“Non funziona.” taglia corto la caposala, lanciandomi uno sguardo bovino.
Grazie, lo vedo anche da me che il televisore della saletta-ristoro non si accende.
“Come mai?'”
“È rotto.”
“Ma va? Pensavo fosse in sciopero.”
“Non sei spiritoso. Comunque sarà ormai più di un mese che non si accende.”
“Farlo riparare, no?”
“Non è compito mio”.
E come ti sbagli...
“Non ne avete un altro che funzioni in reparto?”
“No.”
“Ma domani c'è la partita…”
“Non è un problema mio.”
“Posso almeno scendere giù in cardiologia? Stamattina mi ci hanno portato a fare l'ecocardio e ho visto che hanno un 55 pollici nuovo di pacca.”
“Ho detto di no.”
“Perché?”
“Perché i minorenni non possono uscire dal reparto se non sono accompagnati.”
“Per favore, tra due giorni mi operano e potrebbe essere l'ultima partita di calcio della mia vita. Non ho diritto a un ultimo desiderio? La prego! “
“Ma smettila, che qui non muore nessuno. E adesso fila, torna in camera che ho da fare.”
Sciabatto, riluttante, in direzione ultima-stanza-in-fondo-a-destra, che poi sarebbe la mia.
A metà del corridoio incrocio Italo.
“Ohi, grandissimo!”
“Ohi, Cosimo!” mi saluta battendo il cinque.
“Senti un po', ma come ti sei organizzato per domani, per la partita?”
“Me la guardo sul traghetto.”
“Quale traghetto, scusa?”
“Quello Genova-Palermo. Io tra due ore stacco e vi saluto. Due settimane di ferie, capito? Due!” mi fa, sottolineando la cifra con le dita.
Male. Italo è l'unico infermiere uomo del reparto e contavo su di lui.
Se fosse stato di turno domani sera, avrebbe fatto di tutto pur di non perdersi la partita. Sarebbe riuscito di sicuro a recuperare una TV, anche scassata. Anche a costo di portarsi la propria da casa.
Ma se lui va in ferie bisogna che io trovi un'altra soluzione.
Mi trascino fino alla mia stanza e mi sdraio a letto, l'umore sotto ai piedi.
Andrà a finire che domani, alle venti spaccate tutta Italia sarà davanti alla TV per assistere alla finale dei Mondiali contro la Germania.
Tutti. Ragazzi, bambini, uomini adulti e anziani.
Tutti tranne me.
Tra due mesi compirò diciassette anni e sono nato sfigato. Sono così sfigato che, invece di andare al mare con gli amici o fare le penne con la vespa per rimorchiare le ragazze, me ne devo stare sdraiato su un letto d'ospedale troppo piccolo per me.
Misuro duecentoundici centimetri d'altezza per 105 kg di peso. Le radiografie del metacarpo dicono che ancora non ho completato lo sviluppo, ma le mie ossa si stanno già deformando.
Sono nato con un adenoma ipofisario e tra due giorni, se tutto va bene, me lo levano, così è la volta buona che smetto di crescere.
Anche se, al momento, non me ne frega niente dell'intervento. La mia priorità, adesso, è riuscire a vedere la partita di domani sera.
Mi tiro un po' su e appoggio la schiena alla spalliera del letto.
Osservo i miei compagni di stanza, nel tentativo di individuare qualche alleato.
Solo che, per la solita sfiga che mi accompagna da quando sono nato, in questo reparto di endocrinologia pediatrica gli altri pazienti sono tutti molto più piccoli di me. Sia d'età che, ovviamente, d'altezza.
Di fianco a me c'è Viola. È diabetica e, se tanto mi dà tanto, diventerà una gran figa. Tra sei o sette anni, però. Adesso gioca ancora con le Barbie e non credo proprio che gliene freghi qualcosa dei Mondiali.
Di fronte ho Biagio, affetto da acondroplasia. Insomma, io sono un gigante e lui è un nano. Bella accoppiata, no? Peccato che abbia solo quattro anni, non posso certo contare su di lui per richiedere un televisore funzionante alla caposala.
Il letto di fianco a quello di Biagio è occupato da una che non so come si chiami. Sta sulla sedia a rotelle, fatica a tenere il capo dritto e non fa altro che sbavare e farsi i bisogni addosso. Le hanno dato il posto più vicino al bagno mica per caso. Sua madre deve occuparsi di lei in continuazione, povera donna.
I genitori, già. Avere tre compagni di stanza significa avere a che fare anche con tre madri ansiose e iperprotettive. Come se non bastasse già la mia.
Purtroppo per me, non possono essermi di nessun aiuto. A loro del calcio non gliene frega un bel niente, hanno ben altro a cui pensare.
Ma un modo per vederla la partita lo devo trovare. Non posso proprio perdermela dopo il clamoroso 2-0 con cui abbiamo silurato i polacchi in semifinale.
“Ti ho portato un altro cambio, nel caso dovessi averne bisogno. Lo metto qui,nell'armadietto insieme agli altri.”
Faccio sì con la testa
“Ti ho lasciato anche un paio di Dylan Dog sul comodino, così passi un po' il tempo.”
“La radio me l'hai portata?”
“La radio? Oddio Cosimo, scusa, mi è passato di mente!”
“No, mamma cazzo! Ti ho telefonato apposta ieri per dirti di portarmela! Cazzo, mi porti la biancheria, che ne avrò già cinque o sei cambi, e lasci a casa la radio?”
“Me ne sono dimenticata, va bene? Scusa! Ma non c'è bisogno che mi tratti così. Cosa credi, che sia facile per me saperti qui in ospedale?”
Magnifico. Ci mancava solo l'attacco di vittimismo.
“E poi scusa, la nostra radio è proprio ridotta male. Non prende quasi nulla lo sai anche tu. Papà voleva buttarla via il mese scorso.”
“Vabbè dai, è andata così. Lascia perdere…”
Do un'occhiata all'orologio.
“Sono le diciotto, l'orario di visita è finito. Forse è meglio che vai.”
“Sì adesso vado. Ti hanno detto a che ora è l'intervento domani?”
Sbuffo.
“Non lo so. Dicono in mattinata, ma magari entro in sala operatoria solo verso mezzogiorno. Lo sai come funziona.”
“Va bene. Comunque domattina alle otto io e papà siamo qui. Vedrai che andrà tutto bene, mi raccomando stai tranquillo.”
No che non sono tranquillo. Tra due ore inizia la partita e ancora non so come fare per vederla. Non me la posso perdere, cazzo!
Solo a pensarci mi sale il nervoso, e quando sono nervoso mi scappa da pisciare. Oltretutto devo ancora smaltire il liquido di contrasto della TAC di tre ore fa. Ce l’ho ancora tutto lì che mi preme sulla vescica.
Saluto mamma con un abbraccio, e vado in bagno.
Tiro giù i pantaloni e comincio a liberarmi. Una tortora osserva l'operazione incuriosita.
Ha fatto il nido su grosso elce che dà proprio di fronte alla finestra del bagno. È un finestrone alto quasi un metro e mezzo, posizionato proprio sopra al WC. Se non fosse per le fronde dell’albero, che coprono tutta la visuale, si potrebbe pisciare godendo di una bella vista panoramica sul giardino dell'ospedale.
E sarebbe anche ora che lo potassero sto cazzo di elce. Un altro po' e ci ritroviamo i rami dentro al bagno.
Certo che avrei proprio voglia di scendere giù in giardino a fare una partita di pallone. Chissà per quanto tempo non potrò farlo, dopo l’operazione. Che palle, in pratica mi farò il resto dell’estate in convalescenza, a letto. E stasera niente finale dei mondiali. A meno che… guardo di nuovo il grosso elce che mi copre la visuale e ho un’idea.
“Porto via?”
“Sì, grazie.”
L’addetta ai pasti passa, puntuale come ogni sera, a ritirare i vassoi vuoti.
Stasera mi hanno lasciato leggero, digiuno preoperatorio. Mi hanno portato solo un po' di brodino di verdura e un pacchetto di crackers con la crescenza. Ma alla fine va bene così, sono talmente in ansia che ho lo stomaco chiuso, anche se mi avessero portato qualcosa di appetibile, e non avrei mangiato quasi nulla. Guardo l'orologio. Le diciannove e quarantacinque. Ci siamo quasi.
Aspetto che l’inserviente abbia ritirato tutti i vassoi degli altri pazienti e sia uscita dalla stanza, poi mi alzo dal letto e raggiungo il bagno. Spalanco il finestrone, prendo un bel respiro e mi isso sul davanzale.
Mi sporgo, riuscendo ad aggrapparmi a uno dei grossi rami che raggiungono il bagno.
Avanzo quasi strisciando, aggrappato saldamente ai rami superiori dell’elce. Prego che riescano a reggere il mio quintale abbondante di peso.
Procedo a rilento, goffo e scoordinato. Un bradipo con problemi di deambulazione, ecco cosa sembro. Non sono mai stato agile e il gigantismo non mi aiuta.
Però, in qualche modo, dopo vari minuti che mi sembrano un’eternità e molta paura di cadere, riesco a scendere dal terzo piano, dove si trova il mio reparto fino al piano di sotto. Che reparto è questo? Non lo so.
Mi siedo a cavalcioni su uno dei due rami principali e cerco di riposarmi un attimo. Mentre riprendo fiato penso al magnifico televisore 55 pollici che mi aspetta giù in cardiologia Sempre che io riesca ad arrivarci. Anche se, a onor del vero, l’ombra dell’elce è molto piacevole, con questo caldo. E poi da quassù c’è una splendida vista. Mi sembra di vedere tutte le cose più piccole e al contempo più chiare. Un po’ di distacco potrebbe farmi bene. A ripensarci, potrei anche restarmene un po’ di tempo qua su. Non ho tutta questa voglia di scendere.
“Un angelo, un angelo! guarda come è bello!”
Un vecchio ultraottantenne col pigiama a scacchi mi guarda stupefatto dalla finestra della sua stanza.
Sono così vicino che posso guardare dentro e… oh porca puttana, questi hanno addirittura il televisore in camera!
“Cosa dici Carrega, ti sei rincoglionito del tutto?” lo apostrofa una voce baritonale, seguita da due colpi di tosse cavernosa.
Sì affaccia un altro vecchio. Più o meno della stessa età del primo, con due occhialini d'oro che gli scendono sul naso.
“E tu chi sei? Cosa ci fai lì?”
“Io…”
“Sarai mica un tedesco? Guarda che io sono uno dei ragazzi del 99 e di tugnini ne ho ammazzati… Da ragazzino sul Piave, e poi da partigiano nel ‘44. Ci metto niente a fare fuori anche te. Anche se sei grande e grosso.”
“No aspetta...” alzo le mani “non sono un tedesco. Sono ligure, lo giuro.”
Il vecchio mi guarda, poco convinto. Meglio non dirgli che mia madre è austriaca. Sia mai che ce l’abbia anche con loro.
Dalla sua stanza posso sentire l'inizio dell'Inno di Mameli. Ormai ci siamo, la partita sta iniziando!
Mi metto la mano destra sul cuore e comincio a cantare. “Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte, siam pronti alla morte l’Italia chiamò!”
“Gesù, sei così stonato che lo cantassi durante un’adunata ti arresterebbero per vilipendio alla bandiera. Com’è che ti chiami?”
“Cosimo. E lei?”
“Giovanni. Giovanni Brughi, detto Gian. E quel vecchio rimbambito là, invece, è l'avvocato Carrega.” mi fa, indicando il suo compagno di stanza.
“Cavalier avvocato, prego!” ribatte l’altro.
“Senti, ragazzo, cos'è che ci fai su quell'albero?” mi chiede Giovanni. Tossisce ancora una volta, faticando poi a riprendere fiato.
“Io… ecco, volevo scendere. Sono ricoverato proprio qua sopra, in endocrinologia pediatrica. Noi abbiamo solo una TV nella sala comune ed è rotta. Non volevo perdermi la partita e ho pensato di uscire dalla finestra del bagno.”
“Volevi scappare?”
“Sì... Cioè non proprio. Volevo scendere giù a cardiologia, ma visto che sono qui… non è che mi farebbe entrare?
Il vecchio mi scruta di nuovo, attraverso i suoi occhalini d'oro.
“Per favore…”
“Dipende. Se ti faccio vedere la partita con noi, tu mi devi qualcosa in cambio.”
“Cosa?”
“Sigarette ne hai?”. Altri due potenti colpi di tosse gli scuotono il torace.
“No. Non fumo, mi dispiace. E forse non dovrebbe farlo neanche lei…”
“Allora niente…”. Il vecchio fa per tornare a coricarsi a letto.
“No, aspetti!”.
Frugo nelle tasche del mio pigiama e ne tiro fuori un pacchettino di caramelle non ancora iniziato.
“Vanno bene queste?”
“A che gusto sono?” Giovanni torna ad affacciarsi alla finestra.
“Menta”.
“Sono quelle con il buco?”
Sorrido.
“Esatto.”
Va bene. Entra.
Avanzo carponi, con cautela, verso l'estremità del ramo che mi sostiene.
Più mi avvicino alla finestra e più si fa sottile. Ma ormai ci sono quasi, mi manca davvero poco...
“Attento!”
Sento il ramo piegarsi sotto il mio peso e poi un crac, secco.
“Mi senti?”
Apro faticosamente le palpebre. Una luce me le fa socchiudere di nuovo.Qualcuno mi sta puntando una pila negli occhi.
“Pupille reattive.”
“Mi senti?”
Ho male dappertutto ma la testa, la testa sembra che mi stia per esplodere da un momento all'altro. Sopra di me vedo solo le fronde dell’elce, sotto le mie mani il prato fresco del giardino dell’ospedale,
“Come ti chiami? Te lo ricordi?”
Un dottore giovane con il pizzetto e un'infermiera mi stanno guardando preoccupati.
“Cosimo… Cosimo Piovasco.”
“Per fortuna è ancora vivo!” sento dire all'infermiera.
Il dottore mi sorride, più disteso.
“I rami dell'albero hanno frenato la caduta.”
“Cosimo, sai dirmi in che anno siamo?”
“1982. 11 luglio.”
“Ottimo.”
“Chiama traumatologia e dì che ci mandino subito una spinale. Paziente vigile e orientato, fratture multiple, sospetto trauma cranico.”
“Dottore…”
“Sì?”
“Sa per caso se c'è la TV in camera, a traumatologia?”