Fino all’ultimo, nonostante la mia mano sia appesantita da un’accidia inspiegabile, farò ciò che sono capace di fare. Tutto questo è pena, è dolore, è morte del cuore. I miei occhi non vedranno più i colori brillanti della natura poiché tutto è ombra e oscurità interiore. Qualcosa che mai riuscirò a rappresentare.
Può un artista rinunciare alla sua musa? No. Può un uomo rinunciare alla donna amata? No. Può quest’uomo vivere nella certezza che il suo sentimento non sarà mai corrisposto? Sì. Perché lo sta già facendo.
Una vita che non segue il normale corso della natura, ma è palesemente contro la natura stessa, la ostacola, la deride, si fa beffe di lei. La volontà del singolo non è contemplata in questa dimensione. L’unica virtù rimasta, sopravvissuta all’anticamera della morte, è la forza della mente. Quello sviluppo mentale che non è possibile arrestare se sopraggiunto precedentemente a un certo evento. Il resto, si può soltanto immaginare. Questa è la mia natura.
Io sono l’allievo che non osserva il maestro, ma lo vigila. Vigila sui suoi modelli. Io sono la controfigura che non vede, non si fa domande, non può apprendere, non può capire. Sono stato scelto apposta. Eppure, non ho niente di diverso dagli altri.
Il desiderio fisico è un ricordo che non ho più, per sempre represso dalla lama. Il dolore è la peggiore tortura. La mente galoppa come un cammello mangiando sabbia, più veloce e più risoluta, nel deserto di una vita e di una virilità strappata. Le energie sottratte al piacere della carne appartenevano a quella parte del corpo ora vuota. La rabbia s’insinua prepotentemente dentro di me, facendomi diventare ciò che non avrei mai voluto essere. Sono l’ombra di me stesso. Un uomo vero che non c’è più.
L’ultima alba è una sfumatura di colori che vela la volta celeste. Rosa del mattino, fiore d’arancio, sottile linea purpurea. Il giorno sta nascendo, tra poco il sole emergerà dalle profondità del mare. I miei occhi godranno per l’ultima volta di tanta bellezza. Nubi minacciose si scontrano dentro di me in un turbine di emozioni che generano soltanto tempesta. Da troppo tempo ormai.
Sui sottili fili d’erba le gocce di rugiada baluginano investite dai primi deboli raggi solari. Un tappeto verde, morbido e regolare; i miei occhi vedono rosso. Non è ancora il momento del sangue.
Verdeggiare d’ulivi, delicatezza dei fiori di pesco ombreggiati a tratti da foglie di palma scosse dal vento. Sopra al piccolo stagno ronzano le api, sono dimesse, disorientate, lente. Cercano un fiore di loto che non c’è. Oggi non ci sarà rinascita. È l’inizio di una fine premeditata e calcolata con perizia. L’arte trionfa anche nella vendetta più spietata, nel rancore di una natura senza colpe. Mi chiedo cosa potrebbe pensare il maestro se sentisse certi miei pensieri. Solo per aver pensato, mi avrebbe punito peggio di come fa con gli schiavi.
Ti sento vicina. Ogni passo mi avvicina a te, il tuo respiro diventa il mio. Fino a quel momento ero rimasto in apnea, per sentirti meglio, per scovare il tuo odore. Avrei trattenuto l’aria per sempre, l’avrei soffocata fino a non sentirla più, fino a non sentirmi più. Ma la conclusione non può essere così semplice. Muoio volentieri una seconda volta. Il tormento che mi assilla è terribile, una punizione perpetua; sono vittima di una passione mentale che mai potrà trovare la sua parte complementare.
Sei lì, oltre la finestra. Mi fermo un attimo. Vale la pena disegnare questa cornice. Oltre la tenda di candido lino c’è un luogo misterioso, tanto crudo quanto la realtà dell’esistenza, tanto bello quanto la sfuggevolezza di un sogno. Avrei voluto, quanto avrei voluto che l’uomo giacesse con te tra le soffici lenzuola del tuo talamo. Non l’artista che più volte hai ispirato, ma l’uomo che ti ha sempre amato, anche se tu non lo sai; l’uomo che ora percorre idealmente i suoi ultimi passi verso un destino che non ha scelto. Ora capisco quanto la fama non sia niente. Quanto il denaro non sia altro che bieco tintinnare metallico. Eppure, io non ho né fama né denaro.
Mi attardo volutamente sulla prospettiva delle pareti che circondano la finestra oltre la quale ci sei tu. Mi approprio delle luci e delle ombre che il sole proietta. I miei occhi catturano l’ambiente circostante e la mia mano lo riporta sul papiro. Un geco sale sul muro dal prato ancora umido. Si ferma poco prima della linea d’ombra: gode del tepore che traspira dalla parete riscaldata; oltre, un brivido di fresco si ritira progressivamente, asciugandosi e seccandosi come una lacrima sul viso. Solchi, gole sul mio viso, lacrime di fuoco sgorgano dai miei occhi rossi e profondi.
Che gli dei abbiano pietà di me! Il mio sguardo è finalmente penetrato oltre la tenda. Potrei chiudere gli occhi e farmi guidare soltanto dall’immaginazione. Nel buio delle mie palpebre chiuse, sapendoti davanti a me, addormentata e bellissima, saprei facilmente orientare la mia mano sulla tavoletta.
Quante volte ho osservato il tuo corpo, quante volte è stato modello ideale e inconsapevole da cui trarre la mia arte? Non hai mai immaginato che anch’io potessi essere un artista capace di rappresentare la potenza della tua figura, versatile e genuina, ferma ma espressiva. L’innata forza che trasmetti è l’impeto che travolge chi ti osserva, sia che ti ritragga come una semplice ancella, sia che ti voglia elevare alla stregua e alla gloria di una dea. Tocco, tocco ancora le curve che io stesso ho disegnato. La mia mano scivola sulla tua pelle liscia e morbida. Sento il tuo profumo. La mia arte compie il suo ultimo passo diventando vera, concreta, tangibile. Non vado oltre, non posso andare oltre. Sono prigioniero del mio corpo mutilato. Avrei preferito morire subito piuttosto che soffrire una tale pena.
I tuoi occhi chiusi tremano immersi nell’immagine sbiadita di un ultimo sogno prima del risveglio. Sei tranquilla, chissà se stai sognando un amore vero. Se così fosse, stai in guardia, poiché potrebbe trasformarsi nel più terribile degli incubi. L’incubo infinito e delirante che io vivo tutti i giorni, un peso che grava sulla mia fragilità imposta. Una condizione che mi ha reso più triste, più oscuro, più incapace; vorrei essere schiacciato come uno scarabeo tra il marmo del tempio e la suola di un calzare.
Sì, sei una dea, addormentata nel tuo mondo insondabile e profondo come gli abissi del mare. Lenisci il dolore di questo mezzo uomo mortale, che non può godere del peccato fisico e dei suoi piaceri. Arresta il delirio di un pazzo d’amore, condanna la pazzia delirante di un artista che ha fallito con se stesso senza aver avuto la possibilità di scegliere.
Ti svegli. Dalla mia posizione privilegiata di vile osservatore sento distintamente il calore del tuo corpo; sensazioni a me proibite di fronte alla visione del tuo seno che rialza la veste, mentre il tessuto scivola sul tuo corpo fino a rientrare in corrispondenza del pube. Nel mio disegno ti ho già svestito, facilmente, in un impeto artistico d’ispirazione incontrollata. Uno per volta, con sottili linee, disegno i tuoi lisci capelli dal color dell’ebano, sono dardi dal riflesso infuocato che colpiscono il papiro e incendiano il mio cuore.
Lo diceva sempre, il maestro, di quanto tu lo ispirassi particolarmente. Si esaltava per il piacere artistico che eri capace di accendere in lui. Era come se andasse oltre la realtà, tanto che, a tratti, avevo la sensazione che mi considerasse un uomo come lui, un uomo artista con le stesse virtù e le stesse debolezze, voglioso di condividere tutta la sua estasi meravigliosa. Ma la realtà cruda ritornava anche per lui e io tornavo un essere inferiore, indegno di fronte alla bellezza dell’arte. Un modo di fare arte che ho assorbito in silenzio, di cui mi sono appassionato, la cui forza passa oltre le regole della società e la vergogna del pregiudizio.
Mi sembra di vederti per la prima volta. Ogni volta che ti vedo è la prima. C’è sempre qualcosa da scoprire di te, qualcosa di nuovo da indagare, qualcosa di vero che vale la pena rappresentare. Se solo la mia lingua avesse la stessa scaltrezza della mia mano! Comunque, tu non mi vorresti. E mai io ti potrei avere.
Adesso sei veramente nuda, ti pettini, ti detergi, il tuo sguardo non tradisce il compiacimento che hai verso il tuo corpo perfetto. Il tempo, per te, sembra non passare mai. Anche per me non passa mai ed è per questo che ho deciso di fermarlo per sempre. Cosa rimarrà? Niente. Sopravviverà soltanto il sogno proibito di un’esistenza inutile, anonima, innaturale. Né le mie azioni né la mia arte potranno sottrarsi al giudizio degli dei.
Le onde s’infrangono sugli scogli, la schiuma lentamente scompare risucchiata dalla risacca. Maestoso, imponente, salvifico: come ha potuto il faro della nostra meravigliosa città non illuminare il nostro amore in balia del mare? Ho cercato una guida, ho cercato la ragione. Ho trovato soltanto vuoto. Empietà d’animo conseguente all’assassinio della mia virilità, condizione disperata che ha accentuato il mio delirio mentale fino alla pazzia assoluta. Nemmeno in questa ultima rappresentazione, l’ennesimo tentativo di ritrovare me stesso, il faro ha saputo indicarmi la giusta rotta, per cui la mia nave affonderà in un mare di sangue.
Tra poco non mi resteranno nemmeno i disegni, sepolti inesorabilmente dall’oblio dopo una tempesta di sabbia.
Lo sospettavo. Non poteva essere altrimenti. Non mi sorprende. Il maestro sarebbe stato troppo vecchio per te, anche se a volte ho pensato che potesse desiderarti. E averti, se solo avesse voluto.
Il giovane guerriero è aitante, te lo sei scelto bene. Lui ha scelto altrettanto bene. Quali possibilità può avere lo scaltro artista di fronte a un simile esempio di qualità morali e fisiche? Mi piace immaginarvi lontani. Tu lo attendi passeggiando in giardino. Sei turbata ma sorridi. L’attesa rende ancor più vero il tuo desiderio mentale e fisico. Il vento fa volare i lunghi capelli e schiaccia la veste sul tuo corpo. Le curve riprendono forma. Le tocco ancora una volta. Il sangue mi sale al cervello, le orbite si gonfiano, le mie pupille eclissano le iridi.
Lui è sul campo di battaglia e brandisce una lancia insanguinata. Il sangue ancora caldo cola sulla mano. Ha la fronte imperlata di sudore misto a polvere e sabbia. Ansima. Ha combattuto valorosamente, ha ucciso. Il suo onore incontra ancora una volta la volontà degli dei. Ansima ancora, ma d’impazienza. È impavido. La morte lo attende dentro di te.
D’istinto, la mia mano si ferma non appena sento i vostri umori invadere la stanza. Penserei a un mostro sopra di te se i tuoi gemiti di piacere non tagliassero l’aria riempiendola di tutta la tua estasi. Lui si comporta come in battaglia, deciso, altero, insormontabile; tu come in posa, sicura, fiera, inarrivabile. Non dimenticherò mai il tuo sguardo magnetico, lo smeraldo dei tuoi occhi che lancia dardi infuocati. Non sono riuscito a fermare le fiamme che si sono propagate dalle mie mani quando ho potuto disegnare il tuo corpo. La mia non poteva che essere arte successiva, consecutiva a un desiderio reciso dalle vanità dei potenti. L’artista brucia, a poco a poco le vampe iniziano a lambire il cuore. Non ci credo, mi sento sporco, insulso, schiacciato dalla volontà di abbandonare al più presto quell’involucro che imprigiona il mio vero essere. Voglio essere libero.
Continuate, godete e continuate ancora. Vi osservo e sento la fine sempre più vicina. Devo fermare questo supplizio che ho cercato volutamente. Il mio piacere terreno è quell’istinto incontrollabile di riprodurre la vita. Nel bene e nel male. Non c’è altro per me. Ho ammirato e glorificato la natura, le persone, gli dei. La mia vita come un fragile fuscello, spazzato via dal vento del rimorso per una tentazione che non potevo avere e che mi ha corroso l’anima.
Ho soltanto immaginato i colori di queste ultime scene. Bianco e nero, nero e bianco, non ci sarà colore per questa vita che s’avvia alla conclusione terrena. I colori, su di te, sono il ponte verso la più alta ed espressiva dimensione artistica di cui non resterà nemmeno il ricordo.
Smeraldo, zaffiro e rubino incastonati nell’oro. Tutto sembra infinito come la sabbia del deserto che acceca i miei occhi, che ha sepolto il mio animo, bruciato i polmoni, arso la gola. Il mio pugno è saldo sull’elsa, nella lama lucida si riflette il mio sguardo spiritato. Che gli dei abbiano pietà di me perché io non ne avrò.
Non pronunciare il mio nome!
Come lo scorpione che attacca, ho affondato il pugnale alla base del collo. È stato un attimo. Sopra di te per l’ennesimo amplesso, il guerriero ha avuto una morte da soldato. Il rosso del sangue è nero, è denso. Sul suo corpo, nel letto, sul tuo corpo, sulle pareti. Su di me. Il mio nome è stata la tua ultima parola.
Non so da quanto tempo vi osservo. Tocco il tuo piede tra le lenzuola intrise di sangue. È ancora caldo. Poso delicatamente il pugnale sul tavolo della specchiera, per non fare rumore. Anche se nessuno può sentirmi. Prima di riprendere il papiro mi lavo la crosta di sangue che ho sulle braccia e sulle mani. Mi tolgo la veste scoprendo la mia cicatrice e la getto sui vostri corpi inermi.
È una corsa contro il tempo. I contorni prendono velocemente forma sulla tavoletta, la mia mano non si stacca mai dalla superficie pulita. Tra le linee emergono le sagome dei vostri cadaveri. Sangue e sudore mescolati a ciò che è stato il vostro piacere e non il mio. Replico la scena in piccolo e in prospettiva mentre si riflette nella specchiera accanto al letto. Dalla parte opposta della stanza, le tende non più candide offuscano la luce del sole.
Il tempo non è che una finestra dalla quale mi affaccio a guardare la natura per l’ultima volta. Questo mondo, visto da qui, osservato in questo momento, ha tutt’altro sapore. Ho aspettato questo tramonto per far in modo che fosse l’ultimo. Sento la mia mano più leggera, spensierata, che agisce sul papiro cavalcando un’onda artistica che di umano non ha più niente. E che nulla avrà di divino a parte il giudizio che dovrà subire.
La mia opera rallenta di fronte al mare di lacrime che non pensavo di serbare. Oh, musa! Quante volte hai posato per me, quante volte ti ho guardato attento per scoprire e imprimere sul papiro ogni piccolo particolare del corpo? Niente di più semplice di un silente dialogo tra un artista e il suo soggetto. Ma non immaginavo che l’amore per una persona potesse essere così travolgente, che andasse oltre il volere degli dei. Pensavo che l’amore autentico fosse soltanto quello per l’arte e per la passione di fare arte. Una dimensione della mente che mi ha coinvolto nella mia totalità, senza lasciarmi spazio per altri pensieri che non potevo avere. Questo credevo fosse l’amore. C’è un confine che ci divideva e ci divide ancora. E ci dividerà anche oltre, per sempre lontani, posti su due piani diversi.
O forse no. La morte mi darà l’occasione di redimere la mia colpa terrena verso di te, per non essere stato capace di renderti partecipe di sentimento profondo anche se parziale, che non avrebbe mai avuto il suo naturale compimento. Un sentimento che mi ha cambiato la vita, abbattendosi su di me con una forza inaudita, che mi ha reso ostaggio della mia mente oltre che del mio corpo. Una follia cieca e inarrestabile. E’ tutto nei miei disegni.
Ho ancora voglia di ritrarti mentre mi attendi nell’aldilà accanto ad Hathor, ansiosa di ascoltarmi. Tutto è perfetto in te, come prima, come sempre. Da questa parte il tuo cadavere mi guarda. Amore mio, posso dirlo adesso?
Ci siamo. Resta l’ultimo papiro, ora la storia è completa. Tra pochi giorni il fetore dei cadaveri si sentirà sulla strada oltre il giardino e qualcuno entrerà qui. Attraverso i miei disegni, dentro la selva del mio delirio artistico, si potrà ammirare tutto il mio disagio. Non l’amore, ma la pena che ho provato per esso. Credo sia il massimo livello che io abbia raggiunto attraverso l’arte. Non una scena statica, ma tanti momenti in successione quasi repentina, come sono le immagini reali della vita che scorre, di cui i nostri occhi sono soltanto spettatori. Nel bene e nel male.
L’ultima scena la dovrò rappresentare attraverso l’immaginazione, poiché la realtà non mi permetterà di farlo in tempo reale. Come uno schizzo: camera da letto, comodino, specchiera e finestra. Due cadaveri sul letto, uno sopra l’altro. Sangue nero.
Ci sono anch’io, seduto sulla sedia della specchiera. Nudo come il verme che sono. Tra le dita stringo l’elsa del mio pugnale e guardo i due corpi che ho assassinato. Marco il sangue sul letto e quello copioso e caldo che scivola sulle mie gambe. Sotto i miei piedi una pozza si allarga. Uno stagno senza api. C’è un ultimo particolare: i miei disegni appoggiati sul comodino, in ordine, dall’alba al tramonto, dal principio alla fine di quest’ultima giornata terrena. Avrei preferito la morte, da subito. Ma questo hanno voluto gli dei. Sto cessando di essere. E non sono più.