Il preside Frandi si accarezzò la barbetta sotto il mento guardando fuori dalla finestra. Nel parcheggio le lamiere delle macchine brillavano sotto il sole ancora caldo di settembre. Dalla portineria l’avevano avvisato che i nuovi insegnanti erano arrivati; dalla finestra guardò l’automobile entrare nel parcheggio.
«Chi guida?» chiese.
«Lei, Elena» rispose la dottoressa Arrighi.
L’auto proseguì lenta cercando uno stallo libero; quando lo trovò scattò in avanti un po’ troppo bruscamente e una delle ruote anteriori scavalcò il cordolo arrestando la vecchia Fiat in bilico tra l’asfalto e il prato perfettamente rasato.
L’uomo alla finestra sorrise «Alla fine parcheggia meglio di mia moglie.»
La dottoressa si avvicinò e insieme al professore scrutò i nuovi arrivati all’istituto.
Dal lato del guidatore uscì una donna che si stiracchiò nell’aria calda di settembre. Gli occhiali scuri le coprivano gran parte del viso mentre i capelli brillarono al sole.
«Ha i capelli lunghi» notò l’uomo.
«Già, questo non se lo spiega ancora nessuno.»
L’uomo annuì compiaciuto.
Dal lato del passeggero uscì un uomo. Portava un cappellino da baseball sulla testa rasata, quando si sgranchì la maglietta mostro la pelle tirata del ventre.
«Guardi!» indicò l’uomo «mi avevano riferito che avevano acquistato peso, ma lui sembra quasi grasso!»
«Sì, ho letto il rapporto. Questo conferma che sono davvero in ottima salute.»
L’uomo non riuscì a contenere un guizzo d’entusiasmo «Bene! Li faccia sistemare e poi li porti da me. Sono davvero curioso di conoscerli. E di osservare come interagiranno con i bambini.»
«Già, anch’io» disse la donna, lanciando un’ultima occhiata pensierosa alla coppia che si guardava intorno spaesata nel parcheggio.
Elena entrò in classe e si voltò per chiudere la porta.
Subito l’odore le si strinse addosso e rimase lì, appiccicato alla sua pelle, ad ammorbare l’aria fresca che aveva portato dentro con sé.
Lasciò che la mano restasse un attimo ancora a contatto con il legno lucido, come a cercare da qualche parte una spinta che l’aiutasse ad affrontarli. Alle sue spalle s’ingrossava il lamento delle sedie che graffiavano il pavimento, mentre i bambini le spingevano indietro per alzarsi.
Un sospiro, di quelli grossi e si girò.
«Buongiorno, bambini» disse, mettendo in quelle parole troppo entusiasmo.
Loro lo sentono se hai paura…
Un coro disarmonico di “buooon” digrignati e ”’ggiorno” ringhiati la raggiunse e subito un brivido le si arrampicò addosso.
Il silenzio irreale che seguì era rotto solo dalla testa della piccola Giulia che batteva contro la parete, in fondo alla stanza: un tonfo sordo, lento e immutato, che dava un ritmo snervante alla giornata. Il muro in quel punto era crepato e lasciava cadere frammenti d’intonaco a ogni nuovo colpo, mentre la sua testa non poteva più essere chiamata semplicemente così.
Elena raggiunse la cattedra e si sedette. Aprì una pagina a caso del registro e fece finta di cercare qualcosa: sentiva i loro sguardi addosso e poteva immaginare i ghigni che si allargavano sulle piccole facce.
«Potete sedervi» sussurrò. Anche se fu solo un bisbiglio i bambini obbedirono.
Un nuovo concerto si sedie strusciate sul pavimento si materializzò nell’aula spegnendosi piano piano.
Hanno i sensi amplificati…
«Bene, iniziamo. Qualcuno di voi sa dirmi che giorno è oggi?»
Silenzio.
«Silvia?»
L’alunna si alzò a fatica e la fissò, tenendo la testa dimenticata un po' di lato. Con la mano destra, dove ancora svettavano un paio di diti, torturò l’ultimo ciuffo di capelli che cadeva sul viso dal cranio scorticato.
«Non te lo ricordi, cara?»
La bambina scosse la testa da un lato e poi dall’altro: i tendini del collo schioccarono e nel silenzio della stanza sembrarono petardi.
«Siediti pure, allora. Qualcun altro?»
Una mano si alzò esitante.
«Dimmi pure, Maicol.»
«…’nttuno, ‘ttobrrre…» gorgogliò, e la lingua putrefatta spinse fuori dalla bocca alcuni vermi grassi che caddero sul banco, rimbalzando senza fare rumore.
«Bravissimo!» cinguettò Elena, battendo le mani in direzione di Maicol.
Il bambino la fissò senza la minima espressione.
«Oggi è il trentuno ottobre!» esultò, come se fosse il giorno più importante dell’anno «Forza! Scriviamo la data a pagina nuova, in alto.»
Elena si alzò e li guardò uno per uno, con un sorriso esagerato stampato sul viso.
Reintegrare questi mostri… che progetto del cazzo!
Luca era un po' agitato e si grattava il braccio: lembi di pelle grigia cadevano per terra, portandosi dietro una polverina impalpabile.
Sofia stava digrignando i denti; uno le cadde e rimbalzò tre volte sul pavimento, prima di sparire da qualche parte.
La maestra prese il gesso dalla cattedra e si avvicinò alla lavagna, stando bene attenta a non perderli di vista. Con gesti ampi scrisse la data e si voltò subito.
Stia attenta, l’aveva avvertita il preside il primo giorno di scuola, sono cadaveri in via di reinserimento e sono ancora molto, come dire… innocui, ecco. Anche se…
I bambini si stavano agitando.
«Bene, bambini. Copiate la data.»
La stanza fu invasa dal rumore delle pagine che frusciavano, e gli alunni iniziarono a scrivere. Tutti, tranne un paio.
Elena sentiva il loro sguardo su di sé, vedeva come nei loro occhi guasti passasse un’intesa che la fece rabbrividire.
Fece un passo indietro, verso il muro.
Anche se… cosa? Aveva chiesto.
Apprendono molto velocemente. E possono diventare… molesti.
Le pagine, sfregiate dalle penne, crepitavano dai banchini.
Nelle teste chine vedeva i cervelli marci colare dalle fessure dei crani, dove una scia appiccicosa e puzzolente imbrattava i loro grembiuli. Oscar si grattò la testa con la penna e quando la tolse un lungo filamento lattiginoso la seguì.
Al rumore delle penne si aggiunse presto quello delle ossa della mano di Luca che grattavano l’ulna scoperta: una manciata di scarafaggi uscì dalla pelle strappata, girovagò indecisa sul braccio, per sparire in uno squarcio tra la clavicola e lo sterno.
Oh… mio… Dio!
Elena fece ancora un passo indietro, e si appoggiò al muro.
Non ce la faccio!
Subito tutte le teste si alzarono verso di lei.
Mi… mi leggono dentro!
Lo sguardo di Elena guizzò verso la porta. Silvia con uno scatto fulmineo si arrampicò sul muro gattonando veloce verso la porta e piazzandosi di fronte all’unica via d’uscita.
Gli altri si alzarono con un unico movimento.
«Hai… ‘rura di… noooi…?»
Maicol, il più loquace.
«Che sciocchezza!» ribatté, ma senza troppa convinzione «Rimettevi seduti che dobbiamo…»
«No.»
Venti volti sfigurati la fissarono torvi. Quaranta piedi dalle ossa sporgenti strusciarono verso di lei.
«Rimettetevi immediatamente seduti, o…»
«O cosa?»
Maicol.
Forse non erano così stupidi come volevano far credere. Forse davvero in quelle menti marce stava prendendo vita un qualche tipo di coscienza. Ma questo non era per forza una cosa buona.
Elena si lanciò verso la porta, ma loro furono inspiegabilmente più veloci di lei.
«…’bbiamo faaame!»
«Lasciatemi stare!»
Piccole mani fatte di ossa bianche e carne decomposta la graffiarono su tutto il corpo. Bocche spalancate dove svettavano denti neri e scheggiati si chiusero con foga addosso a lei, mordendo in profondità.
Oh, mio Dio! Oh mio Dio!
«Aiuto!» gridò con una mano tesa verso la maniglia.
«No!» biascicò Maicol con le labbra rosse del sangue della maestra, e un sorriso strano sul volto che poteva sembrare quasi di consapevolezza.
«Nooo!» riuscì a gridare ancora Elena, prima che tutto diventasse nero.
«Nooo!»
L’urlo esplose improvviso e Roberto si svegliò.
«Ma… cosa…?»
Elena al suo fianco ansimava madida di sudore. La donna si guardò un po' intorno e si prese la testa tra le mani cercando di calmarsi.
«’Ncora quel… maledetto incubo?» chiese lui, con la voce impastata di sonno.
«Sì.»
Tutti i lunedì era la stessa storia e l’urlo mattutino di Elena metteva fine molto prima del previsto al loro riposo notturno.
«Sei troppo… ansiooosa…» disse sbadigliando.
«Sì…»
«Sono sooolo… dei ‘mbini e ti adorano. E tu… seeei una mmaestr ‘a perrrfetta!» continuò Roberto senza dare peso alla cosa e rigirandosi su un fianco.
Elena tirò via le coperte e si alzò. Aveva bisogno di calmarsi e bere un bicchiere d’acqua.
«Amooore?» la richiamò lui.
«Mmm?» chiese voltandosi.
Per tutta risposta Roberto si dette due colpetti veloci sul mento. Per riflesso Elena toccò il suo.
Ecco!
L’urlo che li aveva svegliati le aveva spostato la mandibola.
Con un colpo secco la rimise al suo posto e sospirò.
Barcollando uscì dalla stanza, seguita dal rumore delle ossa dei piedi scalzi che graffiavano il parquet.