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Il paese non è molto grande e Manuele ha ritrovato facilmente il posto.
Qualche settimana prima, gironzolando tra le bancarelle del mercatino dell’antiquariato, era stato attratto da una viuzza buia e stretta. Percorsi pochi metri si era trovato in una piccola piazza: un’occhiata, una sola, ed era stato colto da una violenta vertigine.
Pochi attimi, ma ormai sapeva: prima o poi sarebbe tornato in quel luogo perché qualcosa, o qualcuno, lo stava aspettando.
Era solo questione di tempo.
La piazzetta è stupenda, un chiostro in miniatura: ombre invitanti, aiuole ben curate, colonne sottili ed eleganti ed un basso muretto delimitano il porticato.
In un angolo uno spettacolare glicine carico di grappoli profumati si arrampica ben oltre il primo piano di un vecchio palazzotto.
Nell’aria tiepida sfumano, leggere, brezze di quiete e serenità, sulle panchine di pietra alcuni anziani si fanno compagnia con lunghi silenzi e ricordi improvvisi: occhiate curiose accompagnano Manuele mentre, pensieroso e con le mani in tasca, attraversa la piazzetta con passo elastico e deciso.
Il giovane non passa inosservato e lo sa.
Alto, completamente calvo, dall’età indefinibile: non ha neppure le sopracciglia e questo rende cattivo lo sguardo, uno sguardo che pare leggere dentro le persone. Come al solito è vestito di scuro e la maglietta nera che indossa mette in risalto un fisico asciutto e muscoli di tutto rispetto.
Tutto di lui incute timore, anche i suoi lunghi silenzi.
Ignorando la sensazione di disagio per quegli occhi che lo seguono, Manuele cerca nell’ombra dei portici, si ferma qualche istante davanti all’unico negozio dall’insegna sbiadita, L’arrotino, poi si decide ed entra.
Un gradino, il suono di una vecchia campanella e torna indietro nel tempo, quando nonno Plinio, issandolo sulla canna della bicicletta, lo portava in un posto simile.
Il tempo nel negozio sembra essersi fermato anni prima: il pavimento di legno scuro segnato da passi pesanti, le vecchie scansie colme di oggetti misteriosi, di scatole di cartone per chiodi, viti e martelli.
Un’intera parete è occupata da seghe, mannaie da macellaio, coltelli di ogni misura e dagli usi sconosciuti, con lame dalle fogge strane: sottili e lunghe oppure larghe e seghettate, altre ancora tozze e ricurve. Alcuni attrezzi li aveva visti maneggiare dal Pedär, il norcino che ogni anno, nell’aia della cascina, uccideva e sezionava con abilità il maiale allevato dal nonno.
Nell’aria Manuele riconosce l’odore dei sacchi di iuta, dei lubrificanti e altri ancora, forti, che nel tempo hanno impregnato i locali e che gli ricordano cose a cui però non sa più dare un nome. E poi l’aroma antico del tabacco, delle sementi, dei metalli: nella vertigine di pochi attimi riesce persino a sentire il profumo delle minestre della signora Rina, la ruvidezza delle sue carezze…
In gola, il respiro mancato di un nodo che sa di nostalgia per quei ricordi preziosi.
«Desidera?» L’uomo dietro al banco è gentile.
«Io… non… non saprei! Posso?» La voce è roca.
«Prego. Io sono qui, se… mi chiamo Biagio.»
«Manuele. Mi scusi, ma da piccolo andavo spesso in un negozio come questo e non pensavo di trovarne ancora uno, con gli stessi odori...»
Manuele accarezza adagio il bancone lucido per l’uso, le vecchie scansie, i cassetti con le etichette scritte a mano, respira avidamente gli odori per cercare nella memoria altri ricordi.
Un minuto, un’ora, chissà e si trova di fronte ad una porta.
Un invito silenzioso per Biagio, che prende una chiave, grande e pesante.
La stanza è in penombra: un museo lillipuziano colmo di vecchi attrezzi ed utensili, un banco da lavoro ordinato ma velato dalla polvere.
Falci, falcetti, pale e badili, accette, tronchesi, coltelli dall’aria lugubre, seghe sdentate e zappe arrugginite, forbici dalle strane fogge: Manuele accarezza gli oggetti, timoroso.
Le storie arrivano, a ondate, impazienti di essere ascoltate.Se lo aspettava, è così ogni volta, ma come ogni volta è impreparato alla forza di quei ricordi persi nel tempo, alla loro imperiosità.
Manuele sente in ogni parte del corpo le fatiche dei contadini, il sudore pungente dei campi di grano da mietere, il fresco dell’erba lungo i fossi, i colpi delle accette sul legno per l’inverno, nelle narici arriva l’odore secco della paglia, quello umido della legna, la polvere fine di sentieri sabbiosi, il profumo del fieno rivoltato con fatica.
Nelle braccia la forza delle lame che lottano con cortecce spesse, arriva improvviso lo schiocco dei tronchi che cedono, il fruscio dei rami che sembrano volersi aggrappare agli alberi vicini per non cadere.
Nelle orecchie richiami, risate, bestemmie… preghiere.
Un’accetta, appoggiata in un angolo, quasi nascosta, sembra attirarlo in modo particolare: grande, pesante, i muscoli si tendono mentre la solleva. Sulla lama ci sono alcune macchie scure, nere, come il buio che improvvisamente lo avvolge: nelle spalle e nei polsi arriva la forza di un colpo, uno solo… sul viso e sulle braccia il caldo appiccicoso del sangue, tanto sangue, ne sente l’odore dolciastro.
Lo attraversa un lampo… odio, un odio immenso, senza scampo.
In bocca, il sapore aspro e secco di una vendetta che non lenirà un’offesa.
Biagio osserva Manuele con un misto di curiosità e di timore: le emozioni che il ragazzo prova gli si leggono in viso e nel corpo, nel respiro affannoso, nelle lacrime che non riesce a nascondere.
Poi, così come sono arrivate, le storie se ne vanno, lasciandolo spossato e confuso.
La chiave torna al suo chiodo.
L’uomo adesso sa, e ha paura.
Manuele rimane nel negozio l’intero pomeriggio, diventando per qualche ora un silenzioso garzone: è forte e svelto, bastano poche parole per capirsi.
Quando chiudono il negozio, la piazzetta è ormai deserta, il paese tranquillo e la sera tiepida, colma di rumori rassicuranti: l’acciottolio delle stoviglie e le chiacchiere che sfuggono dalle finestre aperte, qualche cane che abbaia, nei giardini gli ultimi giochi dei bambini.
Cenano in una vecchia trattoria, dove tutto è vecchio, come il paese.
Vecchio l’arredamento, antico l’odore stantio di fumo e di cibo, anziani l’oste e gli avventori che, all’entrata di Manuele, interrompono rumorose partite a scopa per studiarsi, da dietro i mezzi sigari spenti, la novità.
Minestra di verdure odorose, pane e salame, vino rosso che frizza nel naso: cibi semplici, serviti alla buona, solleticano tutti i sensi di Manuele che, alla fine, si lascia coinvolgere dall’atmosfera. Una bottiglia di rosso da dividere, qualche mano a carte e un vago sorriso per quegli occhi color dell’acciaio.
Ormai è notte, il vino è finito e la luna piena accompagna i loro passi, lenti: Biagio finalmente trova il coraggio di una domanda.
«Perché sei venuto da me?» Nella voce una strana nota di apprensione.
Manuele si incupisce, fissa per lunghi istanti il cielo.
«Dovevo renderle questo. È suo, se non sbaglio.»
Gli porge un minuscolo coltellino a serramanico, perfetto in ogni dettaglio, dal manico finemente cesellato. Biagio fissa l’oggetto e il respiro si trasforma in un pianto silenzioso, disperato: un dolore nero e solido avvolge entrambi.
Poi l’uomo si calma e si avvia, a passo veloce.
Ai margini del paese si ferma davanti ad un imponente cancello di ferro battuto, apre un portoncino nascosto dall’edera e attraversa quasi di corsa il giardino ormai inselvatichito. Senza incertezze apre il portone, accende rapido le luci e sale veloce una grande scalinata di marmo, coperta da una passatoia rossa.
Grandi lampadari gettano ombre sinistre sui teli bianchi che coprono mobili e quadri, fantasmi impolverati che danzano con ragnatele impalpabili, senza smuovere il filo di polvere che ricopre ogni cosa.
Al primo piano un lungo corridoio: poche lampade fioche, alcune porte chiuse e sedie dagli altri schienali, in attesa. Con la voce che ancora risente del pianto Biagio si rivolge a Manuele.
«Chi sei, chi sei veramente? E perché… quando hai rubato questo?»
Il giovane sente la paura di quella frase, gli appoggia una mano sulla spalla, tenta un sorriso.
«Mi chiamo Manuele Orlandelli, ho un’officina appena fuori Parma e, da qualche tempo… scrivo storie.»
«Già, scrivo storie, ma sono le storie che vengono a cercarmi. E non rubo le cose, sono loro che mi trovano quando giro per i mercatini, dal robivecchi, per strada.»
Manuele si fa serio, si appoggia alla balaustra, incrociando le braccia: pochi secondi di silenzio per tante storie, che negli ultimi due anni lo hanno cambiato, facendolo gioie nel profondo e soffrire atrocemente, donandogli sorrisi e lacrime, insegnandogli a leggere negli occhi della gente.
Un incidente di lavoro, due mesi di coma, un risveglio faticoso e da allora una tazza sbeccata, un trenino di latta, un’ascia arrugginita, un coltellino rubato… non sono più dei semplici oggetti.
«Dicono sia un dono, ma qualche volta è una maledizione: capita all’improvviso, le storie delle cose mi inseguono, mi entrano nel cervello e diventano sogni bellissimi oppure incubi terrificanti, fino a quando non ho finito di scriverle. Poi, tutto si quieta: se posso restituisco l’oggetto, insieme alla storia. Altrimenti trovo un posto adatto e lascio il tutto, sperando che qualcun altro ascolti.»
Accenna al coltellino. «L’ho trovato nel vicolo che porta ai portici un paio di settimane fa e da allora, ogni notte, non sogno altro che il tuo negozio e una stanza rossa, nebbiosa… non so come dirti, dove c’è qualcosa o qualcuno in attesa.»
«È un regalo di Celso, mio fratello gemello, ne aveva forgiati due uguali per il nostro compleanno: il giorno dopo è scomparso, così, nel nulla. Ormai sono tre anni e io non ho pace.»
Angoscia e speranza.
Biagio apre una delle porte e si fa da parte.
Manuele si avvicina con una certa apprensione: il salone è enorme, il pavimento coperto da folti tappeti, alle pareti una serie impressionante di scimitarre, spade giapponesi, fioretti, daghe, corti pugnali dalle impugnature preziose ed eleganti stiletti.
Lampade raffinate diffondono luci soffuse su teche foderate di velluto rosso.
Nessun telo e non un filo di polvere.
Manuele sa cosa l’aspetta ma l’esperienza del pomeriggio lo aveva già troppo provato.
Si appoggia alla parete, si lascia scivolare a terra, abbracciandosi le ginocchia: ha freddo, è stanco, attorno sente aliti di ansia e di pericolo.
Nasconde il viso in quell’abbraccio solitario: la paura adesso è sua.
Improvvisamente una grande calma lo avvolge, la sente sulla pelle: si alza e comincia ad attraversare il salone.
Non succede nulla: niente ricordi improvvisi, solo un vago mormorio, rumori indistinti, clamori lontani.
Così come le pareti sono coperte da strumenti di morte, così le vetrinette ricordano la quotidianità della vita: posate, povere oppure riccamente decorate, forbici da sarto, utensili per cucine fumose o ordinate… ricchezza e miseria.
In un angolo persino antichi strumenti chirurgici, dall’aria sinistra.
Da una teca arrivano risate di bimbi: sono esposte piccole posate, animaletti buffi e fiori fantastici adornano le impugnature adatte a manine inesperte.
Poi, più nulla.
Un silenzio assordante, la sensazione di calma si dissolve e Manuele si trova ben presto nel panico più assoluto: non riesce a tornare indietro, può solo proseguire, spinto inesorabilmente verso la parete in fondo al salone, coperta da un arazzo.
Il volto è una maschera di durezza mentre sposta rabbiosamente due pesantissimi divani: dietro l’arazzo, una porta, quasi invisibile, che Manuele apre con un calcio.
Una scala a chiocciola, pochi gradini e quel poco di luce che arriva dal salone: un’altra porta da aprire… con una forza che sa di follia.
Una stanza tappezzata di rosso, nebbiosa per la polvere che il colpo d’aria ha sollevato.
Altre cose e all’improvviso… urla di dolore, di rabbia, suppliche per una pietà negata, terrore puro: Manuele cade in ginocchio, si prende la testa tra le mani, cerca di liberarsi dalle immagini di morte che gli oggetti di quella stanza gli hanno riversato addosso, da quelle voci terribili, da quei singhiozzi spezzati.
Ma qualcosa lo obbliga ad alzarsi: un piccolo oggetto lo chiama, disperatamente.
Cerca a tentoni, la luce è poca, la polvere e uno strano odore lo soffocano: in un angolo, sotto ad uno scrittorio rovesciato, trova il corpo ormai mummificato di un uomo.
Tra le mani scarnificate un coltellino a serramanico e sotto al corpo una macchia scura: con le ultime forze l’uomo era riuscito a tracciare con il suo stesso sangue una sola parola, ERPA.
Manuele prende il coltellino, consapevole dell’incubo che lo avvolgerà, ma lo deve all’uomo gentile.
Sono passati due mesi: nel negozio nulla pare cambiato, eppure niente è come prima né potrà mai più esserlo.
Quella notte Biagio era riuscito a trascinare Manuele fuori dalla stanza rossa ed a portarlo a casa sua, vegliandone incubi e tremori: lo sfinimento di quelle ore era finito in un dormiveglia pauroso, per entrambi.
Il mattino dopo era salito in soffitta dove aveva ritrovato ERPA, una vecchia scatola di latta dal nome fantasioso che, mezzo secolo prima, aveva custodito i piccoli segreti di due bambini.
Dentro, un quaderno dove Celso, giorno dopo giorno, aveva descritto la propria condanna a morte.
Celso aveva un dono, eredità del nonno, ultimo arrotino di strada: sentiva le vibrazioni più profonde dei metalli ed era per lui una gioia e una sfida ridare la vita a coltelli, forbici, spade…
Già, riportarle alla vita!
Era diventato famoso: ricchi collezionisti pagavano per il suo dono.
Anche Ely Moro, che da trent’anni collezionava segretamente lame omicide.
Ma quelle lame non avevano più vita, spezzata come le vite che avevano spezzato. Celso lo scoprì quasi subito: un orrore indicibile lo attraversava appena toccava quegli oggetti.
Rifiutò l’incarico ma Ely lo tentò con un coltello, avvolto nella seta.
Solo per una volta Celso vide anche qualcosa: la gola di un orrido, una fune recisa, il sorriso di un bimbo che si spegne all’improvviso, piccole ferite… risate isteriche… un ghigno terribile!
Ely Moro aveva ucciso il marito e il figlio di pochi mesi, lasciando che in carcere finisse un poveraccio con l’unica colpa di essere demente.
Aveva riso, la pazza Ely: pazza di un dolore falso allora e di follia vera tre anni prima, quando, con un colpo solo, aveva fermato Celso, che da quella stanza voleva fuggire per sempre.
Nessuno sapeva di quella stanza: Ely se n’era andata qualche mese dopo, chiedendo a Celso di tenere in ordine il salone, solo quello, in attesa del suo ritorno da un lungo, lungo viaggio.
Dal mondo della follia.