“Padre mi perdoni perché ho peccato”
Consola afferrò don Franco per il cordone della tonaca e lo trascinò letteralmente verso il confessionale.
Maria Consolata, Consola come la chiamavano tutti, non poteva avere nome più appropriato. L’aveva scelto sua madre, Anna, sicura che la bimba l’avrebbe ‘consolata’ della perdita del marito, che la prima ondata della spagnola aveva portato via quando era al quinto mese di gravidanza.
Fu proprio così; Consola riusciva a entrare in sintonia così profondamente con amici e conoscenti che chiunque si sentisse preso da sconforto, ne risultava immediatamente rincuorato. Una parola, una carezza, uno sguardo erano per lei sufficienti.
Anche dopo la morte del marito, Anna aveva continuato a prestare servizio alla fattoria dei Malaspina, omonimi dei marchesi di Pavia, ma con i quali non condividevano alcuna goccia di sangue blu.
Pietro e Carla Malaspina si affezionarono immediatamente a quella bimba, sempre pronta e disponibile a ogni minimo favore, con una delicatezza ed una gentilezza che andavano ben oltre la tenera età.
Così quando il Signore chiamò improvvisamente a sé anche Anna, la piccola Consola rimase a vivere alla fattoria, di fatto adottata da Pietro e Carla, che la crebbero insieme al loro unico figlio, di qualche anno più grande di lei.
Ma mentre genitori e nonni Malaspina nutrivano per Consola un vero affetto, per Marco e gli altri figli dei braccianti era oggetto di indifferenza, quando era fortunata, o più spesso ne diventava la vittima sacrificale per scherzi e dispetti. Rane nascoste tra le lenzuola, uccellini morti nel catino smaltato presso il comodino erano disavventure all’ordine del giorno. Consola non se ne curava né se ne risentiva, ed accettava con rassegnazione la situazione, intuendo come il comportamento di quei ragazzi fosse dovuto a sola infantile stupidità piuttosto che non a vera cattiveria.
Solo quando iniziò a trasformarsi in una signorina, la combriccola di delinquentelli smise di tormentarla, iniziando a guardarla con occhi diversi.
Darò un milione: quella piacevole serata di maggio i Malaspina si volevano concedere un po’ di svago al cinematografo. Vittorio de Sica interpretava un milionario stanco dell'ambiente frivolo dell'alta società, salvato dal suicidio da un vagabondo. Poco importava che bisognasse sorbirsi anche il cinegiornale Luce, che prima della proiezione propinava agli spettatori gli ingenti preparativi dell’apparato militare in vista della grande campagna di Etiopia. Le truppe abissine cercavano di riconquistare Ual Ual e gli altri territori che l'Italia aveva occupato; Mussolini non poteva permetterlo, e l’Italia intera doveva saperlo.
“Signor Malaspina” disse tenendo gli occhi bassi, non si sa se per rispetto o per vergogna, “le porto la cartolina di chiamata alle armi per Marco” e senza aspettare risposta tese il braccio destro, batté sui tacchi e si girò di 180 gradi.
Come a tutti i coetanei, al piccolo Marco, compiuto l’ottavo anno di età, oltre all’istruzione scolastica era stata impartita anche un’istruzione premilitare, sotto la competenza dell'Opera Nazionale Balilla. E anche se appena diciottenne gli era toccato servire la patria per 18 mesi per il servizio di leva, rimasero sorpresi ed atterriti che, rientrato da neanche un anno, fosse subito richiamato per partire con la 5° Divisione fanteria Cosseria, destinazione Eritrea.
Senza chiedere spiegazioni, Consola aveva immediatamente capito che qualcosa non andava: l’aria triste e melanconica che si respirava in casa contrastava in maniera evidente con la splendida giornata di inizio autunno.
Marco non si era visto per tutta la mattina. Consola lo trovò lì, nella sua camera, seduto sul bordo del letto, con la testa tra le mani e grosse lacrime che gli bagnavano le cosce.
“Asmara, ecco dove mi mandano. A combattere una guerra che non mi riguarda neanche da lontano!”
Non le serviva parlare per confortare la gente, non doveva trovare parole speciali o frasi di circostanza; le bastava sedersi in fianco alle persone, tenerne la mano, guardarli negli occhi e chiunque veniva alleviato in breve tempo dal proprio dolore o dal proprio cruccio.
Lo lasciò sfogare: “Ma ci pensi, entrare in un esercito insieme a negri eritrei! Per combattere contro chi? Un negus neghesti... non riesco neanche a ricordare come si chiama”.
Poi alzò la testa e la squadrò; non era più la bimba pelle e ossa che tiranneggiava insieme agli amici ma una giovane donna, l’unica che riuscisse a consolarlo. La guardò negli occhi; occhi profondi di un azzurro così intenso da poter assorbire ogni angoscia e frustrazione.
Vi si perse dentro; vi si abbandonò.
“Suvvia, una ragazza come te cosa può avere commesso di così grave da richiedere urgentemente una confessione?” don Franco sorrise, ben conoscendo l’indole ed il cuore della ragazza.
Consola, non curante lo spinse nel confessionale e gli si inginocchiò davanti, come faceva sempre; non amava nascondersi nell’oscurità, tra la grata e la tendina, ma apriva direttamente il suo animo al don e al Signore con innocente candore.
Gli raccontò della cartolina di chiamata dell’esercito, di come Marco fosse disperato e di come si fosse trovata a consolarlo.
“Mi sono seduta sul letto anch’io… Marco mi si è accovacciato in fianco… rannicchiato come un bambino. Mi ha appoggiato la testa sulle gambe; gli ho messo una mano sul cuore … solo per calmarlo!” La fronte di don Franco iniziò a corrugarsi con qualche segno di preoccupazione.
“Siamo rimasti così a lungo, immobili. Poi ha iniziato ad accarezzarmi le ginocchia… le gambe… sotto la gonna, e a salire, salire… salire, fino alle cosce!”
“Dimmi che l’hai fermato!” esclamò don Franco, mettendo immediatamente la mano sulla sua bocca quasi ad evitare che il suo grido rimbombasse nella chiesa.
“Padre, come facevo? Non sapevo che fare! Si stava finalmente calmando… come un bimbo attaccato alla mamma” replicò Consola sempre più agitata.
“Piccola mia, i figli e le mamme non fanno queste cose. Vi siete fermati lì, vero?” domandò, ma un filo di terrore traspariva dai suoi occhi.
“Non potevo padre! È colpa mia? Si, forse… l’ho lasciato fare, non l’ho fermato! Ci siamo sdraiati, in silenzio, uno accanto all’altro. Si è voltato verso di me … le lacrime ancora gli rigavano il viso. Non trovavo le parole giuste, e lui, lo sentivo, provava un dolore immenso… e ne aveva ragione! Non cercava parole… cercava il mio amore… ed io gliel’ho dato!”
Don Franco non riuscì ad adirarsi, di fronte a tanto candore: “Stai diventando signorina e non devi permettere che nessuno si approfitti della tua innocenza, della tua semplicità, della tua bontà. Consolare il prossimo per te è quasi una missione; è una buona cosa, con le parole, con l’affetto, ma con il corpo no! Non deve diventare uno strumento nelle mani del demonio. Fanne tesoro.
Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti.
Dieci Ave Maria e dieci Pater Noster… e speriamo che siano sufficienti”.
Ultima modifica di FedericoChiesa il Sab Mag 22, 2021 10:43 pm - modificato 3 volte. (Motivazione : Utili commenti ricevuti)