***
La morte di Rita è impressa dietro le palpebre; se le chiudo rivedo tutto, e certi fotogrammi restano lì anche a occhi aperti. Di nuovo, non ho la forza di dire alcunché, solo di guardare la suora, la ragazza, negli occhi e sperare faccia lei qualcosa.
Contro pronostico lei prende un respiro, il respiro di chi sta per dire qualcosa d’importante. “Io…” mormora con il labbro che trema, “Io voglio andare per ultima.”
Ha gli occhi gonfi di lacrime e il viso ancora più pallido del consueto. La morte di Rita deve averla sconvolta, aver distrutto quella calma rassegnata, stoica, che l’aveva accompagnata per tutte quelle ore. Non so cosa credesse, che fosse tutto una finta, un gioco, che si sarebbe risolto con uno spavento e nulla più: le sue certezze sono crollate di colpo e i nervi le hanno ceduto di schianto. Singhiozza, come una bambina, dopotutto lo è: non sarà maggiorenne da molto, il mondo l’ha già vista nuda e umiliata e tra poco la vedrà masticata da un dinosauro.
Troppo, troppo anche per chi ha il conforto d’una croce tra le poppe.
“Voglio andare per ultima, vi prego,” mormora con la voce rotta dal pianto.
Atreja sorride, si china a carezzarle il viso come una madre comprensiva, poi si volta a guardarmi, uno sguardo penetrante, freddo, che scava fino all’anima e raschia con artigli simili a quelli del mostro. “Che ne dici, cara? Lo esaudiamo l’ultimo desiderio di questa bella gattina? Sei tu la prossima?”
Cosa vuoi dire a una richiesta del genere?
No, non vado? Voglio vederla morire perché mi stanno sul cazzo lei, il suo Dio, il suo corpo da principessa e i suoi piedini erotici?
Dico di no a una ragazzina in lacrime, distrutta, che tra un quarto d’ora al massimo mi seguirà nello stomaco dell’aberrazione, almeno nei suoi pezzi principali?
Gliel’avevo promesso, lo so, che l’avrei guardata crepare, che avrei chiesto esplicita cortesia: ma lì, di fronte a quel relitto di religiosa, per quanto io sia stronza e stronza davvero, non ne ho il cuore.
Così annuisco, strizzando gli occhi per reggere la fitta al petto che per un attimo mi ottunde come un’apnea, un incubo sotto il pelo dell’acqua.
Annuisco, sono io la prossima.
“Brava, tesoro” la mano di Atreja regala una carezza anche a me, decisa, sicura, “Brava.”
Vorrei piangere, e un singhiozzo mi sfugge anche, prima di riuscire a reprimere il resto tra le labbra serrate. Sono la prossima.
Sto per morire.
In quel modo, quel modo lì.
Un lamento della bestia sembra invocare nuova carne.
Forse è un essere intelligente, forse comunica, forse ha dei desideri, delle pulsioni. Forse ama, odia, odia l’attesa, ama la carne delle giovani fiche come noi: devono averlo abituato bene, più che bene.
La suora viene fatta rimettere in ginocchio, con le mani dietro la testa: continua a piangere sommessamente. Il telefono riprende con grande attenzione per il gusto della platea oltremare.
“Mettiti giù.”
La voce di Atreja è di nuovo quella d’una comandante incallita. Manco un altro respiro. “Ti prego,” mormoro senza voce, “Ti prego, l’orecchio no…”
Lei ha solo un battito di palpebre. “Mettiti giù.”
Ha un tono, un timbro, che rende impossibile disobbedire; la sua voce è come una catena, un vincolo d’acciaio: inossidabile, certo, perfetto.
Scivolo lentamente fino a terra, sdraiata, con i singhiozzi che ormai non riesco più a tenere nel petto; un calcio mi prende alla tibia, “Incrocia i piedi,” e obbedisco ancora, accavallando le caviglie e continuando a respirare forte nella sabbia rossastra. Il telefono mi riprende, nuda e sdraiata faccia al suolo, come una cagna, mentre piango in silenzio, ma non riesce a importarmi.
Il ginocchio di Atreja mi si appoggia senza delicatezza tra le scapole mentre mi si siede addosso, si fa passare una corda, mi prende le mani, le ferma lì, dietro la schiena, le lega con tutta la cura e il gusto del mondo. Non vuole perdersi le ultime possibilità di umiliarmi. Non m’importa neanche di questo.
La sento estrarre il coltello, appoggiarlo alla base dell’orecchio destro, quello colmo di brillanti.
Trattengo il fiato, con le spalle che tremano e il respiro reso difficile dal suo dannato ginocchio.
La lama sulla pelle.
Se c’è un Dio dovrà chiedermi scusa, tra poco: ero qui per fare queste cose, non per subirle.
Non per fare questa fine.
È un attimo.
Sto tremando e respirando duro, ma il dolore acuto che sento all’orecchio è solo immaginazione: il coltello si ritrae, una risatina malevola, leggera, riempie il silenzio drammatico che era disceso. Lei si alza, “Stavo scherzando, suvvia,” vengo alzata di peso e rimessa in piedi, davanti a lei: mi trovo a fissarla, incredula e ansimante, occhi negli occhi. “Non prenderò il tuo orecchio, tesoro: consideralo un gesto di rispetto.”
Mi bacia sulla guancia, come una madre premurosa. Potrebbe essere mia madre. Vorrei fosse mia madre.
La guardo spostarsi dietro di me, la sua mano abbronzata, cotta dal sole, mi accarezza il collo e il petto.
“Credimi, Mercury: della tua amica chierichetta non m’importa nulla, ma uccidere te è uno spreco imbarazzante. Sei carina, hai un bel portamento.”
Mi cinge per un attimo le spalle prima che la sua mano scenda più giù, mi elargisca una pacca affettuosa sul culo che sembra risuonare in tutta la vallata: sussulto con due lacrimoni sulle guance e il respiro che fatica a tornare normale.
“Saresti stata perfetta come schiava da compagnia, da portare a passeggio la sera, a quattro zampe, con la museruola e il guinzaglio, a far pipì tra le piante. Ma purtroppo,” pausa densa, “Non mi fido molto degli eventi. Una come te, che ha riscosso tutto l’interesse del pubblico, no, lasciarti vivere è un rischio che non intendo correre. O avresti voluto essere la mia schiava da compagnia, Silvia cara?”
Stringo i denti, forte, per cercare tutto quel poco d’orgoglio che resta, per una risposta che sia all’altezza; “Fottiti,” è l’unica cosa che riesco a sbavare fuori dalle labbra.
Lei ride lieve, posata. Lascia la mia schiena e torna davanti, mi alza il mento perché guardi nei suoi occhi scuri e ci veda, una volta di più, la regina di Illumina.
“Un’ultima cosa da dire al mondo?”
Le mie ultime parole.
Come i condannati, ma non c’è tribunale, non c’è giuria, nessun giudice: solo il boia. Un boia che viene dal passato.
Atreja è come una madre, come mia madre. Mia madre mi ha spinta quaggiù, mia madre, la sua ludopatia, mia madre mi ha fatta umiliare, torturare, uccidere.
Vorrei che le mie ultime parole fossero di rabbia, di odio, in fondo ho odiato tutta la vita. Ho odiato decine di cose, a volte anche me stessa. Se devo scegliere delle ultime parole, devono essere di odio.
È nella mia natura.
Prendo un respiro, infinito, trattengo un altro singulto. Mordo il labbro, anche se fa male per tutte le stringhe dorate che vi sono state infitte a forza.
Socchiudo gli occhi.
“Ti perdono, mamma.”
Non so se mi stia guardando, non credo.
Ma qualcuno magari glielo riporterà.
Magari.
“Andiamo,” la voce di Atreja spezza l’impasse e il flusso dei pensieri. “Non saluti la tua amica?” si rivolge a qualcuno che sta lì accanto.
Mi ero dimenticata di lei: Candy risorge dalla terrorizzata apatia nella quale si era confinata, si riscuote; vorrebbe evitare ma intuisce che è un’altra prova e così ha un fugace cenno d’assenso.
“Fino alla fine, non è vero?” mormoro alla regina di Illumina.
“Umiliarti è la cosa più bella che mi sia capitata su queste isole. Poi so che avete avuto dei dissapori: non volete far pace in questo momento così importante?”
Mi volta verso di lei.
Candy si accosta. Non sa cosa fare, non sa cosa dire, né cosa Atreja e le altre si aspettino da lei; fa ciò che il suo ridotto cervello le suggerisce: si allunga, mi bacia sulla bocca, un veloce giro di lingua, poi si stacca. Il telefono riprende avido.
“Toccherà anche a te prima o poi,” la ammonisco atona.
Lei annuisce, pallida, accenna col capo. “Intanto muori tu, stronza.”
I denti mi si serrano in una smorfia di collera. “Tornerò dall’inferno solo per strapparti il cuore e sputarci sopra.”
La ginocchiata che mi arriva dritta nello stomaco è una bassezza dalla quale non posso difendermi. Crollo in ginocchio tossendo, e forse era proprio ciò che questa scrofa vestita da liceale voleva ottenere, col suo coraggio da opportunista, la sua grinta improvvisata. Stare in ginocchio di fronte a una creatura infame e misera come questa mi umilia anche più della nudità davanti al mondo.
“Su, su, pace è fatta,” Atreja mi afferra e rimette in piedi di peso, mi sospinge avanti come una bambina indisciplinata, poi mi trattiene per il collo, mi si accosta. “Nella peggiore delle ipotesi,” scandisce all’orecchio, “Ci vorrà un minuto. Un minuto solo di agonia. Quando morde va alla gola o al petto; c’è il dolore, pochi secondi, poi di solito finisce tutto; se non ti prende alla gola o al petto, ma al ventre, arrivi al massimo a un minuto per dissanguarti. Ce la puoi fare, tesoro, un minuto di agonia se proprio va male.”
“Dio Cristo,” singhiozzo incredula, “Io non te l’avrei mai fatta una cosa del genere, mai…”
“Lo so. Ce la puoi fare, bellezza. Vai e fai godere il mondo.”
Una pacca sul culo e poi sono sola.
Siamo io e il ponte.
Le Erinni guardano, il mondo guarda. Ho una paura fottuta.
Cammino.
Le gambe tremano, senza sosta.
Il respiro trema.
La sorvegliante con la lancia mi guarda passare come si guarda lo zucchero filato al lunapark.
Cammino.
L’anello al naso, la bigiotteria infitta nel labbro, tutto tintinna come fosse la mia marcia funebre. Fanno ancora male ma non me ne accorgo più.
Quando appoggio un piede, il primo, sulle assi del ponte, la cosa di sotto alza il capo ed emette un soffio che sembra quello d’uno spropositato mantice. Ha fauci sporche di sangue e gocce di saliva arrossata che scivolano, come filamenti di colla, al suolo.
Lo sguardo mi cade, inevitabile, su ciò che resta di Rita: un corpo ancora riconoscibile nelle sue componenti principali, ma cui manca quasi tutta la parte centrale. Una carcassa dissezionata, con un tratto d’intestino che si è sparso lì accanto e ha preso il colore del terriccio: sembra un grosso verme insabbiato. Il suo viso è rimasto congelato in un’espressione che ha poco d’orrore e molto di stanchezza, di sofferenza. Un viso ancora umano nonostante l’ordalia e qualche goccia di sangue schizzata dal basso. Gli occhi per metà aperti sono rimasti a fissare il nulla.
Dio.
Tiro su col naso mentre le lacrime premono feroci tra le ciglia.
Dio Santo.
La bestia si scosta dal cadavere, indolente, abbassa il capo e poi lo rialza per controllare che io ci sia, che io stia arrivando: nelle movenze assomiglia drammaticamente a Panzer.
Amavo Panzer.
“Muovi il culo, tesoro,” Atreja ha un gesto teatrale della mano, “Non abbiamo tutto il giorno.”
Porto anche il secondo piede, con tutta la calma del mondo, sulle assi del ponte; per un attimo la struttura oscilla, tremola, tra corde e legno che devono essere lì da tempo. Non ho le mani per aiutare l’equilibrio, così resto immobile, pregando, supplicando, di non cadere.
Muovo un passo, mi fermo.
La bestia osserva, guarda intorno, schiocca le fauci. Mi scruta dal basso in alto, sono la sua fottuta seconda portata.
È orribile. Osceno.
Emette un soffio e le narici gli si chiudono e aprono, l’odore del sangue sale in una zaffata dolciastra, soffocante. Chino la testa per una boccata d’ossigeno che tarda a tornare. Lo guardo piegarsi leggermente sulle grandi zampe posteriori, aprire le mani come già si era messo prima, pronto a scattare, a farmi sua.
È un predatore, un superpredatore, e io gli appartengo, corpo e anima; corpo soprattutto.
La lancia dell’Erinni alle mie spalle mi si pianta contro il culo e spinge, barcollo in avanti, “No!” Incespico, si muove tutto, il ponte, le assi, tutto dondola paurosamente, “Non spingere, Cristo, faccio da sola!” e le labbra mi si storcono in una smorfia di pianto, il rossore delle guance, gli occhi umidi. “Faccio da sola, cazzo…”
Mi guardano, tutti, il mondo.
Nuda e sconfitta, servita alla bestia su un miserabile ponte che oscilla.
Un paio di passi e sono a metà della passerella, metà esatta. Le gambe tremano in precario equilibrio sulle assi.
Guardo di sotto.
La cosa si muove, si sposta di lato per una posizione migliore, segue il volo d’un passeraceo e si distrae per un attimo, poi torna da me. Torna a fissarmi, scruta intorno, come chiedesse spiegazioni del perché non salto, perché ci metto tanto, perché nessuno fa qualcosa, come uno di quegli stronzi pieni di soldi che, al ristorante, s’infastidiscono per l’attesa.
Poteste soffocarvi tutti, e anche tu, Panzer-2, spero che una delle mie ossa ti vada di traverso.
D’improvviso l’opzione schiava da compagnia assume toni molto più attraenti, la mia immagine a gattoni con museruola e guinzaglio, ad alzar la gamba e pisciare tra le piante, balena e fluttua nella mente, poco meglio di quello che c’è lì sotto.
Poco meglio.
Poco.
Meglio.
Pigia, pigia, col pigiare, ma neanche quello mi spaventa più, non come l’orrore che alberga qualche metro più in basso e nel cuore di queste isole maledette.
“Mercury.” Il richiamo di Atreja è compassionevole ma spazientito.
“Faccio da sola!” mormoro dietro un singulto, isterica, con due lacrime che sfuggono al controllo e rotolano giù per le guance, “Faccio da sola, cazzo, datemi un attimo, un attimo, un fottuto attimo!”
Sto per morire e mi mettono fretta, mi mettono fretta, come se la mia vita non contasse niente, fosse spazzatura.
Muovo un piede. Lo sposto lento oltre l’orlo delle assi e per un attimo rimane sospeso nel vuoto. Lo guardo io, lo guarda la bestia, lo guardano tutti i feticisti della rete, il mio piede nudo che sta sospeso nel vuoto.
Vai ora.
Fallo.
Come Rita, che ci vuole, basta saltare, un attimo e il gioco è fatto.
Un minuto d’agonia se proprio va male.
Un minuto.
Cos’è un minuto?
Quanti ne passano, di minuti, ogni giorno, che perdiamo come niente fosse, che lasciamo andare via tanto ne abbiamo altri, centinaia, migliaia di altri?
Cos’è un minuto?
La gamba ritorna indietro, il piede si poggia di nuovo sulle assi del ponte.
Non ce la faccio.
Scuoto la testa come dentro un incubo.
Non ce la faccio.
Sto tremando e piangendo.
Le spalle sussultano. Il sole riverbera sulla bigiotteria appesa alla mia carne.
Non ce la faccio.
Atreja scuote la testa con un mezzo sorriso sarcastico, accenna con una mano. “Buttatela giù.”
Le due sorveglianti ai capi della passerella abbassano le lance.
È finita.
Tutto finisce, senza neanche le note della mia canzone preferita.
Due cagne arrabbiate si protendono sul ponte coi loro fottuti spiedi, punte di legno acuminato mirano alle cosce, le caviglie. Lotto per tenere l’equilibrio contro ogni possibilità.
La mia mente si focalizza unicamente sul pensiero di morte.
La paura diventa l’unico ossigeno, la mente non ragiona più.
L’angoscia controlla tutto il mio essere e la certezza di trovarmi alla fine della vita spazza via qualsiasi residuo di autocontrollo.
Morte.
Dolore.
La bestia.
L’agonia.
Cos’è un minuto?
Un minuto.
L’orrore.
Quello che accade in un unico, concitato attimo il mio occhio lo registra solo come un fotogramma confuso, un’istantanea sfocata. Un corpo di donna nudo e candido si scaglia con la foga dei martiri contro l’Erinni che, alla mia destra, sta allungando il colpo di lancia.
La travolge.
Irrompono entrambe sulle assi del ponte che ondeggia di colpo e, con uno schianto di legno, dà il giro.
Sotto i miei piedi nudi c’è di colpo il vuoto.
L’orrore.
Cadiamo.
Tre corpi precipitano verso il basso, verso il mostro, verso il destino. Cadiamo e per un attimo vedo il cielo, l’azzurro intenso del cielo, il bianco dei cirri, la passerella. I miei occhi dilatati assorbono le tracce di questo mondo per un’ultima, sontuosa fotografia di vita.
Cadere.
Volare.
La differenza è minima.
L’impatto col suolo è doloroso sebbene la sabbia attutisca in buona parte.
Sbatto spalla e fianco e lì rimango per un attimo interminabile, con stelle di dolore finissimo che accecano gli occhi e la mente razionale.
La bestia ha un moto di sorpresa, arretra di un passo e si lamenta, quel suono osceno dentro al bunker, con le fauci aperte in minaccia, prima di rendersi conto che non c’è pericolo, che questa volta sono piovute tre portate in un unico colpo.
Per la mia mente ghiacciata, bloccata sul pensiero di morte, non c’è differenza apprezzabile.
Il rettile scatta avanti, chiude le fauci su lei, la suora, il cui gesto, nell’ovatta dell’orrore, non ha per me spiegazione, e non la trova. Fortuna, calcolo: lei scansa rigirandosi nella sabbia, gli si getta verso le zampe e quello, il mostro, si disorienta e perde la cognizione, facendo l’unica cosa che il suo istinto animale gli impone: si scaglia su un’altra preda umana.
Sceglie me.
Sceglie l’Erinni che sta lottando per rialzarsi.
È il lancio di un dado e io odio i dadi. Li ho sempre odiati, a differenza di mia madre.
Mani artigliate si chiudono sul corpo imbardato della guardia, il suo grido d’orrore riempie il canyon; la donna scalcia, disperata, frappone un braccio d’istinto e le fauci, quelle fauci da coccodrillo, scattano e le si chiudono sull’arto.
Dio.
Lo schianto dell’osso è nulla confronto allo scuotere rabbioso di quella testa preistorica, due, tre volte, come un enorme cane indiavolato. È nulla confronto allo strappo di carne lacerata che mi incide il timpano e risuona fin nello stomaco causando un conato, il suono che fa il braccio strappandosi di netto con tutta la spalla al seguito, e il grido, il grido lancinante di quella donna, che in quel momento è solo una donna, non un’Erinni, una nemica, una strega cui ho augurato la morte peggiore.
Solo una donna.
L’urlo risuona nel canyon e poi si spegne.
Lui, la cosa, si erge per un attimo in tutto il suo osceno splendore, il braccio strappato tenuto tra le fauci, prima di lasciarlo cadere, guardare in basso e chiudere con uno scatto pauroso il morso sul corpo di lei, pallida per lo shock, schiantando le costole e ponendo fine al supplizio.
Dio.
Fauci arrossate si riaprono dopo aver stretto per un tempo interminabile, si alzano; la sua testa spropositata si volta, il suo occhio vivo, malevolo, si posa sulla mia figura ansante, paralizzata, scomposta sul terreno. L’istinto predatorio lo porta a massimizzare la caccia e consumare poi.
Uccidere poi mangiare.
Uccidere.
Mani artigliate lasciano il cadavere dell’Erinni che si adagia al suolo con innaturale mollezza.
La bestia si sposta a passo elefantesco verso di me.
Se esiste un Dio dovrà rendermi conto di un simile aborto di creatura.
Mani si aprono in postura d’attacco, gambe si flettono su muscoli antichi.
L’istinto, quel poco d’istinto che mi resta, Iraq, Afghanistan, mi fa arretrare, legata, coi gomiti e puntando i piedi nella sabbia, il volto segnato dalla paura, la paura più grande del mondo.
L’orrore.
La bestia torreggia su di me per un istante lunghissimo, appena sotto la passerella sospesa.
Flash della mia esistenza lampeggiano e risplendono acromatici in tutte le regioni dell’anima, troppi per seguirli, per capirli, per tenerli con me.
Fauci immonde e lorde di sangue e brandelli di carne si spalancano e dentro, dentro c’è il buio dell’abisso, il male assoluto.
L’orrore.
L’orrore.
L’orrore.
La cosa che si frappone tra me e lui ha il colore bianco della pelle rimasta troppo a lungo lontana dalla luce.
Ha le forme di un corpo virgineo e il candore di una chioma tinta del più sacrale platino.
Ha un viso levigato, affilato, e gli occhi dei giusti.
Un’aureola d’oro purissimo attorno al capo.
Ha la croce nella mano, protesa verso il mostro, e la voce di cristallo.
“VADE”
La Fede più cieca.
“RETRO!”
È un attimo.
Un lungo, lunghissimo attimo.
È un battito del cuore, il mio cuore, che per un istante si ferma.
È la croce contro la bestia.
In piedi, stagliata contro il cielo e la terra, umida di sole, la suora regge il piccolo amuleto con una mano.
Il sauro arretra di un passo.
Tentenna.
Chiude la fauci come avesse perso qualsiasi velleità, le sbatte un paio di volte, annoiato.
Disinteressato.
Segue il volo d’una farfalla.
Si scosta.
La bestia si scosta.
A passo pesante ritorna sull’Erinni, si ferma, cala il morso sul corpo senza vita.
Sto guardando l’impossibile, l’assurdo, anche più di quanto ho già visto finora.
Neanche mi accorgo, per un attimo, delle mani candide che mi abbrancano, che mi strattonano, “Alzati!” che tentano di riscuotermi dall’apnea, “Alzati, avanti, alzati!”
E così mi alzo, incespicando, mi volto come in trance, seguo l’angelo della misericordia giù per il canyon e ci vogliono svariati passi prima che la mente si riattivi, almeno in parte, prima che l’istinto di sopravvivenza riprenda il controllo, e trasformi tutto in una corsa liberatoria, una corsa che sa di vita, di miracolo, di impossibile.
Corriamo consapevoli che le Erinni rimaste intorno al ponte non possono venirci dietro perché c’è lui tra noi e loro, e qualche sparo miagola vicino e scheggia la pietra, ma la curva del canyon e le rocce ci proteggono presto.
Corriamo, finché la gola non degrada e si diluisce, finché la sabbia lascia il posto all’erba.
Scendiamo un pendio con energia che sembra infinita, ci immergiamo tra le frasche, la vegetazione che infittisce, diventa quella di un bosco.
Un verso lancinante evoca cose simili e diverse rispetto a quella che abbiamo lasciato nel canyon. Poi passi, passi nel sottobosco, frasche spezzate.
Dio.
Un ruscello sembra incanalarci e guidarci verso radure dai bei colori, poi uno stagno, di nuovo un fiumiciattolo che costeggiamo tra le pietre, il muschio, e pazienza il male ai piedi.
Non ho idea se siamo inseguite, braccate, da chi, da cosa.
Gli alberi diradano un poco, l’acqua slarga, si espande in un minuscolo bacino denso di canne e piante morte.
“Lì!” grido prendendo la leadership, puntando il fianco fangoso del rivo. Ci salto dentro senza esitazioni, affondando fino alle ginocchia nel fango grigio e semi-liquido, arrancando e trascinandomi più avanti possibile.
“Perché lì?!” La suora si ferma allarmata sulla riva, sguardi attoniti dietro di sé.
“Il fango copre l’odore! Veloce!”
Un ultimo istante d’esitazione poi la prudenza va all’inferno: affonda i suoi aristocratici piedini nel fango e sguazza al mio seguito, ansante.
Cammino cercando la profondità, fin quando il livello della torba non supera la passera e poi l’ombelico, dopodiché m’inginocchio e sprofondo fino al collo. Lei arriva qualche secondo più tardi al rumore gorgogliante, disgustoso, del fango che rimesta e sbrodola intorno a noi; s’inginocchia fino a restare con la testa fuori e nulla più.
“Sei sicura che…”
“No,” ammetto, “Tu fidati e basta, cazzo.”
Passi pesanti annunciano l’arrivo di qualcosa di grosso, almeno quanto Panzer-2, tra la boscaglia. Frasche spezzate e rami rotti riempiono il silenzio improvviso della foresta.
“Prendi un respiro e al mio tre andiamo sotto.”
“Devo mettere la testa sotto in questo schifo?!”
“È come acqua, Cristo, solo più merdosa!”
Lei mi squadra infastidita.
“Okay, niente Cristo. Uno, due…”
La cosa che appare tra gli alberi è grande, rossastra e orrida, ma non intendo fare confronti.
“Tre!”
Prendo il respiro più lungo che trovo e vado giù, nel fango buio.
Per un attimo, uno solo, mi sento libera.
Viva.
Più di tutto: viva.
Contro pronostico lei prende un respiro, il respiro di chi sta per dire qualcosa d’importante. “Io…” mormora con il labbro che trema, “Io voglio andare per ultima.”
Ha gli occhi gonfi di lacrime e il viso ancora più pallido del consueto. La morte di Rita deve averla sconvolta, aver distrutto quella calma rassegnata, stoica, che l’aveva accompagnata per tutte quelle ore. Non so cosa credesse, che fosse tutto una finta, un gioco, che si sarebbe risolto con uno spavento e nulla più: le sue certezze sono crollate di colpo e i nervi le hanno ceduto di schianto. Singhiozza, come una bambina, dopotutto lo è: non sarà maggiorenne da molto, il mondo l’ha già vista nuda e umiliata e tra poco la vedrà masticata da un dinosauro.
Troppo, troppo anche per chi ha il conforto d’una croce tra le poppe.
“Voglio andare per ultima, vi prego,” mormora con la voce rotta dal pianto.
Atreja sorride, si china a carezzarle il viso come una madre comprensiva, poi si volta a guardarmi, uno sguardo penetrante, freddo, che scava fino all’anima e raschia con artigli simili a quelli del mostro. “Che ne dici, cara? Lo esaudiamo l’ultimo desiderio di questa bella gattina? Sei tu la prossima?”
Cosa vuoi dire a una richiesta del genere?
No, non vado? Voglio vederla morire perché mi stanno sul cazzo lei, il suo Dio, il suo corpo da principessa e i suoi piedini erotici?
Dico di no a una ragazzina in lacrime, distrutta, che tra un quarto d’ora al massimo mi seguirà nello stomaco dell’aberrazione, almeno nei suoi pezzi principali?
Gliel’avevo promesso, lo so, che l’avrei guardata crepare, che avrei chiesto esplicita cortesia: ma lì, di fronte a quel relitto di religiosa, per quanto io sia stronza e stronza davvero, non ne ho il cuore.
Così annuisco, strizzando gli occhi per reggere la fitta al petto che per un attimo mi ottunde come un’apnea, un incubo sotto il pelo dell’acqua.
Annuisco, sono io la prossima.
“Brava, tesoro” la mano di Atreja regala una carezza anche a me, decisa, sicura, “Brava.”
Vorrei piangere, e un singhiozzo mi sfugge anche, prima di riuscire a reprimere il resto tra le labbra serrate. Sono la prossima.
Sto per morire.
In quel modo, quel modo lì.
Un lamento della bestia sembra invocare nuova carne.
Forse è un essere intelligente, forse comunica, forse ha dei desideri, delle pulsioni. Forse ama, odia, odia l’attesa, ama la carne delle giovani fiche come noi: devono averlo abituato bene, più che bene.
La suora viene fatta rimettere in ginocchio, con le mani dietro la testa: continua a piangere sommessamente. Il telefono riprende con grande attenzione per il gusto della platea oltremare.
“Mettiti giù.”
La voce di Atreja è di nuovo quella d’una comandante incallita. Manco un altro respiro. “Ti prego,” mormoro senza voce, “Ti prego, l’orecchio no…”
Lei ha solo un battito di palpebre. “Mettiti giù.”
Ha un tono, un timbro, che rende impossibile disobbedire; la sua voce è come una catena, un vincolo d’acciaio: inossidabile, certo, perfetto.
Scivolo lentamente fino a terra, sdraiata, con i singhiozzi che ormai non riesco più a tenere nel petto; un calcio mi prende alla tibia, “Incrocia i piedi,” e obbedisco ancora, accavallando le caviglie e continuando a respirare forte nella sabbia rossastra. Il telefono mi riprende, nuda e sdraiata faccia al suolo, come una cagna, mentre piango in silenzio, ma non riesce a importarmi.
Il ginocchio di Atreja mi si appoggia senza delicatezza tra le scapole mentre mi si siede addosso, si fa passare una corda, mi prende le mani, le ferma lì, dietro la schiena, le lega con tutta la cura e il gusto del mondo. Non vuole perdersi le ultime possibilità di umiliarmi. Non m’importa neanche di questo.
La sento estrarre il coltello, appoggiarlo alla base dell’orecchio destro, quello colmo di brillanti.
Trattengo il fiato, con le spalle che tremano e il respiro reso difficile dal suo dannato ginocchio.
La lama sulla pelle.
Se c’è un Dio dovrà chiedermi scusa, tra poco: ero qui per fare queste cose, non per subirle.
Non per fare questa fine.
È un attimo.
Sto tremando e respirando duro, ma il dolore acuto che sento all’orecchio è solo immaginazione: il coltello si ritrae, una risatina malevola, leggera, riempie il silenzio drammatico che era disceso. Lei si alza, “Stavo scherzando, suvvia,” vengo alzata di peso e rimessa in piedi, davanti a lei: mi trovo a fissarla, incredula e ansimante, occhi negli occhi. “Non prenderò il tuo orecchio, tesoro: consideralo un gesto di rispetto.”
Mi bacia sulla guancia, come una madre premurosa. Potrebbe essere mia madre. Vorrei fosse mia madre.
La guardo spostarsi dietro di me, la sua mano abbronzata, cotta dal sole, mi accarezza il collo e il petto.
“Credimi, Mercury: della tua amica chierichetta non m’importa nulla, ma uccidere te è uno spreco imbarazzante. Sei carina, hai un bel portamento.”
Mi cinge per un attimo le spalle prima che la sua mano scenda più giù, mi elargisca una pacca affettuosa sul culo che sembra risuonare in tutta la vallata: sussulto con due lacrimoni sulle guance e il respiro che fatica a tornare normale.
“Saresti stata perfetta come schiava da compagnia, da portare a passeggio la sera, a quattro zampe, con la museruola e il guinzaglio, a far pipì tra le piante. Ma purtroppo,” pausa densa, “Non mi fido molto degli eventi. Una come te, che ha riscosso tutto l’interesse del pubblico, no, lasciarti vivere è un rischio che non intendo correre. O avresti voluto essere la mia schiava da compagnia, Silvia cara?”
Stringo i denti, forte, per cercare tutto quel poco d’orgoglio che resta, per una risposta che sia all’altezza; “Fottiti,” è l’unica cosa che riesco a sbavare fuori dalle labbra.
Lei ride lieve, posata. Lascia la mia schiena e torna davanti, mi alza il mento perché guardi nei suoi occhi scuri e ci veda, una volta di più, la regina di Illumina.
“Un’ultima cosa da dire al mondo?”
Le mie ultime parole.
Come i condannati, ma non c’è tribunale, non c’è giuria, nessun giudice: solo il boia. Un boia che viene dal passato.
Atreja è come una madre, come mia madre. Mia madre mi ha spinta quaggiù, mia madre, la sua ludopatia, mia madre mi ha fatta umiliare, torturare, uccidere.
Vorrei che le mie ultime parole fossero di rabbia, di odio, in fondo ho odiato tutta la vita. Ho odiato decine di cose, a volte anche me stessa. Se devo scegliere delle ultime parole, devono essere di odio.
È nella mia natura.
Prendo un respiro, infinito, trattengo un altro singulto. Mordo il labbro, anche se fa male per tutte le stringhe dorate che vi sono state infitte a forza.
Socchiudo gli occhi.
“Ti perdono, mamma.”
Non so se mi stia guardando, non credo.
Ma qualcuno magari glielo riporterà.
Magari.
“Andiamo,” la voce di Atreja spezza l’impasse e il flusso dei pensieri. “Non saluti la tua amica?” si rivolge a qualcuno che sta lì accanto.
Mi ero dimenticata di lei: Candy risorge dalla terrorizzata apatia nella quale si era confinata, si riscuote; vorrebbe evitare ma intuisce che è un’altra prova e così ha un fugace cenno d’assenso.
“Fino alla fine, non è vero?” mormoro alla regina di Illumina.
“Umiliarti è la cosa più bella che mi sia capitata su queste isole. Poi so che avete avuto dei dissapori: non volete far pace in questo momento così importante?”
Mi volta verso di lei.
Candy si accosta. Non sa cosa fare, non sa cosa dire, né cosa Atreja e le altre si aspettino da lei; fa ciò che il suo ridotto cervello le suggerisce: si allunga, mi bacia sulla bocca, un veloce giro di lingua, poi si stacca. Il telefono riprende avido.
“Toccherà anche a te prima o poi,” la ammonisco atona.
Lei annuisce, pallida, accenna col capo. “Intanto muori tu, stronza.”
I denti mi si serrano in una smorfia di collera. “Tornerò dall’inferno solo per strapparti il cuore e sputarci sopra.”
La ginocchiata che mi arriva dritta nello stomaco è una bassezza dalla quale non posso difendermi. Crollo in ginocchio tossendo, e forse era proprio ciò che questa scrofa vestita da liceale voleva ottenere, col suo coraggio da opportunista, la sua grinta improvvisata. Stare in ginocchio di fronte a una creatura infame e misera come questa mi umilia anche più della nudità davanti al mondo.
“Su, su, pace è fatta,” Atreja mi afferra e rimette in piedi di peso, mi sospinge avanti come una bambina indisciplinata, poi mi trattiene per il collo, mi si accosta. “Nella peggiore delle ipotesi,” scandisce all’orecchio, “Ci vorrà un minuto. Un minuto solo di agonia. Quando morde va alla gola o al petto; c’è il dolore, pochi secondi, poi di solito finisce tutto; se non ti prende alla gola o al petto, ma al ventre, arrivi al massimo a un minuto per dissanguarti. Ce la puoi fare, tesoro, un minuto di agonia se proprio va male.”
“Dio Cristo,” singhiozzo incredula, “Io non te l’avrei mai fatta una cosa del genere, mai…”
“Lo so. Ce la puoi fare, bellezza. Vai e fai godere il mondo.”
Una pacca sul culo e poi sono sola.
Siamo io e il ponte.
Le Erinni guardano, il mondo guarda. Ho una paura fottuta.
Cammino.
Le gambe tremano, senza sosta.
Il respiro trema.
La sorvegliante con la lancia mi guarda passare come si guarda lo zucchero filato al lunapark.
Cammino.
L’anello al naso, la bigiotteria infitta nel labbro, tutto tintinna come fosse la mia marcia funebre. Fanno ancora male ma non me ne accorgo più.
Quando appoggio un piede, il primo, sulle assi del ponte, la cosa di sotto alza il capo ed emette un soffio che sembra quello d’uno spropositato mantice. Ha fauci sporche di sangue e gocce di saliva arrossata che scivolano, come filamenti di colla, al suolo.
Lo sguardo mi cade, inevitabile, su ciò che resta di Rita: un corpo ancora riconoscibile nelle sue componenti principali, ma cui manca quasi tutta la parte centrale. Una carcassa dissezionata, con un tratto d’intestino che si è sparso lì accanto e ha preso il colore del terriccio: sembra un grosso verme insabbiato. Il suo viso è rimasto congelato in un’espressione che ha poco d’orrore e molto di stanchezza, di sofferenza. Un viso ancora umano nonostante l’ordalia e qualche goccia di sangue schizzata dal basso. Gli occhi per metà aperti sono rimasti a fissare il nulla.
Dio.
Tiro su col naso mentre le lacrime premono feroci tra le ciglia.
Dio Santo.
La bestia si scosta dal cadavere, indolente, abbassa il capo e poi lo rialza per controllare che io ci sia, che io stia arrivando: nelle movenze assomiglia drammaticamente a Panzer.
Amavo Panzer.
“Muovi il culo, tesoro,” Atreja ha un gesto teatrale della mano, “Non abbiamo tutto il giorno.”
Porto anche il secondo piede, con tutta la calma del mondo, sulle assi del ponte; per un attimo la struttura oscilla, tremola, tra corde e legno che devono essere lì da tempo. Non ho le mani per aiutare l’equilibrio, così resto immobile, pregando, supplicando, di non cadere.
Muovo un passo, mi fermo.
La bestia osserva, guarda intorno, schiocca le fauci. Mi scruta dal basso in alto, sono la sua fottuta seconda portata.
È orribile. Osceno.
Emette un soffio e le narici gli si chiudono e aprono, l’odore del sangue sale in una zaffata dolciastra, soffocante. Chino la testa per una boccata d’ossigeno che tarda a tornare. Lo guardo piegarsi leggermente sulle grandi zampe posteriori, aprire le mani come già si era messo prima, pronto a scattare, a farmi sua.
È un predatore, un superpredatore, e io gli appartengo, corpo e anima; corpo soprattutto.
La lancia dell’Erinni alle mie spalle mi si pianta contro il culo e spinge, barcollo in avanti, “No!” Incespico, si muove tutto, il ponte, le assi, tutto dondola paurosamente, “Non spingere, Cristo, faccio da sola!” e le labbra mi si storcono in una smorfia di pianto, il rossore delle guance, gli occhi umidi. “Faccio da sola, cazzo…”
Mi guardano, tutti, il mondo.
Nuda e sconfitta, servita alla bestia su un miserabile ponte che oscilla.
Un paio di passi e sono a metà della passerella, metà esatta. Le gambe tremano in precario equilibrio sulle assi.
Guardo di sotto.
La cosa si muove, si sposta di lato per una posizione migliore, segue il volo d’un passeraceo e si distrae per un attimo, poi torna da me. Torna a fissarmi, scruta intorno, come chiedesse spiegazioni del perché non salto, perché ci metto tanto, perché nessuno fa qualcosa, come uno di quegli stronzi pieni di soldi che, al ristorante, s’infastidiscono per l’attesa.
Poteste soffocarvi tutti, e anche tu, Panzer-2, spero che una delle mie ossa ti vada di traverso.
D’improvviso l’opzione schiava da compagnia assume toni molto più attraenti, la mia immagine a gattoni con museruola e guinzaglio, ad alzar la gamba e pisciare tra le piante, balena e fluttua nella mente, poco meglio di quello che c’è lì sotto.
Poco meglio.
Poco.
Meglio.
Pigia, pigia, col pigiare, ma neanche quello mi spaventa più, non come l’orrore che alberga qualche metro più in basso e nel cuore di queste isole maledette.
“Mercury.” Il richiamo di Atreja è compassionevole ma spazientito.
“Faccio da sola!” mormoro dietro un singulto, isterica, con due lacrime che sfuggono al controllo e rotolano giù per le guance, “Faccio da sola, cazzo, datemi un attimo, un attimo, un fottuto attimo!”
Sto per morire e mi mettono fretta, mi mettono fretta, come se la mia vita non contasse niente, fosse spazzatura.
Muovo un piede. Lo sposto lento oltre l’orlo delle assi e per un attimo rimane sospeso nel vuoto. Lo guardo io, lo guarda la bestia, lo guardano tutti i feticisti della rete, il mio piede nudo che sta sospeso nel vuoto.
Vai ora.
Fallo.
Come Rita, che ci vuole, basta saltare, un attimo e il gioco è fatto.
Un minuto d’agonia se proprio va male.
Un minuto.
Cos’è un minuto?
Quanti ne passano, di minuti, ogni giorno, che perdiamo come niente fosse, che lasciamo andare via tanto ne abbiamo altri, centinaia, migliaia di altri?
Cos’è un minuto?
La gamba ritorna indietro, il piede si poggia di nuovo sulle assi del ponte.
Non ce la faccio.
Scuoto la testa come dentro un incubo.
Non ce la faccio.
Sto tremando e piangendo.
Le spalle sussultano. Il sole riverbera sulla bigiotteria appesa alla mia carne.
Non ce la faccio.
Atreja scuote la testa con un mezzo sorriso sarcastico, accenna con una mano. “Buttatela giù.”
Le due sorveglianti ai capi della passerella abbassano le lance.
È finita.
Tutto finisce, senza neanche le note della mia canzone preferita.
Due cagne arrabbiate si protendono sul ponte coi loro fottuti spiedi, punte di legno acuminato mirano alle cosce, le caviglie. Lotto per tenere l’equilibrio contro ogni possibilità.
La mia mente si focalizza unicamente sul pensiero di morte.
La paura diventa l’unico ossigeno, la mente non ragiona più.
L’angoscia controlla tutto il mio essere e la certezza di trovarmi alla fine della vita spazza via qualsiasi residuo di autocontrollo.
Morte.
Dolore.
La bestia.
L’agonia.
Cos’è un minuto?
Un minuto.
L’orrore.
Quello che accade in un unico, concitato attimo il mio occhio lo registra solo come un fotogramma confuso, un’istantanea sfocata. Un corpo di donna nudo e candido si scaglia con la foga dei martiri contro l’Erinni che, alla mia destra, sta allungando il colpo di lancia.
La travolge.
Irrompono entrambe sulle assi del ponte che ondeggia di colpo e, con uno schianto di legno, dà il giro.
Sotto i miei piedi nudi c’è di colpo il vuoto.
L’orrore.
Cadiamo.
Tre corpi precipitano verso il basso, verso il mostro, verso il destino. Cadiamo e per un attimo vedo il cielo, l’azzurro intenso del cielo, il bianco dei cirri, la passerella. I miei occhi dilatati assorbono le tracce di questo mondo per un’ultima, sontuosa fotografia di vita.
Cadere.
Volare.
La differenza è minima.
L’impatto col suolo è doloroso sebbene la sabbia attutisca in buona parte.
Sbatto spalla e fianco e lì rimango per un attimo interminabile, con stelle di dolore finissimo che accecano gli occhi e la mente razionale.
La bestia ha un moto di sorpresa, arretra di un passo e si lamenta, quel suono osceno dentro al bunker, con le fauci aperte in minaccia, prima di rendersi conto che non c’è pericolo, che questa volta sono piovute tre portate in un unico colpo.
Per la mia mente ghiacciata, bloccata sul pensiero di morte, non c’è differenza apprezzabile.
Il rettile scatta avanti, chiude le fauci su lei, la suora, il cui gesto, nell’ovatta dell’orrore, non ha per me spiegazione, e non la trova. Fortuna, calcolo: lei scansa rigirandosi nella sabbia, gli si getta verso le zampe e quello, il mostro, si disorienta e perde la cognizione, facendo l’unica cosa che il suo istinto animale gli impone: si scaglia su un’altra preda umana.
Sceglie me.
Sceglie l’Erinni che sta lottando per rialzarsi.
È il lancio di un dado e io odio i dadi. Li ho sempre odiati, a differenza di mia madre.
Mani artigliate si chiudono sul corpo imbardato della guardia, il suo grido d’orrore riempie il canyon; la donna scalcia, disperata, frappone un braccio d’istinto e le fauci, quelle fauci da coccodrillo, scattano e le si chiudono sull’arto.
Dio.
Lo schianto dell’osso è nulla confronto allo scuotere rabbioso di quella testa preistorica, due, tre volte, come un enorme cane indiavolato. È nulla confronto allo strappo di carne lacerata che mi incide il timpano e risuona fin nello stomaco causando un conato, il suono che fa il braccio strappandosi di netto con tutta la spalla al seguito, e il grido, il grido lancinante di quella donna, che in quel momento è solo una donna, non un’Erinni, una nemica, una strega cui ho augurato la morte peggiore.
Solo una donna.
L’urlo risuona nel canyon e poi si spegne.
Lui, la cosa, si erge per un attimo in tutto il suo osceno splendore, il braccio strappato tenuto tra le fauci, prima di lasciarlo cadere, guardare in basso e chiudere con uno scatto pauroso il morso sul corpo di lei, pallida per lo shock, schiantando le costole e ponendo fine al supplizio.
Dio.
Fauci arrossate si riaprono dopo aver stretto per un tempo interminabile, si alzano; la sua testa spropositata si volta, il suo occhio vivo, malevolo, si posa sulla mia figura ansante, paralizzata, scomposta sul terreno. L’istinto predatorio lo porta a massimizzare la caccia e consumare poi.
Uccidere poi mangiare.
Uccidere.
Mani artigliate lasciano il cadavere dell’Erinni che si adagia al suolo con innaturale mollezza.
La bestia si sposta a passo elefantesco verso di me.
Se esiste un Dio dovrà rendermi conto di un simile aborto di creatura.
Mani si aprono in postura d’attacco, gambe si flettono su muscoli antichi.
L’istinto, quel poco d’istinto che mi resta, Iraq, Afghanistan, mi fa arretrare, legata, coi gomiti e puntando i piedi nella sabbia, il volto segnato dalla paura, la paura più grande del mondo.
L’orrore.
La bestia torreggia su di me per un istante lunghissimo, appena sotto la passerella sospesa.
Flash della mia esistenza lampeggiano e risplendono acromatici in tutte le regioni dell’anima, troppi per seguirli, per capirli, per tenerli con me.
Fauci immonde e lorde di sangue e brandelli di carne si spalancano e dentro, dentro c’è il buio dell’abisso, il male assoluto.
L’orrore.
L’orrore.
L’orrore.
La cosa che si frappone tra me e lui ha il colore bianco della pelle rimasta troppo a lungo lontana dalla luce.
Ha le forme di un corpo virgineo e il candore di una chioma tinta del più sacrale platino.
Ha un viso levigato, affilato, e gli occhi dei giusti.
Un’aureola d’oro purissimo attorno al capo.
Ha la croce nella mano, protesa verso il mostro, e la voce di cristallo.
“VADE”
La Fede più cieca.
“RETRO!”
È un attimo.
Un lungo, lunghissimo attimo.
È un battito del cuore, il mio cuore, che per un istante si ferma.
È la croce contro la bestia.
In piedi, stagliata contro il cielo e la terra, umida di sole, la suora regge il piccolo amuleto con una mano.
Il sauro arretra di un passo.
Tentenna.
Chiude la fauci come avesse perso qualsiasi velleità, le sbatte un paio di volte, annoiato.
Disinteressato.
Segue il volo d’una farfalla.
Si scosta.
La bestia si scosta.
A passo pesante ritorna sull’Erinni, si ferma, cala il morso sul corpo senza vita.
Sto guardando l’impossibile, l’assurdo, anche più di quanto ho già visto finora.
Neanche mi accorgo, per un attimo, delle mani candide che mi abbrancano, che mi strattonano, “Alzati!” che tentano di riscuotermi dall’apnea, “Alzati, avanti, alzati!”
E così mi alzo, incespicando, mi volto come in trance, seguo l’angelo della misericordia giù per il canyon e ci vogliono svariati passi prima che la mente si riattivi, almeno in parte, prima che l’istinto di sopravvivenza riprenda il controllo, e trasformi tutto in una corsa liberatoria, una corsa che sa di vita, di miracolo, di impossibile.
Corriamo consapevoli che le Erinni rimaste intorno al ponte non possono venirci dietro perché c’è lui tra noi e loro, e qualche sparo miagola vicino e scheggia la pietra, ma la curva del canyon e le rocce ci proteggono presto.
Corriamo, finché la gola non degrada e si diluisce, finché la sabbia lascia il posto all’erba.
Scendiamo un pendio con energia che sembra infinita, ci immergiamo tra le frasche, la vegetazione che infittisce, diventa quella di un bosco.
Un verso lancinante evoca cose simili e diverse rispetto a quella che abbiamo lasciato nel canyon. Poi passi, passi nel sottobosco, frasche spezzate.
Dio.
Un ruscello sembra incanalarci e guidarci verso radure dai bei colori, poi uno stagno, di nuovo un fiumiciattolo che costeggiamo tra le pietre, il muschio, e pazienza il male ai piedi.
Non ho idea se siamo inseguite, braccate, da chi, da cosa.
Gli alberi diradano un poco, l’acqua slarga, si espande in un minuscolo bacino denso di canne e piante morte.
“Lì!” grido prendendo la leadership, puntando il fianco fangoso del rivo. Ci salto dentro senza esitazioni, affondando fino alle ginocchia nel fango grigio e semi-liquido, arrancando e trascinandomi più avanti possibile.
“Perché lì?!” La suora si ferma allarmata sulla riva, sguardi attoniti dietro di sé.
“Il fango copre l’odore! Veloce!”
Un ultimo istante d’esitazione poi la prudenza va all’inferno: affonda i suoi aristocratici piedini nel fango e sguazza al mio seguito, ansante.
Cammino cercando la profondità, fin quando il livello della torba non supera la passera e poi l’ombelico, dopodiché m’inginocchio e sprofondo fino al collo. Lei arriva qualche secondo più tardi al rumore gorgogliante, disgustoso, del fango che rimesta e sbrodola intorno a noi; s’inginocchia fino a restare con la testa fuori e nulla più.
“Sei sicura che…”
“No,” ammetto, “Tu fidati e basta, cazzo.”
Passi pesanti annunciano l’arrivo di qualcosa di grosso, almeno quanto Panzer-2, tra la boscaglia. Frasche spezzate e rami rotti riempiono il silenzio improvviso della foresta.
“Prendi un respiro e al mio tre andiamo sotto.”
“Devo mettere la testa sotto in questo schifo?!”
“È come acqua, Cristo, solo più merdosa!”
Lei mi squadra infastidita.
“Okay, niente Cristo. Uno, due…”
La cosa che appare tra gli alberi è grande, rossastra e orrida, ma non intendo fare confronti.
“Tre!”
Prendo il respiro più lungo che trovo e vado giù, nel fango buio.
Per un attimo, uno solo, mi sento libera.
Viva.
Più di tutto: viva.
***