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Capitolo 1
Spero che ti impicchino a un albero bello alto. E che ti sputino addosso mentre soffochi.
Qualunque cosa abbiano usato come bavaglio sa di sudore. Mordo e stringo i denti di continuo, tra un respiro pieno e l’altro, per sopprimere la nausea; guardo intorno, appoggio la testa contro il muro crepato alle mie spalle, cambio posizione, bestemmio dietro un accenno di crisi isterica, espiro con addosso la più cupa voglia di piangere.
La mia routine, da un’ora a questa parte.
Ci hanno divise, noi quattro qui, le altre chissà dove. Siamo in un buco, qualcosa di buio e umido; sembrano i resti di un bunker, forse costruiti durante la guerra, oppure è solo una caverna molto geometrica.
La poca luce filtra dal tunnel d’ingresso, ma è luce malata, pallida.
I polsi fanno male. Cerco di non pensare che la fascetta di plastica li sta incidendo poco alla volta.
Una fascetta ve la stringerò alla lingua prima di spararvi in bocca.
Siamo in quattro, sedute nella penombra, poggiate contro una parete di pietra; sono l’ultima della fila, a sinistra; di fianco a me c’è la suora, la ex suora: se ne sta seduta raccolta, con le mani assicurate dietro la schiena da un’identica fascetta e i piedi legati con corda da lavoro. Non protesta, non si agita, se ne sta lì a muovere le labbra dietro il bavaglio e guardare di continuo in alto. Prega. Son sicura che prega, la bastarda, prega Dio ma non riesco a decidere se per colpire i nostri nemici o salvarsi il culo.
La odio. La detesto.
Doverle stare seduta vicina, attaccata, mi irrita. Mi urta tutto di lei, dalla faccia levigata e candida, ai capelli foltissimi e tagliati a caschetto, tinti di un pacchiano bianco argenteo, al modo in cui è vestita; odio la sua giacchetta lunga e nera, i calzoni attillati neri, gli stivali altissimi, neri e con una serie infinita di lacci. Stivali piccoli. Deve averci dentro dei piedi da principessa. Piedi che farebbero impazzire la parte feticista di internet.
La detesto.
E detesto i feticisti.
Spero che la fascetta le stia segando i polsi e che si dissangui.
Dopo di lei sta Candy-Kane. Non ricordo il nome vero, solo che assomiglia a quell’attrice con la bocca larga, capelli biondi inclusi; per imbavagliarla, Candy-Kane, devono averle ficcato dentro il doppio della stoffa per riempire lo spazio tra le mascelle.
La odio. È vestita da pallavolista o qualcosa del genere. Puoi avere trent’anni e andare in guerra vestita come andresti a lezione di ginnastica al liceo? Non stava zitta un secondo, nella giungla: adesso è zitta, respira pesante e fissa avanti con occhi sbarrati. Spero che la fascetta seghi i polsi anche a lei.
Al fondo c’è Rita.
Rita è la donna più matura di noi, va per i quaranta. È atletica e carnosa, carnosa come lo sono quelle donne dal fisico carnoso, che ispirano sesso violento anche in tuta da casa. Ha capelli scuri e mossi, un volto ampio ma delicato, gli occhi sottili. Dev’essere stata una cacciatrice, dall’abbigliamento, o un’appassionata di safari. Penso sia quella tra noi che ha meno paura di crepare, perché deve aver fatto la sua vita, essersi tolta delle soddisfazioni. Legata come noi, imbavagliata come noi, sembra avere tutto il contegno del mondo. Le auguro una morte veloce.
Le telecamere ci stanno guardando? Ci vedono ammucchiate in questo buco maleodorante? L’Ondata 9 non doveva spaccare il mondo? Siamo questo: quattro stronze in balia delle veterane di Illumina, quattro dementi disarmate e sottomesse dopo neanche due ore di permanenza sull’arcipelago.
Iraq, Afghanistan, Cirenaica, ora pezzo di carne legato in un bunker putrido.
Mi odio.
Mi detesto. Vorrei spararmi in bocca per la vergogna e spero che la fascetta mi seghi i polsi.
Si vede poco e male, ma non siamo sole.
Una di loro, una di quelle Erinni temprate da Illumina, sta seduta contro la parete opposta del piccolo locale, una parete mezza divelta, erosa, piena di buchi. Sta seduta col fucile in grembo e guarda di continuo fuori, al corridoio d’entrata, come se aspettasse qualcosa. Non è l’unica: ce ne saranno altre là intorno, nascoste qua e là nell’antro.
Le ho guardate bene, quelle troie. Hanno le loro uniformi da fatica oliva, corpetti protettivi beige, le facce dipinte con strisce di pittura nera, indossano ogni tipo di orpello; una, quella che dà gli ordini, ha persino una collana d’orecchie tagliate, orecchie prese ad altre povere bastarde che sono scese quaggiù pensando di spaccare il mondo. Spero fossero già morte quando gliele ha strappate, o che fossero ancora vive se questo ha migliorato l’audience del network.
Prego non si prenda anche le mie.
Poi c’è l’odore.
Non so cos’abbia questo posto ma è ammorbato da un tanfo di morte allucinante. Sembra esalare dalle pareti, venir su dal terreno e diffondersi come una malattia, una cortina, un lenzuolo di putredine. Assale le narici a ondate, va e viene seguendo il corso dell’aria, s’insinua fin dentro il bavaglio rendendo il gusto del sudore, a confronto, eau de toilette.
Poi ci sono le mosche.
Ronzano e stridono, apparendo e sparendo dalla vista, divise tra qualsiasi cosa stia putrefacendo lì intorno e le nostre figure rannicchiate, sudate, tremanti di vergogna. Si infilano tra i vestiti, si appoggiano ovunque trovino della pelle esposta, e noi sobbalziamo, ci contorciamo, emettiamo ridicoli versi di fastidio. Persino la suora, di tanto in tanto, cessa di pregare e squittisce sdegnata.
Vi ci farò strozzare, con le mosche, se mai mi libererò da qui.
La bastarda che ci fa da sorvegliante non si scompone di fronte a nulla. Non sembra curarsi dell’odore né degli insetti. Sta lì, a fissare il passaggio d’ingresso aspettando qualcosa che ignoriamo.
È un’attesa snervante.
Un supplizio.
Attendiamo qualcosa senza sapere quando arriverà. Moriremo, questo lo sappiamo, e ci toccherà farlo in maniera cruenta, per la gloria della diretta. E la fascetta sega i polsi, il bavaglio sa di sudore, le mosche, il fetore di decomposizione. Il cuore mi sbatte nel petto viaggiando per accelerazioni, alternando principi di panico a cupa rassegnazione.
Quando la sorvegliante si alza in piedi perdiamo tutte e quattro un respiro. Si avvicina di fretta, col coltellaccio nella mano: ce lo fa scorrere sotto la punta del naso con due occhi da pazza, sorride. “Ora silenzio, puttane, non un suono o lui vi trova”.
Lui.
Fa strano sentirlo dire: non ci sono lui in Illumina, nessun uomo, di nessun tipo, neppure cartonato. Ci sono solo donne in questo posto maledetto, perché Illumina è il paradiso e in paradiso ci sono solo donne; Illumina è l’inferno, e all’inferno ci sono solo donne.
Non è un uomo quello che sta arrivando, lo so, lo sappiamo.
La guardiana torna ad acquattarsi contro il muro di fronte e lì rimane, chinata, il fucile tra le mani.
Potessi tagliarti la gola con una forchetta di plastica.
La cosa che entra dall’ingresso del bunker ha un passo pesante e un’ombra che s’allunga a dismisura; l’aria gela nello spazio d’un battito di cuore.
Ci guardiamo, in quattro, con gli occhi che si riempiono di terrore a prescindere da quanto c’imponiamo di restare razionali.
Lo abbiamo già visto nelle foto, nei video, sappiamo persino il suo nome, brutto più di lui.
Quando un mostro lo vedi di lontano, dietro uno schermo, ti sembra che un fucile basti e avanzi; quando lo incontri e quel fucile non ce l’hai, la prima cosa che senti è la vescica che s’allarga. È come un crampo alla base del ventre, una richiesta istintiva che il corpo invia come dispaccio urgente, un retaggio ancestrale di quando gli uomini e le donne da cose del genere dovevano correre veloce.
La faccia di Rita è diventata pallida, quella di Candy una maschera di cartapesta. La suora non la guardo, non voglio scoprire che è figa anche con l’angoscia stampata addosso.
Entra dal tunnel principale e si avvicina.
Sembra un film, una scena studiata, con la silhouette della cosa che oscura grado a grado le fenditure della parete. È enorme, oscuro, copre la luce dell’ingresso allo stesso modo di nubi da grandine sul sole. So com’è fatto, l’ho visto nelle foto, nei video, è solo uno degli orrori che abitano Illumina e neppure il più grosso, ma non c’è preparazione che tenga quando te lo ritrovi davanti.
Le ginocchia prendono a ballare con un ritmo che non ho scelto, il respiro si fa affannoso; iniziano tutte quelle reazioni del corpo di fronte alla paura della morte violenta.
La suora mi guarda con due occhioni nocciola sgranati: come temevo è bella persino nell’orrore.
Prega Dio e lasciami perdere, lasciami perdere.
Lui, la bestia, si è fermato. Non lo vediamo se non per frammenti, frazioni di corpo che la parete in buona parte crollata lascia scoperte. Annusa l’aria, controlla qualcosa sul terreno e lo fa con una lentezza studiata, snervante, come sapesse che la paura ci sta divorando, facendo perdere la ragione.
Si può aver paura di un altro essere umano: l’ho avuta di mio padre, del mio insegnante di scienze al liceo, del fidanzato di mia cugina quand’ero piccola; altri ne hanno avuta di me. Non sono mai stata una brava ragazza. Si può e si deve aver paura di una cosa come quella che ingombra l’entrata del bunker.
Poi il verso.
Caccia un lamento stridulo mentre annusa intorno e ciondola come in un incubo; mostralo a chiunque e ti dirà che una cosa del genere ruggisce, deve ruggire, come nei film, deve sbraitare e tuonare.
No. Per niente. Affatto. No. Questo aborto di bestia carnivora si lamenta.
Dalle fauci aperte gli striscia fuori un verso così acuto, così spettrale, da fermarti il cuore per un momento e i polmoni per due. È un suono impossibile, qualcosa che assomiglia alla somma del cigolare di certe porte d’ospedale e il canto lugubre d’un uccello notturno, modulato in tre o quattro livelli d’intensità con una vibrazione gutturale di fondo. Un suono che filtra tra le fessure della roccia e accarezza la pelle con la leggerezza d’un rasoio.
La vescica s’allarga di più, vorrei poter pisciare, qui, ora. Trattengo a forza con ogni muscolo che ancora risponde.
Passano secondi interminabili nei quali non succede nulla, dove persino le mosche sembrano scomparse e l’odore di marcio è stato rimpiazzato da uno più freddo, più greve, che emana la sua pelle traslucida.
Poi si volta.
Cambia posizione dentro il tunnel, per un attimo balena, tra le fenditure, un muso da incubo e un singolo occhio tondo e lucido; prego che non veda bene nell’oscurità.
Tratteniamo il fiato. La guardia alza un indice e lo pone sul naso per dirci, beffarda, di fare silenzio, di non rovinare la festa; per un attimo, uno solo, mi attraversa l’idea di gridare, alzarmi all’impiedi, attirare la bestia dentro la stanza, farci fare a pezzi solo per non dare a quelle troie da guerra la soddisfazione d’ucciderci davanti a tutto il mondo.
Quando stai per morire le pensi, queste cose, ma hai il coraggio di farle solo se sei sicura che morirai davvero. Se il tuo cervello culla, anche solo alla lontana, la speranza di salvarti, non ce la fai.
Io non ce la faccio. Non c’è niente e nessuno che può salvarci, pure la mente mi vaga tra casa, l’urgenza di pisciare e mia madre che prepara l’infuso di girasole.
Controllo il respiro e attendo, attendo con l’anima che ripete in loop Se ne andrà, non sa che ci siamo, il tanfo di morte copre il nostro odore.
Come in risposta, qualcosa, una grossa mano, s’incunea in un varco della parete.
La suora mi si stringe addosso o forse sono io ad esserle andata contro, ci compattiamo inorridite mentre a qualcuna sfugge un gemito di paura che il bavaglio attutisce solo in parte, piedi legati raspano sul suolo in un moto di panico, corpi fremono e si contraggono nel tentativo di mettere quanti più centimetri possibile tra noi e la cosa.
Sono tre escrescenze lucide che nella penombra quasi totale tardiamo a riconoscere come un trio di artigli ricurvi, tre lame che grattano il cemento, tamburellano in un gesto fin troppo umano, poi si ritraggono fuori dalla spaccatura.
Il suono dei nostri respiri affannosi e lo sbattere violento del cuore sullo sterno sono così forti che pare assurdo lui non ci senta.
Se ne andrà, non sa che ci siamo, il tanfo di morte copre il nostro odore.
Un altro lamento prolungato, cadenzato, che tocca i nervi più delle unghie sulla lavagna, poi la bestia si ritrae e s’avvia fuori dal condotto, il suono pesante dei passi echeggiato dalla volta.
Gli occhi mi si chiudono in un moto di sollievo, le spalle si rilassano. Respiriamo l’una addosso all’altra e qualche occhio ha finito per inumidirsi.
Non si piange in rete, davanti a tutti, come bambine.
Passano svariati minuti nei quali la luce naturale torna a illuminare il condotto, le mosche a ronzare, la puzza di morto a urtare i sensi, il gusto di sudore a prendere il palato. Va bene così. Perfetto così.
La guardia si alza, se ha avuto paura impossibile dirlo, ci raggiunge col coltellaccio sguainato.
“Brave, puttane ubbidienti. Tanto vi diamo a lui, dopo,” sorride folle, “Un pezzo alla volta.” Ci slega i piedi e fa alzare con uno strattone.
Le auguro di diventare concime per Illumina, mentre la mente continua a vagarmi tra casa, mia madre che prepara l’infuso di girasole e l’immagine dei miei resti digeriti e sepolti tra la merda.
Altre guerriere affluiscono dal resto del bunker, cariche d’adrenalina: sappiamo che qui era solo una tappa verso qualsiasi posto sarà la nostra forca.
L’ultimo viaggio sta per iniziare.
Un vecchio film di guerra diceva così.
L’orrore.
***
Gioele Palazzese guardava fuori dalla finestra, con l’acqua che scendeva in rivoli sulla vetrata, correndo lungo l’infisso malconcio e sul davanzale.
Teneva il basco francese di traverso sul capo e la giacca scura, slargata, aperta su una maglietta di cotone ricamato; sulle lenti tonde degli occhiali si muovevano le figure delle automobili, giù nel corso, le sagome dei caseggiati e il grigiore del cielo pomeridiano. La tazza, decorata con un motivo a foglia di marijuana, gli era rimasta in pugno a metà altezza, tra petto e mento barbato.
Gli occhi, piccoli, stavano fissi sul nulla grigio e oppressivo del centro, pur seguendo di tanto in tanto questo o quel dettaglio che, molti metri più in basso, in strada, attirava per un attimo la sua attenzione.
I passi nervosi, decisi, di Max che entrava nel suo ufficio non lo distrassero dallo stato catatonico nel quale si era volontariamente confinato.
Sentì rumore di carta sbattuta sulla scrivania, frusciare di fogli, tendere di camicia a fiori, mani che si pongono sui fianchi. Intuì che lui stesse aspettando d’essere guardato e non volle dargli questa soddisfazione.
“Finite,” scandì Max dopo aver atteso quindici secondi buoni, “Perse. Tritate. Bum.” Pausa grave. “Fottute.”
Gioele non cambiò espressione né postura. “Tutta l’Ondata?”
“Tutta l’Ondata 9, sì. Dieci stronze, saranno durate due ore.”
“Peccato.”
Pausa.
Max prese un respiro, fece per dire qualcosa, ci ripensò, non disse nulla. Prese di nuovo un respiro e schiarì la voce. “Giò,” stringere di pugni contro i fianchi, “Abbiamo speso parecchio per addestrare quelle cretine. Le abbiamo scelte tra le candidate più promettenti perché dessero battaglia, ravvivassero un po’ lo spettacolo.”
“C’era la suora nell’Ondata 9, sì?”
“Sì.”
Sospiro.
“Giò.”
“Sono qui.”
“Dobbiamo prendere in considerazione l’idea che le Erinni siano diventate un problema per il buon funzionamento del reality. Quelle streghe bacate stanno togliendo ogni tipo di sfida alla competizione. Noi mandiamo giù un’Ondata e bam, loro la distruggono in una giornata. Si sono perfettamente,” schiarì la voce, “Adattate all’arcipelago.”
Gioele continuava a guardare dalla finestra.
“Sono scaltre, preparate. Hanno imparato a sopravvivere, capisci? Si sono organizzate. Hanno fatto quello che nessun altro gruppo è riuscito a fare: hanno trovato la quadra del sistema Illumina. Le povere idiote che mandiamo allo sbaraglio non hanno speranze di competere con quelle là, capisci? Non ce la possono fare. Finiscono tritate prima che anche solo realizzino in che posto sono capitate.”
“C’era la soldatessa nell’Ondata 9, sì?”
“Sì.”
Schioccare di labbra. “Tritata anche lei?”
“Tritata. Iraq e Afghanistan ‘sto cazzo: cosa serve l’esperienza in teatri di guerra quando ti sbattono in un posto di merda come quelle isole? Come fai a non uscire pazza con quello che c’è laggiù?”
Di nuovo, Gioele rimase a fissare la pioggia, le auto, il brulicare di vita cittadina e la danza degli ombrelli. “Sono morte?” scandì atono.
“Non ancora, no, anche se di alcune non sono sicuro. Non li leggi i report? Quelle merde di Erinni hanno smesso di trucidare a vista le nuove arrivate; adesso le prendono vive, le torturano, poi le fanno mangiare alle bestie. Stanno superando ogni immaginazione, capisci? Hanno adescato un Onyx, poche ore fa, molto da vicino. Lo fanno per terrorizzarle, per far cagare sotto anche il pubblico. Sono scaltre, le merde, scaltre.”
Gioele Palazzese questa volta si girò, senza fretta, compassato, la tazza portata alle labbra per un sorso svogliato di qualsiasi cosa ci avesse versato dentro; scrutò Max Tambori in quella sua improvvisata posa mussoliniana che, di fronte al suo piglio indifferente, perse svariati gradi di sicurezza. La sua figura piena, dai capelli scuri arricciati e i baffetti sottili, accennati, avvolta in una camicia hawaiana giallo limone e blu elettrico, ingombrava buona parte del campo visivo.
“La cosa ti preoccupa?”
“Sì, cazzo, sì. Nell’Ondata 9 c’erano la suora, la soldatessa, c’è la tiratrice scelta. La galeotta. Le avevamo selezionate, capisci? Preso il meglio, addestrate con cura, dovevano dare battaglia alle Erinni, metterle in difficoltà; invece finiranno trucidate entro un paio di giorni. Avevamo promesso al pubblico i fuochi d’artificio, le sfidanti eccelse, invece queste stronze sono già al tappeto. Se mandiamo un’altra Ondata, tra cinque giorni, finirà anche peggio. Il pubblico si stufa se vincono sempre le stesse. Servono novità, Giò, serve scalzare quelle dannate Erinni.”
Gioele increspò le labbra, lisciò il mento dove la barbetta scura cangiava in punta in un colore ramato. “Cosa suggerisci?”
“Troviamo il modo di abbatterle, almeno la maggior parte. Di rimuoverle. Mandiamo dei killer, killer uomini intendo, mercenari, ex forze speciali, qualcosa del genere: gente capace di uccidere quelle bastarde e ridare equilibrio all’arcipelago. Introduciamo una variante: uomini sull’isola, uomini contro donne, nessun dubbio su chi la vince, no? Mi sono preso la libertà di avviare un contatto con un’organizzazione paramilitare che…”
La mano ossuta di Gioele si alzò e tamburellò le dita come su un vetro immaginario, in viso una sottile smorfia di disgusto che Max aveva imparato a riconoscere. “Ho sentito bene? Uomini nell’arcipelago?”
“A fin di bene, Giò, per smuovere le acque, dare una novità, capisci? Pensa al marketing!”
“Uomini in Illumina?” Scosse un indice, febbrile, gli occhi socchiusi. “Certe cose non voglio neanche sentirle.”
“A fin di bene…”
“Solo,” la voce gli tremò per un attimo, “Solo donne in Illumina. Nient’altro.”
Max espirò, attonito. “Lo spettacolo, Giò.”
“Abbiamo dato al mondo uno show senza precedenti. Ed è il mio show. Ci voglio solo le mie guerriere, le mie bellissime, violente guerriere. Lo spettacolo è meraviglioso così com’è.”
Lui scosse la testa, avvilito, raccolse i fogli con gli estratti delle registrazioni audio. “Se la gente si stanca il network chiude. Siamo partiti con l’idea di portare la morte in presa diretta, senza filtri, ma stiamo andando oltre. Qui non è più vivere o morire, sta diventando un gioco malato.” Pausa grave. “Se quelle stronze sanguinarie continueranno a trucidare le nuove arrivate perderemo consensi, la gente si stuferà o sarà nauseata da tutta quella violenza: quel giorno sarà la nostra fine.”
Gioele Palazzese riempì i polmoni, ispirato, appoggiando la tazza sulla scrivania ingombra di statuine, di targhette commemorative. “Superpredatori non è solo la morte in diretta. Superpredatori è qualcosa di più: vedo che a distanza di tempo sono l’unico ad averlo ancora presente.”
“È una costruzione delicata, forse troppo. Abbiamo sbancato, Giò, fatto una montagna di soldi, ma se lo show si arena, tutto finisce: che per te sia qualcosa d’altro o meno.”
Lui si voltò, tornò alla finestra, alla pioggia, al silenzio ticchettante della città dietro il vetro, alle insegne al neon, le auto. La danza degli ombrelli.
“Niente uomini in Illumina. Per nessun motivo.”
Max assentì, tetro, prima di lasciare l’ufficio.
***