Dall’estate scorsa Giovanni inseguiva il ricordo di quel giorno a Porto Venere.
Erano memorie sporche, fatte di frammenti, qualche colore, odori pungenti, di sudore e resina per le barche. Un pontile basso, con le travi vestite di alghe brillanti, i pescatori scalzi, una spiaggia a mezzaluna. La linea degli scogli scuri, una croce su quello più alto.
La morte della mamma.
La tromba del grammofono era una conchiglia gigante. Da spento, avvicinando l'orecchio, poteva sentire la risacca. Ed era questo che Giovanni faceva, ogni mattina, nella sala della musica. Era un modo per provare a recuperare il ricordo. Si alzava sulla punta dei piedi, accostava l'orecchio e sentiva il mare. Quando si concentrava riusciva persino a isolare un sospiro roco, da fumatrice, un filo sotto le frequenze dello sciabordio delle onde. Quella era la voce della mamma e, quando la sentiva, chiudeva gli occhi e accarezzava l'interno della tromba, così il bronzo diveniva madreperla e riusciva a percepire le incrostazioni di sale e il puzzo del pesce rovinato dalle reti che i pescatori lasciavano sulla spiaggia, per i gabbiani.
"Nanì" urlava la mamma, "arrivo, Nanì!"
Un’altra voce si accavallava nel ricordo, una risata che pareva un colpo di tosse.
Quella mattina non era riuscito ad avvicinarsi al grammofono. Era sceso in ritardo per la colazione, con i capelli in disordine, tutti i ricci sulla fronte ammucchiati senza logica, gli occhi pesti, le scarpe slacciate e il letto rifatto male. Fece appena in tempo a recitare le preghiere del mattino.
«Eppure l'ho suonata forte» disse l'istitutrice, mentre si segnava con la croce e iniziava a mangiare, piano, un boccone di pane in cassetta e marmellata di more. Si riferiva alla campana, una bella grossa, in ottone.
«Mi scusi» disse Giovanni. La regola era che mentre si mangiava non ci si doveva osservare. Eppure lui alzò lo sguardo dalla tazza di latte tiepido e la fissò, vacuo.
«Signorina Maria...» iniziò.
Lei scosse la testa. Si pulì le labbra e si alzò. La luce tenue del mattino le illuminava gli occhi duri, color acciaio.
«Ti aspetto in classe» disse.
Laura, la domestica, si mise a sparecchiare in silenzio. Quando passò accanto a Giovanni gli diede una carezza sulla nuca e gli sistemò i capelli.
«Forse fa così perché vi somigliate» gli sussurrò all'orecchio, facendoli venire un brivido.
«Io e lei?»
«Ma no, tu e tua madre, gliela ricordi e loro erano molto amiche. Adesso vai, non farla aspettare.»
Giovanni sbuffò, questa cosa che doveva studiare da solo, senza andare a scuola, non riusciva proprio a capirla.
Si alzò e si diresse verso la stanza che usavano come classe, all'ultimo piano della villa. Ogni volta che saliva là, si fermava a contemplare le decorazioni della scala, tutta ghirigori di ferro battuto e stucchi, edere di bronzo lucido e fiori di lamine di rame. Sul soffitto, altissimo, la cupola di vetro piombato trasformava la luce in fasci evanescenti dai colori tiepidi. Erano fortunati a poter vivere là, in quella strabiliante villa, almeno, così diceva suo padre. L'aveva comprata poco dopo la morte della mamma, per lasciare Genova e cambiare aria. Una bella villa in campagna, in stile liberty, lontano dalla città. Una casa in cui però lui non stava mai.
La classe era luminosa, con tre grandi finestre rotonde, come degli oblò. C'era un pianoforte a muro, la carta geografica dell'Italia, una libreria con gli sportelli in vetro e una lavagna, dove ancora si poteva leggere la traduzione dal latino di quello che Giovanni aveva studiato il giorno prima.
“Odio e amo.
Tu forse mi chiedi come faccia.
Non lo so, ma sento che ciò accade,
ed è la mia tortura.”
La lezione avrebbe dovuto essere di storia, ma prima Maria aveva delle cose da dirgli: aveva fatto un'ispezione nella sua camera e aveva notato che il letto era rifatto male.
Giovanni ascoltava poco e dondolava i piedi, guardando fuori dalle finestre, il bosco, le fronde alte dei larici, con la nebbiolina fresca che le ricopriva come piccoli batuffoli di cotone.
«Il letto va rifatto in maniera esemplare» disse Maria. Amplificava le parole con gesti teatrali, eleganti, e quando disse: "esemplare", alzò il dito a indicare il soffitto, forse oltre, lassù, come a dire che Gesù sì che lo rifaceva sempre bene, il letto.
«Mi stai ascoltando?» chiese.
Purtroppo no, Giovanni non la stava ascoltando, perché a undici anni è complicato stare sempre attenti e poi si sentiva stanco. Sbadigliò.
«Stai dormendo bene?» chiese Maria.
Giovanni piegò il capo, fin quasi a toccare la spalla. D'improvviso gli sembrò che tutta la stanza fosse coloratissima.
«Non lo so» rispose. Ed era vero, non ricordava a che ora avesse preso sonno. Non ricordava di aver dormito neppure un giorno, nell'ultimo mese, a dirla tutta.
Maria aggrottò le sopracciglia.
«Devi riposare. Dormire bene è importante, Nanì.»
«Come mi hai chiamato?»
«Dammi del lei, non...»
«Solo mia mamma mi poteva chiamare così, non chiamarmi mai più così, brutta… brutta puttana!»
Giovanni sentì gli occhi riempirsi di lacrime e tutto davanti a lui divenne annacquato, come se stesse affogando.
Maria si alzò, il viso arcigno, il naso affilato a nascondere le labbra sbiancate.
Lo prese per il colletto, lo fece alzare e lo trascinò giù per le scale.
Giovanni urlava e scalciava, sapeva bene dove stavano andando, ci finiva sempre più spesso, a riflettere.
Maria sospirò quando lo fece entrare nello sgabuzzino, come se fosse davvero dispiaciuta per come erano degenerate le cose.
Il locale era ricavato dallo spazio sotto le scale del pianterreno, quindi era molto alto nella parte iniziale, ma andava abbassandosi gradualmente, fino a scomparire in un angolo buio. La parete di fronte alla porta era occupata da un pesante scaffale di legno massello, dove era riposto di tutto, dalle pentole in ferro alle confetture, fino alla radio a valvole che aveva smesso di funzionare giusto un mese prima, mentre stava trasmettendo un discorso di Mussolini sui patti lateranensi.
«Siedi lì e rifletti» disse Maria, indicando sotto le conserve. Giovanni obbedì e lei chiuse la porta a chiave. A differenza delle altre volte, però, ci fu un cambiamento. Di solito restava un sottile filo di luce, una striscia dorata sotto la porta, ma d'improvviso sparì anche quella, come se Maria lo avesse sigillato.
A Giovanni mancò il respiro. Cercò due volte di deglutire prima di riuscirci, si tastò le braccia per essere sicuro di non essere scomparso. Non riusciva a vedere nulla, era più buio di quando chiudeva gli occhi, ché almeno una velina rosata riusciva sempre a scorgerla quando si guardava le palpebre. Ora nulla, occhi chiusi, occhi aperti, era tutto nero. Si tenne al muro, perché aveva avuto la sensazione di cadere. Aveva l'intonaco sotto le dita, lo avvertiva, ma non lo vedeva e gli parve che la parete lo stesse aspirando. Staccò le mani dal muro, urlò, si portò le mani al volto e iniziò a tremare. I denti gli sbattevano talmente forte da rimbombare nel cranio, cercò di smettere, si mise una mano in bocca e la morse, più volte. Il dolore lo fece sentire meglio, una cosa che non avrebbe mai creduto possibile. Si graffiò un polpaccio. Il male, ancora più intenso, lo rese vigile. Recuperò il respiro e rantolò un poco, come un cagnolino ferito. Fu allora che cominciò a guardare il buio, perché gli parve che qualcosa si muovesse, laggiù, nell’oscurità.
La tenebra pulsava. Come un battito di cuore.
«Ora dirò qualcosa» sentì dire da qualcuno nel buio, qualcuno con la erre moscia, «anzi, a dire il vero l'ho già detta, quello che voglio dire è che sarebbe meglio se non ti spaventassi, c'est possible?»
Giovanni avvertì un tocco, come dei peli, setosi e morbidi, sulla caviglia. Si irrigidì, era così teso da non riuscire neppure a battere le palpebre.
«Sono io» disse la voce, «è la mia coda, non preoccuparti. Adesso farò un poco di luce, così, voilà.»
Giovanni sentì la radio sfrigolare sopra la testa e le valvole si illuminarono. Era un lieve chiarore, giallo, malato e innaturale, ma dopo tutta quell’oscurità sembrava il solleone d'agosto.
Un gatto era accoccolato vicino ai suoi piedi. Un bel micio color miele, con la coda gonfia come un piumino per spolverare. Gli occhi gialli, le vibrisse così lunghe da toccare terra. In un modo che era meraviglioso e perverso pareva sorridere.
«Eccomi qua» disse, «et rien, c'è poco altro da dire.»
«Tu, tu…» farfugliò Giovanni, facendosi il segno della croce, «sei il diavolo!»
«Mais non!» disse il gatto, «ma quale diavolo, io sono qualcosa di molto più semplice. Sono qua per aiutarti a ricordare.»
«Sei francese?»
«Je ne sais pas. Dovresti saperlo più tu, mon amie, io non ho una forma precisa. Sei tu che mi vedi così.»
Giovanni si concentrò. A lui in effetti i gatti piacevano. E amava la Francia; gli piaceva quando suo padre lo caricava sulla Isotta Fraschini e lo portava sulla Riviera, dopo Ventimiglia, fino a Cannes, per quei suoi lavori misteriosi che svolgeva per il Duce in persona. Ormai non lo portava più con sé, ma una volta erano arrivati fino a Marsiglia e lì avevano mangiato la zuppa di pesce e suo padre gli aveva fatto assaggiare un sorso di chablis che gli aveva fatto pizzicare la gola. Gli parve di sentire sulla lingua il sapore asprigno del vino.
«Vedi?» chiese il gatto.
«Cosa?»
«Funziona. Inizi a ricordare. Ma c'è una cosa più importante che deve tornarti in mente.»
«E cosa sarebbe?»
«La stai già cercando dentro al grammofono, mais sei ancora lontano.»
Giovanni udì il rumore della chiave che girava nella toppa e si rannicchiò all'angolo. Diede un colpo con la schiena allo scaffale e lo sentì dondolare, dietro di lui.
«Puoi uscire» gli disse Maria.
Nello sgabuzzino, Giovanni era solo.
Passò la giornata in camera sua. Sentiva Maria suonare il piano a coda, dabbasso, nella sala della musica, una polacca di Chopin. Non capì bene quale perché nonostante tutto fosse chiaro, nitido e preciso, era come se fosse lontanissimo. Era la mancanza di sonno, ipotizzò.
Dal finestrone che stava sopra la scrivania vedeva il parco e il labirinto di siepi. Oltre, appena dopo il laghetto artificiale coperto di ninfee, Umberto, il giardiniere, scavava una buca. Giovanni lo osservò lavorare per tutta la sera. La buca divenne una voragine.
Scosse la testa, non era importante cosa stesse facendo Umberto, non era importante più nulla. Doveva concentrarsi su una cosa sola: finire il discorso col gatto.
Trovarlo e ricordare.
Cenò presto e andò a letto. Rimase immobile a fissare il soffitto fino a quando non udì Laura che si ritirava in camera. La notte era luminosa, con la luna a tre quarti alta sulle fronde del bosco.
Scalzo, scese le scale fino al piano interrato e si affacciò nello sgabuzzino.
«Signor gatto» chiamò, «sono io.»
Nessun rumore.
Ci pensò su.
«Psss… psss...» fece, ma si fermò subito, ritenendo di essere poco rispettoso.
«Monsieur chat, tu es là?» azzardò, ma nulla si mosse.
Tornò su, nella sala della musica. Alzò il coperchio del piano e passò le mani sui tasti. Il grammofono torreggiava al centro della stanza, appena illuminato dalla luce lunare che filtrava tra le tende di pizzo.
Giovanni guardò dentro la tromba. Al centro, dove si restringeva, era il buio. Un punto di caduta, dove tutto prima o poi sarebbe precipitato. La tromba amplificava il respiro rendendolo un uragano.
Poi li vide, due occhi gialli, sul fondo.
«Signor gatto, sei tu?» chiese.
«Mais oui. Sono io, mon amie. Hai ricordato qualcosa?»
«No, è tutto così confuso...»
«Bien, chiudi gli occhi.»
Giovanni serrò le palpebre e trattenne il respiro. Arrivò il vento da ponente e la sabbia grossa tra le dita. Voleva fare il bagno.
"Ti prego!" implorò.
Sua madre sedeva sulla sdraio, la sigaretta in equilibrio nelle labbra strette, un ombrellino sulla spalla e un libro sulle ginocchia. Il vento faceva girare le pagine e lei teneva il segno con l'indice. Aveva un bell'abito azzurro.
Maria arrivò trafelata; era spettinata, il viso arrossato.
«Era in camera di tuo padre» puntualizzò il gatto.
"Lasciaglielo fare" disse Maria, mettendosi a sedere anche lei.
L'acqua era ghiacciata, Giovanni si mise a nuotare fino agli scogli e poi sotto al pontile. Le alghe erano morbide e viscide allo stesso tempo. D'improvviso urlò. Andò sotto, bevve, tornò in superficie e urlò di nuovo.
"Nanì" gridò sua madre, "arrivo, Nanì!"
Si gettò in acqua vestita e cercò di raggiungerlo, ma la mamma non sapeva nuotare, l'abito si inzuppò e lei cominciò ad annaspare.
«Pensava che si toccasse, ma l'acqua era alta e la corrente sotto al pontile era forte» disse il gatto.
Maria la seguì, si era tolta il vestito e nuotava bene. Raggiunse Giovanni e lo aiutò, poi si diresse verso la mamma.
«Cosa successe poi?» chiese il gatto.
Giovanni riaprì gli occhi. Piangeva.
«Maria tenne la testa di mamma sotto l'acqua» sussurrò.
«Ecco perché ti odia così tanto, le ricordi ciò che ha fatto. C'est clair, n'est-ce pas?»
«Non la lasciava respirare…»
Non dormiva da tre giorni. Tutti i suoni gli giungevano o troppo forti o troppo ovattati. Rimase dieci minuti immobile a fissare il suo riflesso capovolto nel cucchiaio: le occhiaie profonde, lo sguardo spento. Era stanco, d’una stanchezza infinita. Ma lui non demordeva, aveva un segreto nel cuore che doveva conservare e consegnare a suo padre quando fosse tornato. E tutto si sarebbe sistemato.
Mentre si faceva la doccia cominciò a perdere sangue dal naso. L'acqua usciva tuonando dai tubi di bronzo intrecciati sopra la sua testa e finiva in un vortice verso lo scarico, al centro della cabina. La schiuma densa del sapone, il rosa annacquato del sangue, un gorgo infernale, una spirale sulle piastrelle verde chiaro. Cadde in ginocchio e dallo scarico lo sentì, il gatto, che fischiettava un'allegra marcetta.
«Non ce la faccio più!» urlò Giovanni, verso il buco.
«Eh, mon chéri, sono davvero desolato, ma il piano di aspettare tuo padre non funzionerà mai.»
La voce del gatto giungeva chiara dallo scarico, come se fosse a pochi centimetri da lì.
«Maria ha ucciso la mamma perché è l'amante di tuo padre. Elle le prend dans sa bouche. Lui non ti crederà mai» continuò.
Giovanni fu preso dal panico, cosa poteva fare allora? Il sangue aveva smesso di uscire, ma ne sentiva il sapore ferroso. Gli venne da vomitare.
«Io avrei un'idea» disse il gatto e rise, una risata che pareva un colpo di tosse.
Maria gli camminava davanti, in silenzio. Scesero le scale, lei aprì lo sgabuzzino e guardò dentro.
«Pensi ti sia caduta qua?» chiese.
Giovanni annuì. Non riusciva a parlare, aveva la bocca secca. Maria accese una candela e cominciò a controllare sul pavimento. Giovanni si era inventato di aver perso la spilla da Balilla, gli serviva una scusa per farla entrare nello sgabuzzino.
«Magari ha rotolato ed è più in fondo» mormorò.
Maria fece qualche passo dentro e dovette chinarsi quando il soffitto le sfiorò i capelli.
Giovanni la seguì, raccolse da terra una corda e uscì. Un capo in mano e l'altro annodato al piede dello scaffale, già mezzo segato. Aveva preparato tutto la notte prima, con calma. Aveva anche riportato la sega nel casotto di Umberto, dove erano conservati gli attrezzi per la manutenzione e il giardinaggio, i fertilizzanti e il veleno per i topi. Diede uno strattone, ma il piede non cedette.
«Più forte» disse il gatto. Ormai non lo lasciava più, era là anche ora, vicino alle sue gambe. Giovanni tirò di nuovo e stavolta il piede saltò. Lo scaffale collassò con un fracasso atroce. Maria urlò mentre rimaneva schiacciata contro il muro, seppellita da quintali di barattoli, bottiglie, vasi e ciarpame. Rimase ancora qualche minuto ad ansimare, un sibilo strozzato, poi, piano, si spense.
Giovanni fece sparire la corda e aspettò ancora qualche minuto prima di mettersi a gridare per chiamare Laura. Nel frattempo, si ricordò tutto e gli venne sonno.
Giovanni li sentiva urlare, Laura e Umberto, fare un chiasso incredibile, giù, mentre cercavano di liberare Maria dallo sgabuzzino.
Lui invece era tornato con calma in camera e si era sdraiato sul letto.
Doveva dormire. Le palpebre si chiudevano da sole.
Il gatto gli si accoccolò tra i piedi.
«Ti è tornato in mente tutto, c'est vrai?» chiese.
«Eri là, ci guardavi dalla spiaggia, ridevi.»
«Mais oui, bien sûr. In realtà non ti abbandono mai. Io, in un certo senso, sono te.»
«Ho fatto finta di annegare...» bisbigliò Giovanni, con difficoltà. Le parole erano come incastrate in gola. Gli occhi si chiusero senza che potesse farci nulla.
«Maman è venuta a salvarti, anche se non sapeva nuotare.»
«Cercava di tenersi ai pali del pontile. Li graffiava.»
«E tu l’hai tirata via.»
«Tutti hanno pensato a un incidente.»
«Certo, l’alternativa era troppo dolorosa e avrebbe rovinato la carriera politica di tuo padre. Ma un piccolo dubbio, taciuto, lo hanno sempre avuto. Sarà dura anche questa volta, ma alla fine ti crederanno.»
«Mi avevi raccontato che mamma voleva lasciarci, che aveva un altro.»
«Erano bugie.»
«Ma perché?»
«Je ne sais pas. Dovresti chiedere a te stesso, in un certo senso te le sei raccontato da solo. Forse hai bisogno di una giustificazione per far uscire il male che hai dentro.»
Giovanni provò a riflettere, ma ormai tutto si faceva lontano e pensare era impossibile.
«Forse» continuò il gatto, «hai così tanto buio che ti si accumula dentro che a un certo punto te ne devi liberare. Comincia a uscire da solo. Forse anche io altro non sono che parte di quella oscurità. O forse» sospirò, «è come in quella poesia, semplicemente accade.»
«Ed è la mia tortura…» bisbigliò Giovanni.
«Già» sussurrò il gatto, «mais allez, bonne nuit, Nanì, dormi, domani avrai scordato tutto. Compreso me.»
E mentre Giovanni sprofondava nel sonno, il gatto piano svaniva. Rimase un’immagine residua, un’idea, appena un’ombra senza contorno.
«Ma non preoccuparti, mon amie» disse ciò che ne rimaneva, «ci rivedremo presto.»