CAPITOLO IV
Il sole era già alto nel cielo quando Maria Consolata raggiunse padre Franco. Lo inseguiva per spiegargli l’accaduto ma questi non voleva sentire ragioni e cercava di scappare per ogni angolo della chiesa.
Si avvicinò al campanile, salendo gli stretti gradini a chioccola a due a due. Ma Consola non mollava rimanendo appiccicata alla tonaca. Il povero prete aveva sbagliato mossa, infilandosi in un cul de sac, ed alla fine si trovò immobilizzato, con le campane alle spalle e la ragazza in fronte, che gli ostruiva l’unica via di fuga.
“Padre, mi deve ascoltare! Non posso stare con questo peso sulla coscienza!”
Il parroco cercò riprendere fiato dopo lo sforzo della salita; grosse gocce di sudore gli colavano dalla fronte. Riprese un po’ di contegno e disse: “Ragazza mia, ho ascoltato di come hai consolato Marco, senza dare troppo peso al tuo peccato; cose di ragazzi ho pensato. Ho dovuto accettare che anche con il signor Malaspina avessi esercitato le tue arti consolatorie; non ho voluto fare piazzate, anche se ne avrei avuto il diritto. Mi sono rassegnato ad ascoltare come ti sei presa cura anche del vecchio, ma non sono più disposto ad ascoltare altri peccati di questo tipo”.
Tutto era iniziato proprio quel mattino. Il postino era arrivato poco prima del solito.
Il signor Malaspina era già nei campi. In quelle giornate calde ed afose di inizio luglio il lavoro iniziava all’alba e riprendeva solo qualche ora prima del tramonto... troppo caldo nel mezzo.
L’aveva presa lei la lettera, indirizzata alla famiglia Malaspina. La calligrafia aveva qualche qualcosa di famigliare ed allo stesso tempo la busta con la dicitura Corrispondenza del R. Esercito ed il bollo della Posta Militare le trasmetteva un triste presagio.
Non poteva essere però… non doveva essere però. Oramai si attendeva che gran parte delle truppe facessero rientro dall’Africa Orientale e Marco non poteva non essere tra queste. Erano già passati un paio di mesi da quando era stata comunicata la fine della guerra in Etiopia. Le sirene avevano chiamato in adunata la popolazione in tutto il paese e dal balcone di Palazzo Venezia Mussolini in persona ne aveva dato l'annuncio alla folla.
“Signora, una lettera! Penso sia da Marco” poi rimase in attesa fuori della porta della camera.
La signora Carla, svestita, in piedi dentro un grosso catino in legno, si passava un panno umido sul corpo, per raffrescarlo in vista della lunga torrida giornata.
“Entra… che aspetti!” e strappando la busta delle mani della ragazza, sentì il cuore arrivarle alla gola.
Addis Abeba, 12 giugno 1936
Carissimi genitori,
spero la mia lettera vi trovi in buona salute.
La guerra è spietata e a volte si allea con il destino per giocare scherzi inaspettati.
Ho passato indenne le conquiste di Axum, di Macallè e di altre città che mai prima avevo sentito nominare.
Dopo aver liquidato anche l'ultima armata etiopica, a fine aprile abbiamo iniziato l'avanzata a tappe forzate su Addis Abeba, in quella che i nostri comandanti hanno chiamato "marcia della ferrea volontà".
La capitale è caduta senza opporre resistenza. I festeggiamenti ci avevano riconciliato con la vita. Contavamo i pochi giorni che ci separavano dal rientro a casa. Solo qualche missione di pattugliamento per le strade attorno alla capitale, per tenerle libere dagli arbegnuoc, i partigiani etiopici, che stavano cercando ancora di opporsi alle nostre conquiste.
È stato lì che un attentato ci ha sorpresi, dirottando il mezzo sul quale viaggiavamo su una strada laterale dove una mina ci aspettava.
Marco l’aveva presa alla larga, per prepararli alla tragica notizia, ma man mano che sua madre leggeva quella lettera, realizzava che qualcosa di grave era successo.
Vi scrivo ora dall’ospedale militare di Addis Abeba. Sono in via di guarigione e posso ritenermi fortunato, anche se hanno dovuto amputarmi le gambe maciullate dall’esplosione. Due miei camerati sono morti sul colpo e altrettanti stanno ancora lottando tra la morte e la vita!
Appena le condizioni lo consentiranno, mi imbarcheranno per riportarmi tra le vostre braccia.
Con immenso affetto
Marco
Maria Consolata fu lesta ad a darle il braccio in appoggio, prima che le gambe della donna cedessero.
La accompagnò al bordo del letto, mettendole un telo di lino sulle spalle.
“Il mio ragazzo!” singhiozzò “Gli hanno rubato la gioventù. Quale ragazza lo vorrà ora per marito!”
“Signora Carla, dobbiamo ringraziare il Signore che Marco torni. Ha letto anche lei che ad altri è andata molto peggio!”
Ma la mamma, in preda allo sconforto più cupo, non riusciva a sentire ragioni e vedeva sfumare il suo sogno di nipotini che scorrazzavano per l’aia sotto il suo vigile sguardo.
“E poi, signora, una brava ragazza non si ferma certo di fronte a questo!”
“Mi immagino la sua umiliazione, alla festa del patrono, quando tutte le ragazze si mettono in ghingheri aspettando di essere invitate a ballare… e lui dovrà stare lì, seduto, in disparte, ad osservare i coetanei flirtare” e si buttò supina in lacrime sulle lenzuola ancora sfatte.
Si vergognava di non riuscire a gioire della grazia ricevuta di potere riabbracciare il figlio vivo, ma il dolore di quello di che le era stato portato via era troppo forte.
“Padre Franco, capisca il dolore di quella donna! Quando il peggio sembrava alle spalle… e attendeva solo con gioia il ritorno del figlio questa notizia l’ha sconvolta”
“E tu cosa hai fatto? No… non dirmelo!”
“Padre, c’ero solo io a rincuorarla! Tremava come una foglia… aveva la pelle d’oca! Ho iniziato ad accarezzarla. Il calore delle mie mani le trasmetteva calma in tutto il corpo. Mi è sembrata più serena… poi ha accompagnato le mie mani proprio là, ed io mi sono stretta a lei!”
“Non mi dire più niente! Io non posso assolverti anche da questo”. Il parroco era rosso, tremante di rabbia e di angoscia. Consola ne rimase spaventata. E se gli fosse venuto un colpo? Non se lo sarebbe perdonata!
“Padre, si calmi, non dica queste cose!” e, singhiozzante si inginocchiò, bloccando il parroco per le ginocchia.
Ma il prelato proseguì, sempre più adirato, con la voce rotta: “Chi sei tu? Un angelo mandato dal Signore… od un diavolo tentatore inviato dal Satana in persona?”
Fece per indietreggiare, quasi intimorito dalla ragazza, che non riusciva più a giudicare, a catalogare. Fu allora che Consola, stringendosi alle gambe di lui, sentì un gonfiore sotto la tonaca, perché alla fine il prete è prete... ma l’uomo è uomo.
Lasciò che le sue mani si insinuasse sotto quell’abito nero ed alla fine lo consolò.
- Consola:
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