CAPITOLO I
Lo avevano trovato così, appeso a quell’albero al limitare del suo campo, o meglio, di quello che era stato il suo campo.
Vennero da tutto il paese, richiamati dal passaparola e, ora che arrivarono i Carabinieri, una piccola folla curiosa e mormorante si era ritrovata ad osservare la scena.
Il maresciallo lo esaminò con attenzione; la testa penzolava su un lato, gli occhi spalancati. Bretelle consunte sostenevano dei pantaloni diventati troppo larghi; una scarpa giaceva nel prato ai suoi piedi, caduta forse in seguito alle convulsioni prima che la morte lo cogliesse. ‘Contadino scarpe grosse e cervello fino’ pensò; grossa era grossa, la scarpa, ma non gli sembrò il cervello potesse essere molto fino.
L’appuntato gli indicò un uomo, sulla quarantina; la somiglianza era notevole, ma era più in carne e vestito decisamente meglio.
“E’ lei Giacomo Spera?” domandò il maresciallo.
“Si.”
“Andrea è suo fratello?” disse volgendosi verso il cadavere.
“Si.”
“È stato lei a trovarlo?”
“No.”
Immerso in un’atmosfera ovattata ed irreale, Giacomo rispondeva a monosillabi a queste raffica di domande che rimbombavano nella sua testa, guardando il maresciallo con uno sguardo assente. Una voce alle spalle lo venne in suo soccorso.
“L’ho trovato io; passo spesso di qui nella mia passeggiata giornaliera.”
Il maresciallo si voltò; un ometto vestito di nero lo guardava con occhi vispi.
“Don Sergio, don Sergio Ferrari, parroco di Albalunga. Conosco bene i signori; forse posso esserle di aiuto io. Se mi segue in canonica, le racconto la storia.”
“Carmelo, quando avete finito qui passa a prendermi alla chiesa”, e si avviò con il prelato, mentre i pompieri si accingevano a tirar giù il corpo del poveretto sotto lo sguardo vigile dell’appuntato.
“Ci siamo quasi; è la chiesa di Santa Maria Maddalena” attaccò il prete, camminando a una incredibile velocità, considerando quelle corte gambette. “È rappresentata con un serpente in mano, simbolo della sua vittoria sul peccato, ma qui la invocano come protettrice contro gli animali velenosi, molto frequenti in questa zona.”
“Cosa può avere spinto quell’uomo ad un gesto così estremo?” il maresciallo doveva bloccarlo subito. Già gli era capitata questa rogna di sabato pomeriggio; non poteva anche sorbirsi i racconti estemporanei di un prete di campagna che doveva far passare il tempo fino alla messa serale.
“È cominciato tutto quando sono tornati dalla guerra …”
CAPITOLO II
Si accese una sigaretta ed iniziò a passarla nervosamente da un angolo all’altro della bocca.
“Non ho la minima intenzione di prendermi cura di lui come fosse un bambino”; in cucina, Andrea si sfogava con Antonia. “Non dopo tutto quello che ho passato.”
“Lo sai che ha qualche problemino.”
“Problemino? Quello ci marcia solo su! Non iniziare a ragionare come i miei che lo hanno sempre difeso e non gli hanno mai fatto prendere alcuna responsabilità. I suoi problemi sono dovuti al modo in cui è stato educato; ci voleva maggiore disciplina e anche qualche bella punizione in più!”
Era tornato dall’incontro con il notaio irritato ed amareggiato; la casa era stata divisa in due, un piano ciascuno, e questo gli stava bene. Anche il campo, quello che solo lui lavorava, era stato diviso in due; ma la parte buona, con la terra fertile, era stata lasciata a Giacomo, che neanche sapeva come trattare. A lui era toccata la parte vicina all’Oglio, dove il fiume aveva depositato sabbie chiare e scintillanti su uno spesso strato argilloso, rendendone povero il terreno.
“Sono anni che il campo lo lavoro io, spezzandomi la schiena per far rendere un poco anche la parte meno fertile, ed ora mi ritrovo solo con quella. Le poche volte che mi aiuta, si stufa dopo poco, e se ne torna a bighellonare per il paese.”
“Qualche problema ce l’ha, altrimenti non avrebbe a mala pena finito solo la terza media” replicò Antonia. “Almeno tu sei riuscito a prendere il diploma.”
Era vero; era stato così orgoglioso quando i suoi l’avevano iscritto al Regio Istituto Tecnico Agrario Giuseppe Pastori, a Brescia. Due anni dopo vi avevano mandato anche Giacomo ma, neanche passato un trimestre, ne era stato espulso per scarso rendimento e condotta irrequieta. Da allora i genitori avevano perso interesse anche per i suoi risultati scolastici, per non creare frustrazione al fratellino ‘vittima innocente di quell’Istituto che non aveva saputo gestire il comportamento di un ragazzo un po’ esuberante’.
“Alla fine, quello coccolato e protetto era sempre lui, anche se a darsi da fare ero io!”
Sembrava che la rabbia covata in tanti anni venisse a galla tutta d’un colpo; insieme all’invidia.
Guardò Antonia, nella penombra, indaffarata a preparare la cena alla stufa, i capelli raccolti sotto un triste foulard, le ciabatte lise da cui spuntavano grigi calzini di lana; gli sembrò sciatta come non mai. Si erano sposati subito prima che partisse per il fronte, in Egitto, regolarizzando la sua posizione dopo anni di fidanzamento, come conveniva ad un ragazzo timorato di Dio.
E suo fratello invece? Spedito in Jugoslavia se ne era tornato indietro quattro anni dopo con una slava, bionda come il grano, con due gambe che arrivavano fino a lì ed un seno che il vestito faticava contenere; neanche si erano sposati. Ed il padre, rimasto vedovo, non aveva aperto bocca, accettando la situazione e vivendo insieme a loro al pian terreno di quella casa che ora il notaio aveva equamente diviso, secondo la volontà del genitore defunto.
Per colpa di quella donna aveva fatto anche la figura del fesso in paese, e pure con sua moglie.
Non erano passati neanche due mesi da quando Ankica era arrivata; Andrea aveva quasi finito di confessare i soliti peccatucci settimanali, ma ce n’era ancora uno che gli era rimasto nella strozza e si vergognava a parlarne. Alla fine, aveva preso il coraggio a due mani: “… ancora una cosa”, aveva detto al don Sergio.
Il prete si era seduto di nuovo in attesa che sputasse il rospo.
“Ogni volta che esco da casa, non riseco ad evitare di gettare un occhio nella casa di mio fratello, sperando di vedere Ankica. Una volta l’ho colta a cambiarsi, sbirciando tra le persiane socchiuse, nella penombra della camera; don Sergio, sono rimasto lì a godermi lo spettacolo!”
“Non desiderare la donna d’altri; questo ti costerà altre tre Ave Maria. … è la moglie di tuo fratello; facciamo quattro!”
Don Sergio aveva sorriso tra sé e sé; non solo non era la moglie del fratello, ma probabilmente non c’era in paese nessun uomo sotto gli ottanta che non avesse fatto gli stessi pensieri su quel bel pezzo di femmina.
Fatto sta che il suo segreto, confessato con imbarazzo, era diventato in breve di pubblico dominio, oggetto di battute e risate. Era stata Antonia a non prendere la cosa con troppo spirito, e gli era toccato dormire più di una settimana sul divano per purgare anche con lei i suoi pensieri peccaminosi.
CAPITOLO III
“Perché con facciamo scambio? Ti pago la differenza; lo capisco bene che la tua parte rende di più della mia.”
Giacomo lo guardava, ma i suoi occhi lasciavano trasparire un completo disinteresse.
Andrea riattaccò: “Ho valutato che la differenza potrebbe essere 500.000 Lire; che ne dici? Magari facciamo a rate, man mano che vendo i raccolti.”
Lo diceva quasi col magone. Erano tempi duri per tutti, finita la guerra ed iniziato il lento cammino della ricostruzione. Dove li avrebbe trovati quei soldi non lo sapeva, ma voleva provarci.
“E che me ne faccio di 500.000 Lire?”
Giacomo l’avrebbe venduto volentieri il campo, ma suo fratello non c’aveva i soldi, neanche a pagarlo a rate; lo sapeva, lui.
Avesse potuto, l’avrebbe venduto ad altri e ne avrebbe raccattato almeno il triplo e allora sì che avrebbe potuto aprire un emporio, come voleva l’Ankica, magari a Borgo San Giacomo, dove qualche anima in più la si vedeva.
Ma il padre era stato chiaro nel testamento: “Si impossibilita un fratello a vendere la sua porzione di terreno a terze parti finché l’altro fratello è ancora in vita.” Perché il padre lo difendeva, ma non era stupido; temeva che la prima cosa che Giacomo avrebbe fatto sarebbe stata sbarazzarsi di una fonte di reddito sicura e bruciare il ricavato nel giro di qualche anno.
Ma a lui, di fare il contadino non gli andava. Arava, seminava, raccoglieva quel tanto che gli bastava a sbarcare il lunario. Sapeva che avrebbe potuto farlo rendere di più se solo ci avesse dato dentro, ma lui voleva anche godersi la vita. No, non era un mestiere per lui.
Un bell’emporio sì, però. Ci avrebbe lasciato l’Ankica a gestirlo, tanto quelle slave erano abituate a lavorare anche per i loro mariti. Con un vestito un po’ corto e scollato avrebbe attirato clienti meglio delle mosche sul miele; mica era geloso lui, finché la gente si limitava al guardare e non toccare.
Andrea, al contrario, si recava tutte le mattine al suo campo, percorrendo la strada che collegava il paese al fiume. Gli rodeva il fegato dovere attraversare prima il terreno di suo fratello e vedere che continuava a dare raccolti abbondanti, seppur quasi abbandonato a sé stesso.
Allora spesso attraversava il ponte costruito proprio dove in antichità vi era un porto-traghetto che collegava la riva bresciana a quella cremonese. Si sedeva sulla sponda di là e guardava, Albalonga crogiolarsi beata al sole, e guardava il suo campo, affacciarsi alle sponde dell’Oglio; quel corso d’acqua, dispensatore di molteplici opportunità, amico generoso per chi non lesinava fatica e sudore, era stato così avaro con lui!
Addirittura, nei secoli addietro alcuni avevano intravisto nelle sabbie chiare e luccicanti dei suoi greti, minuscoli bagliori che i raggi solari facevano riverberare tra le finissime rene. Non v’era stato dubbio; era oro. La febbre era salita, fino a scatenare una piccola corsa al metallo giallo, presto finita. Ed ora, a due secoli di distanza, nessuno se ne ricordava già più.
E lì gli venne l’idea; era quella giusta, ne era sicuro. Mancava solo la cassa di risonanza che ne divulgasse la notizia.
“Don Sergio, ha presente che il fiume fa quell’ansa, lì vicino al ponte, proprio al mio campo? Tenga la cosa riservata, ma ho trovato una bella quantità di pagliuzze d’oro tra le sabbie che si sono depositate li.”
Ecco il megafono, pensò Andrea; quell’ometto non si teneva per sé quello che la gente gli diceva in confessionale, figurati quello che gli raccontava al bar!
Due giorni prima era andato al ferramenta: “Una lima, per favore.”
“Per legno o per ferro?”
“Per metallo, grazie.”
“Fine?”
“Non troppo!”
Tornato a casa, aveva preso le tre monete d’oro che il nonno gli aveva lasciato e, con un poco di tristezza nel cuore, le aveva ridotte in polvere.
Poi era partito per il suo campo, e lì aveva scelto dove spargere i preziosi granelli, stando attento a non farseli portare via dalle acque.
Aveva studiato anche come fare per recuperarli. Si era fatto arrivare alla libreria di San Giacomo il “Trattato mineralogico” di Giambattista Brocchi, dato alle stampe nel 1807, che riportava in merito questa memoria: “Alcuni contadini di Albalunga, villaggio posto sulle rive dell’Oglio, si erano avvisati ne’ tempi trascorsi di mettere a profitto questa sorta di ricchezza. Il metodo di cui si valevano per separare dalle particelle pietrose i grani d’oro era semplicissimo. Esso consisteva nel fare scorrere il materiale aurifero, stemperato nell’acqua, sopra una tavola inclinata, su cui erano praticati di spazio in ispazio alcuni tagli obbliqui nel senso della sua larghezza. Le pagliette fermavansi in queste scannellature, mentre l’acqua trasportava le parti meno pesanti.”
Così quando quel giorno si avviò come tutte le mattine verso il campo, tenendo sotto braccio gli attrezzi necessari, i compaesani, con discrezione, si voltarono a guardarlo.
Raccoglieva l’acqua dal fiume con un catino e seguiva alla lettera le istruzioni del Brocchi. All’inizio niente; non era facile come sembrava. Temeva in cuor suo di non riuscire nell’impresa e diventare il breve lo zimbello del paese. L’Andrea, fingendo indifferenza, aveva notato che dall’altra parte del fiume, nascosti tra le fronde dei cespugli, molti occhi lo seguivano, di sottecchi, soppesando con attenzione ogni suo movimento.
Pian piano, qualche giorno dopo però, qualcosa apparve, o meglio sarebbe dire, riapparve da quelle sabbie dove le pagliuzze erano state messe ad arte.
CAPITOLO IV
“Perché con facciamo scambio? Ti pago la differenza; lo capisco bene che la tua parte rende di più della mia, ora.”
Andrea lo guardava, lasciando che i suoi occhi trasparissero disinteresse, ma in cuor suo gongolava ed il cuore gli batteva a mille.
“Ci penserò. Sai per ora la ricerca sta fruttando bene, ma non posso assicurarti che duri in futuro”; fingeva anche altruismo, dando lenza per tirare il tonno dove voleva lui. “Mi sento in difficoltà a chiederti anche dei soldi!”
“Andrea, tanto lo sai che non sono contadino io. Se a te va bene, io sono contento così. Ti darò il 10% dell’oro che recupero.”
E rimasero d’accordo così.
Antonia non era d’accordo.
“Hai cercato di tenermi all’oscuro perché avevi la coscienza sporca!”
“All’oscuro? Ma se tutto il paese ne parlava! Ma non vedi come ha lasciato andare in rovina il suo campo! A lui non fa nessuna differenza. Vuole una miniera d’oro? Io gliela do!”
“Ma non è così che aveva deciso tuo padre!”
“Sempre tutti dalla sua parte siete. Meno fa e più gli piovono grazie dal cielo!” Andrea non ne poteva più.
“Se ne va in guerra e ti torna con una donna da far girare la testa ai cadaveri! Si ritrova tra le mani un campo che è veramente una miniera d’oro e non se ne cura! Ed ora, il Signore gli manda anche un figlio, mentre sono anni che noi ci proviamo senza riuscire!”
La fulminò con lo sguardo, convinto che la colpa fosse di lei, così trascurata, così dismessa.
“Comunque, domani siamo dal notaio. Mi riprendo solo ciò che mi è dovuto; la decisione è presa!”
Approfittando del cambio di luna, Andrea sgusciò fuori in silenzio, nell’oscurità più assoluta, e si recò al suo campo.
Vi nascose di nuovo le pagliuzze che aveva recuperato per dare credibilità alla storia ed un po’ di soddisfazione a quell’ingenuo di suo fratello. Non tutte però; una parte la tenne per sé, per ricordo, o forse per avidità.
Mai lo aveva visto lavorare così duramente in tutta la sua vita, ma subito dopo avere preso possesso di quel campo, aveva iniziato a sgobbare sulle rive del fiume dall’alba al tramonto.
Andrea lo guardava; anche lui si doveva dar da fare a lavorare quel terreno per troppo tempo trascurato.
Ma se più Andrea si adoperava più il suo campo diventava produttivo, più passavano le settimane meno oro riusciva a trovare il povero Giacomo, nonostante aumentasse di continuo gli sforzi profusi.
Si era anche comprato una bateia, sperando che il nuovo metodo portasse più frutti; per ore, con i piedi immersi nelle acque, imprimeva a quella scodella larga e poco profonda un ritmico movimento rotatorio nella speranza che le pagliuzze più pesanti restassero sul fondo, visibili e catturabili.
Ma anche con questo sistema i risultati scemarono, finché un giorno, recuperato il recuperabile, Giacomo dovette gettare la spugna; l’entusiasmo scemò e quel campo, già poco fertile, trascurato, andò in stato di abbandono.
VADO AVANTI?