«Mi scusi, signorina. Ormai è passata più di un'ora e devo chiederle gentilmente di uscire.» Il portinaio, ingessato nell'uniforme, ha la voce imbarazzata e lo sguardo all'altezza delle mie tette.
Potrei anche dirgli che ho gli occhi un po' più su, visto che di sicuro non si può permettere una botta con la sottoscritta; ma ho bisogno di tenerlo buono ancora per un pochino. «Aspetto qualcuno, signore.»
«Mi può dire chi, per favore?»
Ehm. Ho solo una foto e l'intuizione di trovarmi nel posto giusto. Avrei bisogno di un colpo di fortuna, per esempio: se adesso entrasse una persona? «Eccolo.»
Il portinaio si volta e provo a immaginarne l'espressione dato che – mi accorgo solo ora – l'uomo che si avvicina indossa un collare bianco. Si gira di nuovo verso di me con la faccia a forma di punto interrogativo. Questa volta sono imbarazzata io e sorrido: «Sono una pecorella smarrita.»
Scuote la testa e attira l'attenzione dell'uomo: «Molto Reverendo Davies, c'è qui Miss…»
«Suzanne Wilson.» Faccio gli occhi da micetta e saluto con la mano.
Il prelato mi squadra; chissà se gradisce? Sono pure indecisa se farmi portare nel suo appartamento per guadagnare una marchetta o restare qui per scoprire se la mia intuizione sia giusta. Per fortuna è lui a rompere il silenzio: «Ha bisogno di parlare, Miss Wilson?»
«Sì, grazie.» rispondo in falsetto.
Ora che gli sono vicina riesco a dargli un'età, direi sulla cinquantina; ha l'aria stanca, ma mi invita a sedere con lui su un divanetto defilato di quest'ampia portineria. Non so che ruolo possa avere un “molto reverendo” nella gerarchia ecclesiastica ma mi dice di chiamarlo semplicemente “padre”. Lo intrattengo con qualche luogo comune sul mestiere, sul mio – finto – desiderio di affrancarmi dalla “vita” e bla, bla, bla; nel frattempo non perdo di vista l'ingresso.
Entra un uomo con i capelli ricci e grigi; mi sembra di cogliere una somiglianza con la foto. «Scusi, padre. È arrivato il mio cliente.» dico, spudorata.
Mi prende la mano: «Ehi! Stia attenta. Quell'uomo è molto violento.» Concorda con il profilo: bene. Cioè male; Padre Davies non mi lascia. «Colga l'occasione per dire “basta”, ora.»
Accidenti; decido per un veloce cambio di programma perché forse qualcosa riesco lo stesso a scoprirla. «Chi è?»
«Jeffrey Brown? È una persona che, se non ottiene ciò che vuole con i soldi, se lo prende con la forza.»
«Grazie, padre.» Fingo la conversione e, mentre recito una preghiera e il mio pentimento, ripeto di continuo a me stessa il nome e cognome, per non dimenticarli.
Ho fatto una ricerca in biblioteca e ho scoperto che Jeffrey Brown è manager in un'azienda di import/export con sede in questo centro direzionale a Canary Wharf. È stato implicato in alcuni casi di violenza e stupro ma ne è sempre uscito pulito: certo, il porco è troppo ricco per finire in prigione. Proprio il tipo che sto cercando e la somiglianza con la foto c'è. Insomma sembra che l'intuizione fosse giusta e il vecchio portachiavi mi abbia portato da lui.
Mi aggiro per la portineria con un abbigliamento extra lusso perché le mie intenzioni siano chiare e nessuno mi accompagni all'uscita. Arriva il mio obiettivo. Mi avvicino, lo guardo; gli dico con voce sexy: «Buongiorno, Mr. Brown.» e gli lascio il biglietto da visita.
Faccio per andare ma lui mi prende per il braccio; stringe, fa male. «Ho il piacere di conoscerla, Miss…»
«Mi chiami pure Sophie.»
Mi guarda senza sorridere. «Sophie, ora ho da fare ma ci vedremo presto.»
Mantiene la promessa. Del resto, non avrebbe potuto resistermi, sono troppo affascinante. Gli ho dato appuntamento in questo lussuoso stabile in Wapping Lane, un vecchio magazzino dei Docks restaurato. Gli appartamenti sono climatizzati e insonorizzati, proprio ciò che serve per i miei servizi speciali.
Jeffrey Brown arriva; lo accolgo in lingerie e abbassa le difese; si ritrova immobilizzato senza nemmeno accorgersene. «Si ricorda cos'è successo proprio qui trentanni fa, Mr. Brown?»
Impreca. Non degna di attenzione ciò che gli dico e la cosa mi dà molto, molto fastidio!
«Ha bisogno di un aiutino?» Non mi serve la sua conferma; ho già con me la dose di Pentothal necessaria. A me nessuno può mentire. «Era il 16 giugno del 1965.» La data scritta a penna dietro la foto. «Ricorda di essere già stato qui?»
«Sì. Rubammo il furgone a un negoziante di Dalston. Poi ci dirigemmo ai Docks in cerca di una prostituta. Caricammo una ragazza che aveva anche un bel fisico ma cominciò subito a far casino, così parcheggiammo in questo magazzino abbandonato. Le mollai un ceffone per farla stare zitta ma niente, allora Clifford tirò fuori la lama e finalmente smise di strillare, però era rigida come uno stoccafisso. Dovemmo tagliarle i vestiti col coltello e pure in due a tenerla ferma mentre l'altro se la faceva. Una faticaccia però divertente.
«Ernest trovò una Polaroid vecchio modello nel cassetto del furgone, così: “Dai, che ci facciamo un po' di foto come i cacciatori di leoni in Africa!” La ragazza non voleva star ferma così le demmo qualche calcio per tenerla buona. La scaricammo e usammo i fari per illuminare. In un paio di foto venni pure bene, devo ammettere che ero proprio un bel ragazzo fotogenico!»
Non gli sputo addosso per rispetto di me stessa. Piuttosto si sta addormentando, devo tirargli fuori i nomi: «Chi erano Clifford ed Ernest?»
«Clifford Jones ed Ernest Thomas.»
«Grazie. Quando ti sveglierai, sarai sicuro di aver fatto una gran scopata e mi lascerai pure la mancia. Poi te ne andrai e non cercherai mai più Sophie.»
Era Clifford Jones ad abitare nell'appartamento che oggi è di Jeffrey Brown. In questo senso ho avuto fortuna. La sua famiglia dichiarò bancarotta e Brown fece lo sciacallo acquisendone le proprietà. Ma non ho nessun ultimo domicilio sconosciuto, Jones sembra scomparso da Londra.
Ernest Thomas non ho proprio idea di chi sia.
Con queste informazioni torno dalla mia amica Debbie, che lavora in polizia. «Non è un granché.» le dico.
«Scherzi? Sei stata bravissima!» Lo so, mi fa piacere sentirmelo dire. «Gli altri due li trovo io, non ti preoccupare. Ci tenevo a venire a capo di questo caso irrisolto.»