Quando Alfredo aprì gli occhi la mattina dell'undici luglio 1982, la prima cosa che pensò fu che, in un modo o nell'altro, tutto sarebbe ritornato alla normalità. Tutto ciò gli generava un forte senso di malinconia, però allo stesso tempo lo rincuorava. Per l'italiano medio malato di pallone(e lui era l'italiano medio malato di pallone per eccellenza) il mondiale rappresentava il culmine di un'attesa lunga quattro anni, quasi millecinquecento giorni spesi ad aspettare inconsciamente l'arrivo del massimo torneo, una bolla nella quale galleggiare e vivere al di sopra di tutto e tutti per quattro settimane.
Se poi, come in quel caso, l'Italia raggiungeva la finale e, se come ogni italiano si aspettava, l'incontro fosse culminato con la conquista del titolo, ci si poteva crogiolare una notte intera in una sorta di delirio di onnipotenza, dove soltanto per poche ore anche l'impossibile sarebbe stato possibile. Ogni patema e angoscia dimenticati.
Alfredo allungò le braccia e si stirò, augurandosi di poter tirare fuori il tricolore dallo sgabuzzino e portarlo a sventolare in giro per Roma a bordo della sua Alfa Sud rossa. Sbadigliò. Era esausto. Non vedeva l'ora che arrivasse agosto e le tanto agognate ferie per riposarsi. Sì perché, come ogni malato di calcio, non si limitava a seguire solo le partite dell'Italia, ma anche tutte le altre! Non poteva di certo perdersi incontri interessanti ed equilibrati tipo Ungheria-El Salvador(come no, proprio una partita in bilico quella, conclusasi sul punteggio di 10-1 per i magiari). Seguire il mondiale era stancante come lavorare! A proposito di lavoro, giugno, con tutte quelle partite dei gironi, era stato massacrante e lui era riuscito a consegnare il materiale giusto per il rotto della cuffia. Se possibile luglio buttava ancora peggio. Lavorava come disegnatore e sceneggiatore per il fumetto Homo Erectus, un mensile erotico che tirava parecchio, soprattutto tra gli adolescenti. Per quel mese non aveva ancora uno straccio di idea e la cosa iniziava ad angosciarlo. A essere sinceri una cosa pronta c'era, ossia il titolo del nuovo numero: Erezione a catena. Gli era venuto in mente qualche giorno prima, quando era stato coinvolto in un maxi tamponamento sulla Via Ostiense. Era sceso dall'auto e qualche metro più avanti, al lato della strada, aveva visto due ragazze dai lunghissimi capelli biondi che cercavano di sistemare la catena che si era sfilata dal loro tandem. I sederi delle due creature si dimenavano leggiadri all'interno dei pantaloni di jeans, attillati all'inverosimile. Si era formato un piccolo capannello, con una mezza dozzina di uomini che stavano cominciando a esternare apprezzamenti di una volgarità unica.
«E su, aiutiamole, invece de dì fregnacce! Ci dobbiamo sempre far
riconoscere» aveva detto Alfredo avvicinandosi alle due ragazze in difficoltà. «Avete bisogno d'aiuto? Can i help you?»
A quella richiesta le due creature si erano voltate, esibendo un dolce sorriso incorniciato in un pizzetto sale e pepe. Erano due uomini di mezza età! Il tempo parve fermarsi un istante, non più di tre o quattro secondi, poi un'esclamazione giunse a rompere quella sorta di sospensione innaturale, riportando tutto alla realtà.
«Ma li mortacci» aveva esclamato un tizio dal centro del capannello e, subito dopo, era seguito una sorta di fuggi fuggi generale. Anche Alfredo, dopo aver biascicato un “sorry”, era risalito in auto e si era allontanato a tutta velocità, ripromettendosi di non passare mai più per quella strada.
«Ingrid» chiamò Alfredo, allungando la mano verso l'altro lato del letto e sballottando la sua compagna. «Svegliati.»
Lei rispose con un mugolio assonnato, mentre lui continuò a scuoterla.
«Dai svegliati, è tardi. Ho bisogno del tuo aiuto.»
«Che vuoi? Lasciami dormire» ciancicò la donna, nascondendo le parole in uno sbadiglio.
«Dai, vatti a mettere la divisa, ho bisogno d'ispirazione. Questa volta senza il tuo aiuto non combino nulla.»
La donna sbuffò platealmente, poi si alzò dal letto, sacramentando nella sua lingua madre.
«Sai che non mi piace quando dici le parolacce in tedesco. Non le capisco. Usa quelle romane che le conosci.»
Ingrid si bloccò sotto lo stipite della porta della camera, poi si voltò, fulminandolo con gli occhi. «Non ho pronunciato nessuna parolaccia, ho soltanto detto di avere sposato un pervertito. Lo sai che non dico parolacce, in tedesco poi! Ahò, sei proprio de coccio, in culo te c'entra, ma in testa no.»
Alfredo sorrise e le mandò un bacio con la mano. Mentre Ingrid si preparava in bagno, lui tirò fuori dal cassettone l'album da disegno e le matite pastello, quindi preparò il caffè. Era già successo un paio di volte che, trovandosi a secco d'ispirazione, aveva sfruttato la moglie come modella erotica. Il punto cruciale di ogni lavoro era la copertina, perché per lui era sempre da lì che partiva ogni cosa. Una volta che riusciva a cogliere l'anima dello schizzo iniziale, poi tutto procedeva in discesa, storia e disegni scaturivano da soli, senza più alcun rallentamento.
Ingrid e Alfredo presero il caffè lì nel letto, poi la donna si alzò e raggiunse la finestra.
«Come mi devo mettere?» disse con una punta di disagio nella voce. Si trovava un po' in imbarazzo a posare in quel modo, ma non se la
sentiva di abbandonare il marito alle sue difficoltà. È vero, era un gran pervertito, però lo amava.
«Mettiti di lato e appoggia la gamba sinistra sulla sedia. Tira su la gonna, mostra la coscia e guarda verso di me.»
Alfredo, con la schiena appoggiata contro la testata del letto, cominciò a tracciare rapide curve sul foglio bianco. Non sapeva ancora cosa ne sarebbe uscito, però intanto qualcosa si era smosso, sul foglio e sotto il tessuto delle sue mutande. Adorava sua moglie e con addosso la divisa da infermiera era eccitante come non mai.
«Pensa se in questo momento mi vedessero i colleghi del Fatebenefratelli» esclamò Ingrid nervosamente. «Che vergogna. A proposito, non fare come l'ultima volta, cambiami almeno il viso. Non voglio rischiare di essere riconosciuta.»
«Perché, i tuoi colleghi d'ospedale leggono Homo Erectus? Me cojoni, la cosa m'inorgoglisce tantissimo.»
«Non fare l'idiota! È solo un mio scrupolo. Figurati se quelli leggono le tue porcherie.»
«Vabbè, vabbè, sarà come dici tu, ma tira su quella gonna, non farti tirare la calzetta. Falle vedere quelle cosce, a Monaca de Monza.»
«Certe volte mi chiedo perché ti ho sposato» rispose la donna mettendo su il broncio.
«Ce lo so io perché» contrattaccò lui con fare allusivo. «Brava così, non cambiare espressione. Incazzata ti voglio. Sei perfetta, sexy da morire.»
Alfredo faceva scorrere la mina sulla carta con velocità e delicatezza, con l'immagine della copertina e l'embrione della storia che cominciavano a prendere una forma precisa nella sua mente.
«Ma sei così sicura che nessuno legga i miei capolavori? Neppure quel segaossi del primario del tuo reparto? Io già me lo vedo nascosto nel bagno col giornaletto tra le mani, prima di un'operazione.»
«Chi? Il professor Ceciotti? Ma che cazzo stai a dì? Quello è un luminare, opera anche in America.»
«E meno male che non dicevi parolacce, Ingrid.»
«Sì, vabbè...» fece lei, salutando con la mano e abbandonando la sua postazione.
«Tesoro, ma dove vai?»
«Me sò rotta» disse, spogliandosi e abbandonando la camera da letto. Sotto la divisa bianca era completamente nuda.
Alfredo la guardò sparire verso la zona giorno, dopodiché gettò il blocco da disegno sul letto e, come il protagonista di una delle sue storie, la rincorse con sguardo allupato.
Trascorsero l'intero pomeriggio a letto, in totale relax, a fare l'amore
come due ragazzini innamorati e a ricordare il passato in attesa della finale mondiale.
«A che punto sei con la storia?» chiese lei, accarezzandogli il petto ricoperto da tre quarti di foresta amazzonica.
«Ho tutto in testa. In una decina di giorni dovrei riuscire a completare tutte le tavole. Grazie dell'aiuto.»
«Sono contenta» continuò Ingrid. «Ti ricordi il giorno in cui ci siamo conosciuti? Indossavi quel costume buffo.» La donna si lasciò scappare una risata e lui si unì a lei.
Si erano incontrati al Lido di Ostia a metà degli anni settanta: lei un'altoatesina in vacanza con le amiche, lui un coatto senza arte né parte, sempre alla ricerca di avventure. Due figure agli antipodi che per uno strano scherzo del destino si erano trovate.
«Quegli slip leopardati erano di una cafonaggine unica. Con quell'assurdo rinforzo sul davanti. Io e le mie amiche abbiamo riso per giorni. Ma come ti è venuto in mente?»
«Lo sai che non ho mezze misure. Sono un megalomane, mi piace fare le cose in grande.»
Risero ancora. Era tanto che non passavano una giornata così spensierata, colma di complicità. Lei gli accarezzò il viso.
«Hai dei bellissimi occhi. Sono la prima cosa che ho notato di te, a parte il costume, s'intende. Di me invece cosa ti ha colpito? Non me l'hai mai detto.»
Alfredo ci pensò un po' su, non voleva essere banale.
«La tua mentalità» rispose alla fine. «Mentalità tedesca.»
«Come la mia mentalità!» esclamò Ingrid stupefatta.
«Sì, la tua mentalità, quella mistura di decisione e pragmatismo che è difficile da trovare nelle ragazze mediterranee. Infatti me l'hai smollata subito alla prima uscita. Questo mi ha colpito moltissimo.»
«Aò, stai a pattinà sur filo der vaffanculo. Sei il solito pervertito senza un briciolo di romanticismo.»
«Dai che stavo scherzando! Lo sai che non sono uno sdolcinato.»
Alfredo guardò l'orologio:erano le sei passate. «Allora, hai deciso per chi tifare stasera?» le chiese d'un tratto.
«Ma che scherzi? Tiferò Germania, avevi dei dubbi?»
«Ma come Germania? Va bé che sei nata a Bolzano, ma sono sette anni che abiti a Ostia...T'ho pure insegnato a parlà romanesco che me pari una de Trastevere. Come se fa a tifà per quei magnasarsicce?»
«Come faccio? È questione di mentalità. Mentalità tedesca. Che c'è? Mò nun te sta più bene?»
«Va bé, ho capito, vado a preparà che è mejo.»
Alfredo aveva deciso di godersi la finale a casa propria, in tranquillità,
dopo le vicissitudini delle partite precedenti. Il girone eliminatorio era stato una rottura di palle galattica, con tre pareggi deludenti. Aveva visto gli incontri al bar, con gli amici, e per digerire quel concentrato di noia assoluta aveva dilapidato quasi mezzo mensile in birre e maraschini. Poi c'erano state le sfide con Argentina e Brasile, gare epiche, bellissime, ma dai risvolti folli. Le aveva seguite a casa di suo fratello Cesare, col quale era quasi venuto alle mani nel dopo partita con l'Argentina. Cesare, ancora euforico per la vittoria, aveva voluto riproporre con lui la marcatura di Gentile su Maradona e il risultato era stato così realistico che Alfredo si era ritrovato con la Lacoste nuova a brandelli. Coi brasiliani, per evitare problemi, aveva tolto la maglietta, restando a torso nudo. Il primo tempo era filato via liscio, un'emozione dietro l'altra, il secondo invece aveva assunto i toni della tragedia. Sarà stata la tensione per il risultato in bilico, le troppe birre gelate, oppure il ventilatore che gli sparava aria fredda direttamente sulla pancia, insomma, nei successivi quarantacinque minuti aveva fatto la spola tra il divano e la tazza del cesso, con l'intestino in subbuglio, scosso da una marea di sudori freddi e con in sottofondo le risate impietose di quella carogna del fratello.
Infine la semifinale con la Polonia, a casa del suo vecchio. Lì tutto era stato nella norma, con suo padre che bestemmiava a ogni passaggio sbagliato e sua madre che dopo ciascuna imprecazione si faceva il segno della croce. Sua madre era molto religiosa e Alfredo, guardandola di sottecchi, aveva avuto come l'impressione che stesse segretamente tifando per i polacchi, come per una sorta di devozione nei confronti di papa Wojtyla.
«Che stai facendo?» chiese Ingrid vedendolo trafficare col televisore.
Alfredo, tramite un accrocco impossibile di spine e prolunghe, era riuscito a posizionare l'apparecchio di fronte alla portafinestra del salotto. «Stasera ci guardiamo la partita al fresco, in giardino. Le brandine coi teli sono già pronte, in mezzo il tavolinetto per gli stuzzichini e i beveraggi. Le birre e le tartine stanno già in frigo, manca solo di andare a prendere la pizza. Io prendo una romana, tu la solita wurstel e crauti, giusto?»
Ingrid scosse la testa, poi gli fece la linguaccia.
La partita iniziò come da programma alle venti. Lo stadio Santiago Bernabeu era una bolgia traboccante di spettatori. In tribuna autorità il presidente Sandro Pertini, re Juan Carlos di Spagna e il cancelliere tedesco Helmut Schmidt erano maschere impenetrabili.
«Dai Sandrino, che li sfragnamo sti crucchi.» urlò Alfredo già in pieno clima partita, agguantando una Peroni dal tavolino.
In sottofondo, accanto alla voce del telecronista Nando Martellini, il canto gioioso e ossessivo delle cicale galleggiava soporifero nell'aria umida. L'andamento iniziale dell'incontro fu abbastanza piatto, senza sussulti, almeno sino a metà del primo tempo, quando Bruno Conti venne atterrato in aria.
«Rigore! Arbitro, rigore! Ma che lo vuole ammazzare quello» gridò Alfredo saltando in aria come una molla. «Tesoro, preparati a prendere il primo» disse poi rivolgendosi a Ingrid.
Purtroppo però Cabrini calciò fuori il rigore, facendo eclissare l'Italia intera in una cappa di sconforto. Alfredo per la delusione perse l'equilibrio e cascò giù dalla brandina, facendo esplodere Ingrid in una risata irrefrenabile. La prima frazione terminò così come era iniziata, in maniera blanda. Durante tutto l'intervallo, Alfredo, all'apice del nervosismo, corse avanti e indietro per il giardino, saltando di tanto in tanto anche la sdraio, sotto gli occhi increduli della moglie. Poi finalmente iniziò il secondo tempo. Al gol di Rossi un boato di giubilo annientò l'aria e il canto delle cicale. Alfredo, come se fosse stato lui a segnare, si tolse maglietta e calzoncini e, con indosso solo lo slippino leopardato, si arrampicò sul cancello.
«Goooooo-ooooooo-oooooolllllll»gridò come un novello Tarzan, le mani posizionate ai lati della bocca, sotto lo sguardo sempre più allibito della moglie che assisteva alla scena con la bocca spalancata e le mani nei capelli. A quel richiamo selvaggio rispose gran parte della popolazione maschile della via. Nell'ordine: il ragionier Marchetti, impiegato alla filiale del Banco di Roma di Via Tuscolana, il dottor Bernabé, medico della mutua con una specializzazione in otorinolaringoiatria, Pino Palomba, detto Er Ruchetta, titolare di un banco di frutta e verdura ai mercati generali e per finire Jerry, l'alano dei signori Vincenzi.
Passarono solo una decina di minuti e il delirio si ripeté. Al secondo gol Alfredo parve cambiare fisionomia, acquisendo i lineamenti di Tardelli e, scuotendo i pugni, s'involò nuovamente verso il cancello: se possibile l'urlo risultò ancora più potente del precedente. Sui loro balconi il ragionier Marchetti, Er Ruchetta e Bernabé risposero a quel grido feroce, anche loro sventolando i pugni nella loro personalissima trasfigurazione in Marco Tardelli. Solo Jerry marcò visita.
«Jerry, Jerry, li mortacci tua, dove cazzo stai?» sbraitò come un indemoniato Alfredo. «Abbiamo fatto il secondo, Jerry, amico mio, vieni a festeggiare.»
Finalmente, all'ennesima invocazione, l'alano si palesò davanti al cancello dei Vincenzi, alzandosi sulle zampe posteriori. Tre metri di cane! Con la bava alla bocca, fissò Alfredo negli occhi e gli ruggì contro, come a dire “aò, nun me devi rompe er cazzo”.
Alfredo scese dalla cancellata e tornò a sedersi sulla brandina,
visibilmente contrariato.
«Ma che ha quel cane? Mi ha ringhiato contro...Sembrava così simpatico» protestò con la moglie.
«E lascialo stare, porello. Matilde l'ha portato a castrare la settimana scorsa.»
«Ah sì? Per caso ha portato pure il marito? Fosse uscito una volta per esultare, quello!»
Potrà sembrare strano, ma al gol di Spillo Altobelli, come se fosse stato in grado di percepire quella malignità, Mirko Vincenzi si affacciò alla finestra facendo sventolare il tricolore.
«E sono tre, perdinci! A casa i tedeschi. Raus.»
Udendo quelle parole Alfredo entrò veloce in casa, tirò fuori dal ripostiglio la bandiera e corse in strada per sventolarla in sincrono col signor Vincenzi, in una sorta di festosa comunione. Nel frattempo era sopraggiunto anche Jerry, attratto dalla voce del padrone: prima si fermò sotto la finestra a fissarlo, come in attesa di qualcosa, di una ricompensa, poi, visto che non c'era trippa per gatti, puntò in direzione di Alfredo, pentendosene subito. Senza perdere ulteriore tempo invertì la marcia e tornò sculettando alle proprie occupazioni.
Da lì a poco si scatenò l'apoteosi. A nulla valse il gol della bandiera di
Breitner per la Germania: al fischio finale l'aria si riempì del suono
festante dei clacson di un'intera nazione. Era come se gli italiani avessero vinto la guerra.
«E tu dove pensi di andare?» domandò Ingrid, vedendo il marito che si stava rivestendo e stava puntando il garage.
«Come dove vado? In centro a festeggiare. Mi unisco alla bolgia.»
«E avresti il coraggio di lasciarmi qui da sola, in preda al mio dolore? Ho bisogno di essere consolata. Ti avverto, se varchi quel cancello te la scordi per un mese.»
Alfredo indugiò, indeciso sul da farsi. Sua moglie era proprio una guastafeste. Certo, voleva festeggiare, ma l'idea di uno sciopero a passera selvaggia lo inquietava.
«Hai ancora voglia di fare l'amore?» le chiese, sapendo già la risposta.
«Perché, tu sei stanco?» rispose lei mostrandogli le cosce.
«Stanco io? Ma se sono in una forma mondiale» e così dicendo si tolse nuovamente maglietta, pantaloncini e pure gli slip.
«Visto che roba? Altro che rinforzo sul davanti!» concluse lui, prendendo Ingrid in braccio. Mentre entravano in casa per festeggiare a modo loro la vittoria degli azzurri, ad Alfredo venne un'idea migliore per il numero di luglio di Homo Erectus. La storia era ambientata in Spagna e il titolo era obbligato: Tira più la gnocca della coppa.