunghissime e decorate. Sembrava mangiarsi Ross con gli occhi.
Poi si rivolse a me in tono ironico: «E tu matricola, non avrai sempre la tua guardia del corpo a guardarti le spalle. Nei prossimi giorni ci penso io a te.»
Io non risposi alla provocazione e tenni la testa sul mio piatto, mentre lei continuò la conversazione con Ross. Ma da quel momento sentii che la fame mi era passata.
La lampada della scrivania gettava un cono di luce giallastra sui miei appunti, ma io continuavo a tormentare la matita tra i denti, senza riuscire a concentrarmi.
Nonostante la stagione ancora calda, mi ero accorto che il mio compagno di stanza indossava sempre una felpa o una maglia a manica lunga. Quello che avevo visto sul suo braccio forse era il motivo di quel look così insolito per la stagione: sull'avambraccio diverse cicatrici risaltavano chiare in contrasto con la pelle nera di Ross ed erano rivelatrici di sottili tagli obliqui. Ero certo che non si trattasse di graffi casuali, né di un tentativo di suicidio: non ne avevano né la profondità, né l’angolazione.
Ma quello che mi aveva sorpreso era che alcuni segni erano recenti.
Era chiaro che Ross si tagliava.
Ora mi spiegavo la Sertralina nell’armadietto del bagno e tutti gli altri farmaci: il mio compagno non solo aveva un problema, ma ne aveva uno bello grosso!
E io di quel tipo di problemi ne sapevo qualcosa.
La porta della camera si aprì e Ross entrò, salutandomi con un cenno del capo. Senza parlare andò in bagno e dalla porta che aveva lasciato aperta lo vidi aprire lo stipetto ed estrarre qualcosa.
Poi con due falcate me lo ritrovai davanti che mi fissava, reggendo una boccetta di vetro che mi agitò davanti. Le compresse al suo interno tintinnarono con un suono cristallino.
«Scommetto che hai pure ficcato il naso tra le mie cose, vero?»
Negare avrebbe solo peggiorato la situazione, quindi scelsi di stare zitto.
«Mi sono accorto che mi fissavi il braccio prima, giù alla mensa. Non sai farti i fatti tuoi?» incalzò lui.
«Ross non è così, credimi…» tentai di giustificarmi. «Comunque stai tranquillo, non lo dico a nessuno», aggiunsi per rassicurarlo.
«Sai cosa me ne frega!», replicò lui voltandomi la schiena in un improvviso moto di stizza.
«È vero, ho riconosciuto il flacone quando l’ho visto sulla mensolina», riconobbi.
«E ti sei messo a curiosare in giro per sapere come mai mi impasticco, vero?» La sua era una voce ferita.
«Non ne ho avuto bisogno… Conosco bene quel farmaco. L’ho prendevo anch’io», ammisi con una certa riluttanza.
Ross si voltò: lo sguardo che mi lanciò aveva perso ogni traccia di ostilità. Ora il suo volto aveva assunto un’espressione di stupore misto a curiosità.
Staffetta 7 – Episodio 4
M. Mark o’Knee
Era la pura verità. “Quel farmaco” mi aveva aiutato parecchio. Non posso arrivare a dire che mi avesse salvato la vita, ma ci era andato molto vicino in almeno un paio d’occasioni. E, se non altro, aveva represso sul nascere la strisciante tentazione di appropriarmi di nascosto di un paio di lamette nell’armadietto di mio padre o, semplicemente, di acquistarne una confezione dal tabaccaio e ricamarmi la pelle, come avevo scoperto stava facendo Ross.
È vero, passare da un collegio all’altro; sentirmi in qualche modo superiore ai miei compagni di scuola che non si erano, diciamo così, internati là per libera scelta; essere al riparo dal confronto, già perso in partenza, con i miei fratelli e cugini… Be’, sì, tutte queste cose avevano, o avevano avuto, un peso importante per bilanciare la mia viscerale depressione. Ma sapevo che il mio relativo benessere era solo una sensazione di facciata, un finto senso di superiorità dovuto solo al fatto che nella maggior parte delle occasioni tenevo lo sguardo basso, diretto a chi, in qualche modo, stava peggio di me. E poi, magari, che stessero peggio ero solo io che lo pensavo.
Avevo confessato queste mie debolezze soltanto a una persona, una delle rarissime vere amicizie che ero riuscito a instaurare nel mio vagare da una camerata all’altra, verso la fine del secondo anno di liceo. Era una ragazza mia coetanea e che per certi versi Vale mi aveva riportato in mente: tutta pelle e ossa, con gli occhi bistrati e quasi sempre arrossati; con i capelli neri tagliati cortissimi e un giubbino nero di pelle perennemente addosso.
Seduta per terra in un angolo della mia camera, non si era persa una sillaba del mio racconto e, alla fine, quando entrambi avevamo le lacrime in pelle, si era alzata di scatto, aveva raggiunto la sua stanza ed era tornata da me con un piccolo flacone di vetro tintinnante di invitanti pastiglie azzurro cielo.
«Da allora, quegli angioletti e io siamo diventati quasi inseparabili. Mi hanno accompagnato in tutti i miei pellegrinaggi. È solo da un paio d’anni a questa parte che riesco a farne a meno per periodi sempre più lunghi. L’ultima volta che ne ho presa una? Giusto poco prima dello scorso Natale, durante una classica vacanza in famiglia il cui unico risultato è stato avere la conferma che tutto va a gonfie vele. Cioè, che né mio padre, né i miei fratelli e cugini hanno cambiato opinione nei miei confronti.»
Seduto come al solito sul davanzale della finestra, i dreadlock immersi nel fumo azzurrognolo dell’ennesima sigaretta, neanche Ross si era perso una parola della mia storia, che era sgorgata spontanea dopo aver svelato che anch’io avevo fatto – e facevo – uso della Sertralina. Nei suoi occhi avevo visto alternarsi momenti di stupore e di qualcos’altro, qualcosa di ineffabile che avrei anche potuto definire come comprensione, empatia.
Forse, lo scoprire che in fondo avevamo in comune molto più di quello che ci distingueva stava riuscendo ad aprire una breccia, a scalfire il suo muro di ostentata sicurezza, i cui mattoni erano soprattutto le più o meno feroci goliardate indirizzate a me come alle altre matricole del collegio.
Dopo ciò che avevo scoperto, avevo chiaro in mente che il mio compagno di camera era molto meno cattivo di come amava presentarsi; era chiaro che fare un po’ il bullo e mischiarsi agli altri “vecchi”, se non addirittura aizzarli a tormentare gli ultimi arrivati, era solo un fragile paravento, una cortina di fumo oltre la quale regnavano insicurezze e fragilità che, dopotutto, conoscevo anche troppo bene.
Un bussare improvviso e non troppo discreto alla porta della camera arrivò a interrompere quel momento così particolare, che avrebbe anche potuto evolversi in una qualche forma di… No, non dico di amicizia, ma almeno di maggior confidenza fra me e il mio compagno di stanza.
«Ah, ecco la Vale», disse, staccandosi dal davanzale e dirigendosi verso l’uscita. Poi, già con un piede oltre la porta, si voltò e rimase un attimo a guardarmi.
«Certo che anche te ne hai passate. E non hai neanche la pelle nera.»
Staffetta 7 – Episodio 5
Susanna
«Patetico, Ross, sei patetico, sempre con ‘sta storia della pelle nera! Come se fosse il padre di tutti i problemi. Ehi, che hai tu, coso, come di chiami?»
«Si chiama Pietro e non ha niente, niente che ti debba interessare. Andiamo.»
«E se rispondessi io?»
Mi stupii da solo, per il tono che avevo usato per contestare quel suo intromettersi. Non lo avevo mai fatto con nessuno, ma c’è sempre una prima volta. Dicono.
A stupirmi ancora di più fu però il loro atteggiamento: niente battute o sfottò, come mi era capitato in passato quando avevo provato ad alzare un po’ la cresta, ma interesse. Presero dei cuscini e si sedettero davanti al mio letto, in silenzio, aspettando. Un invito: “Parla.”
«C’è che… in questi giorni mi sto chiedendo se esistano davvero gli amici. Cioè se sono amici quelli che incontrerei tutti i giorni, se ne avessi, e che all’improvviso spariscono senza un perché o se è quello che magari sentirei due volte l’anno ma è come se ci si fosse visti ieri e che sa come mi sento. Ah, è una cretinata!»
«Beh, magari per te, non per noi.»
Il resto del pomeriggio lo ricorderò per sempre: fu come fare… boh, decine di sedute dallo psicologo in poche ore, tutti assieme, a ruota libera.
Pazzesco, semplicemente pazzesco.
Alla fine, infantilmente ma tant’è, votammo: sì, eravamo amici e dovevamo fare il possibile per esserci l’un per l’altro, anche a costo di farci male.
In quel momento, proprio in quel momento, mi sentii protetto da quei loro atteggiamenti un po’ strafottenti, dalle loro fragilità nascoste che avevano condiviso. Difficile spiegarlo, ma io mi capivo e mi fidai. Per loro, c’ero e non ero un peso.
Di sicuro c’era ancora molto da tirar fuori, ma avevamo cominciato a sbrogliare le nostre matasse, da soli, e non era poca cosa, lo sapevamo bene. Fin troppo bene.
Da quel giorno facemmo il possibile per trovare un po’ di tempo solo per noi: ovviamente si fecero illazioni, talmente scontate da essere patetiche e che portarono a ispezioni improvvise. Delusione: noi che si studiava, Vale che ripassava la parte per uno spettacolo teatrale o Ross che faceva yoga. Alla terza ispezione Vale perse la pazienza:
«Ehi, hai un ragno violino sulla felpa!» urlò a quel fetente di Leo, il nostro tutor. E mentre lui abbassava lo sguardo, bam, partì la testata dritta al suo naso. Nell’ufficio del rettore le versioni furono molto diverse, ma Vale… ah, quanto fu convincente! Arrivò persino a chiedere scusa, era proprio certa che ci fosse quel ragno, per poi assicurarsi “delicatamente” che il naso di Leo non fosse rotto.
«Certo, Ross, che se avessi la tua pelle e il tuo fisico non avrei dovuto farmi questo bozzo, cazzo!»
I mesi seguenti furono impegnativi, le borse di studio imponevano buoni risultati, le famiglie pure: incertezze e pigrizia non erano ammesse. Per questo i cambiamenti di Ross parvero plausibili: sbalzi di umore, strane assenze, per un nonnulla si inalberava per poi chiedere scusa con occhi lucidi.
Un giorno Vale, dopo l’ennesimo litigio senza ragione, andò in bagno e ne uscì come una furia:
«Da quando non prendi le tue pastiglie?»
«Ma chettefrega! Saranno cazzi miei?»
«No, sono anche nostri, ricordi? Allora?» Braccia conserte e sguardo che avrebbe anche potuto incenerire.
«Due settimane, sì due settimane.»
«Balle. E hai smesso di botto, ovviamente. Il tuo medico non lo sa. Ovviamente! E di parlarne con noi… figurati!»
«Sono stufo di essere schiavo di quelle pastiglie! Lo capite o no? Voglio essere… libero, voglio essere quello che sono e basta!»
«Ah, certo. Signori», Vale chiuse a chiave la porta, tirò le tende e poi, sotto il nostro sguardo allibito, si spogliò, rimanendo in slip. «Ecco a voi Ross, la seconda persona più intelligentemente stupida del mondo. Io, la prima.»
Il corpo di Vale era solcato da parecchie cicatrici, che parevano più dei vecchi graffi.
Lasciò che le osservassimo bene, Ross arrivò a sfiorarle delicatamente.
«Anch’io, Ross, anch’io. Mica solo voi avete il record di disgrazie! E, sì, convivo con un paio di pastiglie e pure a me danno fastidio. L’anno scorso ho fatto la stessa cazzata tua, convinta di essere furba. Solo che durante una gita in montagna, capogiri, nausee, problemi di vista, di equilibrio… mi sembrava di essere su un altro mondo e sono caduta giù per un pendio, ripido e coperto di rovi. O forse mi ci sono buttata. Ci hanno messo ore a tirarmi su, io cercavo di… scappare, mi rotolavo tra quei rovi, non sentivo il dolore.»
Lentamente Vale si rivestì: piangeva. Non l’avevamo mai vista piangere.
Si era nascosta bene.
«Sono stata in ospedale tre mesi: depressione a parte, infezioni, ferite che non guarivano. E ho dovuto riprendere le cure. Quando mi sentirò pronta, potrò provare a ridurre le dosi, mi dovrò ascoltare bene, prima. Non saranno due settimane, ma ci arriverò.»
Ross si toccò le sue cicatrici.
«Adesso cosa facciamo con ‘sto scemo?» mi sentii chiedere.
«Gli amici: controllato a vista. Per i bozzi, fifty-fifty, ok?»
«Se sgarri, addio dreadlock!»
«E voi sareste degli amici?»
Ross piangeva, finalmente.