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Capitolo 4
Un sussulto, un respiro profondo.
Sono sveglia.
Riconosco la stanza sotterranea, la luce fioca dei fari tenuti al minimo.
Riconosco Lucilla in piedi. Ha un mezzo sorriso nel guardarmi dall’alto in basso, come un oggetto anomalo, alieno.
Fastidio.
“Cosa guardi?” Mugugno girandomi su un fianco per non mandarla al diavolo.
“Niente, sei strana quando dormi.”
Sono strana quando dormo.
Bene così.
“Riposato?”
“Ma che te ne frega?”
Dev’essere mattina; non che si noti nel sotterraneo. Speranze di essere di colpo a casa, nel mio letto: nessuna.
Lei raccoglie qualcosa da accanto a me, lo osserva, “Riuscita ad accedere alle cartelle?”
Il telefono.
I video.
Ricordi della notte mi saltano addosso tutti assieme, d’improvviso, in un affondo di pura adrenalina.
Exilles.
“Sì,” mi volto di scatto, balzo a sedere sulla pietra dura, “Ho visto dei video, stanotte. Roba tosta. Dev’essere stata una delle prime Ondate.” Sbadiglio da leonessa, mai stata fine in queste cose. “È venuta qui per penitenza.”
“Ah.” Si rigira lo smartphone nelle mani curate. “E come hai trovato la password corretta?”
“Non c’era nessuna password.”
Ticchetta un po’ di volte, alza le sopracciglia, mi mostra lo schermo e la richiesta di una password d’accesso alle cartelle.
“Ma se sei impedita,” le strappo l’apparecchio di mano, esco da tutto, rientro, pesco la prima cartella, faccio che premere il primo video ma a quel tocco non ci arrivo mai: tutto si blocca prima dell’accesso e compare la richiesta d’inserire la parola d’ordine.
Lucilla gongola con discrezione.
“No, vabbé, questa merda non funziona.”
Riprovo, stessa scena.
Password necessaria.
“Stanotte non me l’ha chiesta, non me l’ha chiesta,” insisto infastidita dal suo sorrisetto, “Sennò come avrei fatto a vederli?!”
Riprovo, stessa scena.
Password.
Butto il telefono sull’asciugamano che è stato il mio cuscino in un gesto stizzito.
“Magari non vuoi dirmelo,” chiosa lei, “Oppure i video li hai sognati.”
“Sì, certo. Fatti furba, d’accordo?”
Mi alzo, mi stiro. Infilo le scarpe.
Ascolto in silenzio le sensazioni e gli stimoli del corpo alla ricerca di quello che più manca: invano.
“Neanche io,” Lucilla si scosta indovinando il pensiero, “Niente, nulla, neanche mezzo bisogno.”
Vero. Sempre più strano.
Spero di non stare morendo, sarebbe ridicolo; crepata per mancanza di bisogni fisiologici: fine ingloriosa. Più di masticata da un sauro gigante? Meno?
La porta del rifugio si apre, un chiarore da mattino isolano bagna la stanza; la figura di Sigrid si disegna controluce, fucile in spalla, berretto all’incontrario. Ammicca con un movimento di quelle sue labbra perfettamente ovali, penso genuine. “Venite a vedere?”
Vuoi dirle di no? Con un sole così, un nuovo giorno in Illumina?
Usciamo nel mattino, la seguiamo intorno alla torre e poi dentro, fino ai gradini che portano al terrazzo. L’aria è tiepida e una brezza di mare spira da destra, scompiglia i capelli, odora di salsedine e lavanda. Per un attimo è di nuovo meraviglia, sole, natura, è migliaia di chilometri dalla mia vita di prima e tutti i suoi fottuti problemi.
Lei indica qualcosa, verso nord, in lontananza, la direzione dalla quale siamo arrivate, il resto dell’isola.
Faccio ombra con una mano per vedere meglio.
Fumo.
Un sottile pennacchio di fumo si alza da qualche parte nella foresta, parecchio lontano, e sale in lente volute verso il cielo terso.
Speravo in qualcosa di più poetico: bestie preistoriche al pascolo, alba sfavillante, miraggi.
“Non è un incendio,” commento atona, “Direi un falò, qualcosa di circoscritto. È distante, non mi preoccuperei.”
“Se si stanno avvicinando?”
Scuoto la testa. “Non ha senso: perché rendersi così visibili? No, quel fuoco ha un altro significato. Magari non è niente.”
“Magari.”
Occhieggio intorno tentando di non pensare che ci stanno cercando. Sorrido. “Guardate là.”
A sinistra, verso il mare che si vede in lontananza, piccole creature volanti sfrecciano in alto e in basso; hanno il volo zigzagante dei pipistrelli anche se battono le ali con meno frequenza.
Sempre avuto un certo mix di fascino e repulsione per i pipistrelli; li guardi passare, al crepuscolo, senza un suono, pensando siano dei passeri tardivi. Poi capisci, ci ripensi: i passeri si lasciano guardare, appoggiati sui cornicioni, sui rami, nei parchi; sono carini, tondeggianti, sembrano ampolle. I pipistrelli no, quelli non si lasciano guardare; chi l’ha mai visto un pipistrello poggiato da qualche parte? Ho pensato per anni che neanche esistessero, poi me l’hanno spiegato: hai presente quelle cose che passano al crepuscolo zigzagando e che sembrano passeri tardivi? Pipistrelli.
Li vedi solo così, i pipistrelli: zigzagare nel buio incipiente, senza un suono, e sparire in un attimo.
Fascino e repulsione.
Amo gli animali, anche quelli schifosi. Più delle persone, sì, e non ci vuole molto.
“Pterodattili,” Sigrid la cacciatrice occhieggia a sua volta; saranno una trentina, sparsi lungo la linea del litorale, salgono e scendono seguendo le correnti che vengono dal mare. Forse cercano da mangiare, forse danzano. Mi piace l’idea che danzino.
“Va bene,” spezzo il momento, “Abbiamo da fare. Usiamo la giornata per rendere più sicuro questo posto. Se verranno a cercarci, dobbiamo essere pronte a tutto. Qui sotto tra cinque minuti che vi spiego cosa facciamo.”
Non attendo assensi che comunque non arrivano.
“Ma tu,” Lucilla abbassa il tono, imbarazzata, rivolgendosi ad Artemis mentre m’avvio alla scala, “Tu hai fatto pipì da quando siamo qui?”
La intuisco esitare, pensarci, fare segno di no con aria grave.
“Certo che è assurdo però.”
Assurdo.
Una spiegazione c’è di sicuro.
Tutto assurdo.
Illumina.
Quando entrò in ufficio, quella mattina, Max Tambori non fu sorpreso di trovare Gioele davanti allo schermo, lo sguardo fisso avanti. Aveva letto qualcosa sulla chat operativa, video strani, un nuovo mezzo mistero tra i tanti dell’arcipelago.
Lui sembrava fissare qualcosa sul monitor con più attenzione del solito, il collo proteso avanti e gli occhi resi ancora più larghi e dilatati dalla curvatura delle lenti. Max s’appoggiò allo stipite della porta, attendendo paziente d’essere notato; quando Gioele saettò lo sguardo sopra il riquadro dello schermo emise un grugnito intraducibile e si rituffò nella sua oscura contemplazione.
“Qualche altro miracolo della croce?” civettò sarcastico con un movimento rotatorio della mano. In risposta lui rialzò gli occhi sopra lo spigolo del monitor, attese un lungo istante poi gli fece segno d’avvicinarsi in quel suo modo nervoso, teso. Non aveva neppure il basco sul capo, notò, come solo nei momenti di massima trance agonistica.
Max caracollò avanti e andò a fermarglisi accanto, una mano poggiata sulla scrivania; sul costoso monitor c’era l’inquadratura in night vision di una di loro, stesa da qualche parte al buio, con un telefono incollato al viso; solo qualche leggero movimento delle mani o delle gambe lasciava intuire che non fosse un fermo immagine.
“Che è sta roba?”
“Mercury,” scandì lui con l’intonazione di un serpente a sonagli, i piccoli occhi fissi sulla registrazione.
“Ah, lei,” Max ridacchiò lasciando scorrere lo sguardo tra gambe e culo della figura stesa sulla pietra: riusciva a mandargli in iperattività i sensi anche nella sfocata immagine verdastra del night vision. “E quindi?”
“Quindi sta guardando dei video, è andata avanti parecchio stanotte.”
“Che video?”
“Speravo me lo dicessi tu.”
Max sollevò le sopracciglia; si chinò di più a scrutare il minuscolo riquadro obliquo dello smartphone tra le mani di lei senza distinguere nulla più che forme vaghe. “Ma con tutto quello che c’è da guardare di ‘sta donna, tu pensi ai video?”
“Sai che ha preso un telefono nell’albero della Masca, sì?”
Silenzio vago. “Sì, sì, lo so.”
“Io subito non ci ho dato molta importanza, ma a quanto pare contiene dei video. Ed è roba strana, io non capisco, proprio non capisco.”
“Ma fallo copiare, no? È uno dei nostri telefoni, te lo fai agganciare, copiamo la memoria e vediamo che video sono.”
“Ma non è dei nostri. Non è dei nostri, capisci?” Ebbe un gesto stizzito della mano, nevrotico. “Quel telefonino lì non è dei nostri. Hanno portato sull’isola un telefono che non è dei nostri.”
Silenzio. Max sbatté più volte le palpebre. “Ma questo non è mica possibile.”
“Lo dici a me? A me lo dici? Eppure lo sanno, dico io, che non si può portare niente in Illumina che non sia fornito da noi, giusto? Lo sanno. Se gli diamo un telefono nostro e diciamo che possono portare solo quello, perché mai io mi ritrovo una concorrente con in mano uno smartphone, appartenuto ad un’altra concorrente, che non è dei nostri?”
“Ma…”
“Sai cosa vuol dire questo, Max? Che giù al Controllo non sanno fare il loro lavoro, questo vuol dire! Perché io insisto che queste donne vanno perquisite e scansionate dopo il briefing finale e non prima? Perché una di costoro è riuscita a portarsi un telefono non autorizzato. Perché non l’hanno perquisita prima di salire sull’elicottero, ecco perché. E adesso abbiamo un telefono non registrato in circolazione sulle isole. Un telefono sul quale ci sono dei video che non abbiamo monitorato. E una stramaledetta concorrente li sta visionando senza che noi sappiamo di cosa si tratti!”
Prese una biro dal portapenne e la scagliò sulla scrivania in un gesto inconsulto; appoggiò il mento su una mano, affondando fino al naso, e lì rimase a respirarsi tra le dita, gli occhi sgranati e fissi al nulla.
“Su, su, non drammatizziamo,” Max tirò sul col naso tornando eretto, “Vuoi quei video? Ti procuro quei video.”
“In che modo li procuri quei video se il telefono non è nel nostro circuito?”
“Come eravamo d’accordo, Giò, all’inizio della storia? Come? A te spettava la parte organizzativa, a me quella…?”
“Umana, sì.”
“Umana, esatto. Perché tu non sei il massimo nel rapporto umano, te lo dicono tutti, no? Ci sono molti modi per avere qualcosa. Vuoi quei video? Ti procuro quei video.”
“Io devo capire, Max, devo capire. Sembra che da quando abbiamo mandato laggiù l’Ondata 9 sia cambiato tutto, ci siano cose strane, strane, capisci?”
“Può succedere, stiamo gestendo una cosa enorme, ci distraiamo dietro a tutte queste fighe. Può succedere, siamo umani.”
Gioele non replicò, continuando a fissare Mercury che, nel video della registrazione, s’era messa su un fianco a guardare assorta il telefono e le immagini che vi scorrevano in sequenza.
La giornata è volata in fretta, ma per una sola ragione: speravamo durasse di più. Fortificare una posizione è qualcosa di vagamente divertente se hai un plotone che può farti il lavoro; se sei in tre stronze il risultato non può che essere mediocre e la giornata ti passa per forza senza aver combinato granché.
La priorità era la palizzata e la palizzata l’abbiamo fatta. Per carità: palizzata è una cosa seria, i nostri sono tronchi e tronchetti messi in obliquo e appuntiti alla buona, tipo muro di lance, infilati nel terreno ad alcuni metri dalla torre, chiudendo tutto il già esiguo passaggio che sale dal basso.
Non è neanche un’opera d’ingegneria spiccia, è una merdata improvvisata. Qualunque cosa più grossa di una vacca la smonterebbe in tre secondi, ma l’obiettivo non è fermare le cose grosse: l’obiettivo è far sì che qualsiasi donna di Illumina trovi più complicato avvicinarsi. L’unica apertura, di mezzo metro, l’abbiamo lasciata a metà, nel punto che dal balconcino della torre si vede meglio.
Abbiamo sgobbato tutto il giorno, scendendo giù nella boscaglia a cercar legna, riportandola, affilando le punte, piantando tutto nel terreno. Una giornata per far questo, con poche pause, poco cibo, poca acqua e il sole addosso.
Dovremmo essere fiere di noi stesse.
Ce ne stiamo lì, sedute alla buona appena fuori dalla torre, a contemplare un lavoro che non sappiamo se e quanto reggerà, ma il punto è un altro; questa giornata mi ha fatto sorgere dubbi che si sommano a quelli che già esistevano.
Punto primo: abbiamo lavorato come negre su e giù per il pendio, piantando legni e affilando punte, sotto il sole, e io non ho sete. Niente. Bevo per riflesso, di tanto in tanto, perché so che devo farlo, ma se ci penso, se mi fermo e ci penso seriamente, io non ho sete.
Di solito bevo un casino. Perché fa bene, per il fitness, quelle menate lì, perché comunque l’acqua mi piace e tirarmi giù mezza bottiglia in un sorso è soddisfacente.
Qui zero.
Non sento la sete. Ce l’avevo sul picco, lo ricordo, ma a questo punto mi chiedo se non fosse solo un riflesso, un istinto.
Io non ho sete. E le altre neppure; ne abbiamo accennato ed è strano, troppo strano. Però abbiamo pensato che se beviamo poi pisciamo, quindi abbiamo bevuto le nostre bottigliette, le abbiamo anche finite, ma di stimoli neppure l’ombra. Di sete neppure.
Punto secondo: abbiamo lavorato come negre su e giù per il pendio, piantando legni e affilando punte, sotto il sole, siamo sudate marce, dovremmo puzzare come carogne. Invece niente. Non sento un singolo odore fuori posto, non un accenno. Neanche le altre.
Ho pensato: non mi funziona l’olfatto, ho perso sensibilità, ma per niente, perché l’odore dell’erba, dei fiori, lo sento. Sento persino quello della salsedine portata dalla brezza, sento l’odore della terra se la tiro su nel palmo. Il nostro lezzo dopo una sudata di otto ore no.
Spiegazioni? Nessuna plausibile.
Per carità: comodo. Anche nella vita di là del mare, anzi soprattutto nella vita di là del mare, sudi come una scrofa ad agosto e non fai tanto così d’odore. Ci metterei la firma. Perché qui succeda è un fottuto mistero, anche se un senso ce l’avrà, come il non bere, il non pisciare, il non avere neanche fame.
Dopo otto ore non abbiamo fame e non può essere solo merito delle barrette che abbiamo consumato a pranzo.
“La teca.” Sigrid si passa una mano tra i capelli madidi, il berretto agitato lentamente come un ventaglio. “Secondo me c’entra la teca.”
La teca.
Ricordo la teca. È l’ultima cosa che fai prima della partenza: un’ora immersa lì dentro, una vasca verticale, azzurra da far male agli occhi; un’ora che serve a purificare l’organismo, adattare il pH della pelle alla particolare aria di Illumina, e così i bioritmi per evitare le difficoltà d’ambientamento.
Mai sentito niente del genere prima, neanche per sbaglio, quindi le possibilità sono due: ci prendono per il culo oppure la permanenza nella teca serve davvero a qualcosa.
Qualcosa che non capiamo del tutto.
A toglierti l’odore della pelle, non farti più pisciare né mangiare né bere?
Mai sentita una cosa del genere.
Mai.
“Forse è davvero la teca.”
“Ma a cosa servirebbe?” Mi scruta.
“Magari per dare un aiuto. Guardaci adesso: acqua finita, dove la prendiamo? La andiamo a cercare, una bestia ci trova, siamo morte. Show finito. Vale la pena? No che non ne vale la pena. Magari è per dare un aiuto.”
“Sì, ma immergerti in una vasca può fare questo? Può inibirti fame e sete e ciclo digestivo come se niente fosse? Se avremo dei danni permanenti?”
Rido. “Ti preoccupi di che? Se una di quelle cose ti stacca un braccio,” istantanee dell’Erinni massacrata da Panzer-2, “Sai che te ne fai dei danni permanenti?”
Silenzio riflessivo.
Ho odiato la teca.
Ci devi passare un’ora, un’ora sola, ma sembra durare all’infinito. Poi l’effetto: da fuori è solo una vasca d’acciaio verticale, larga, ampia, per niente claustrofobica. Da dentro è tutt’altro.
Da dentro la prospettiva cambia, cambia del tutto. È come se non ci fossero più le pareti, come finire immersi nel mare aperto. Ti mettono un respiratore sul volto, un misuratore di pressione, ti dicono Porta pazienza, è solo un’ora, senza tutto questo in Illumina non faresti cento metri.
Porta pazienza.
Solo un’ora.
Forse sono le luci, gli strani riflessi, forse è l’azzurro intenso: ti viene da stare male. Pochi minuti e stai male. Dicono che a qualcuna causa claustrofobia e a qualcuna agorafobia, anche se non ne soffri. Dicono che puoi vedere cose, tipo allucinazioni, cose che non esistono, o puoi non vedere niente: dipende da come il cervello reagisce, dalla resistenza di ognuna.
Ti consigliano di chiudere gli occhi, magari dormire.
Dormire, sognare.
Se chiudi gli occhi è più facile, pian piano ti ambienti. È solo un’ora ma sembra non finire mai.
Ho odiato la teca.
È stato un sollievo uscirne.
“Voi,” azzardo per dare un senso a quell’ozio stanco, “Avete visto qualcosa nella teca?”
Sigrid piega le labbra, scuote la testa. “Niente. Né all’inizio né alla fine, e ho dormito nel mezzo.”
“Anche io. Dormito, sì, o così mi ricordo. Nausea?”
“Un po’. Poi è passata.”
La nausea col respiratore sul muso, immersa in acqua, è propellente per la paura. Pensi: ora vomito, ostruisco il tubo dell’ossigeno, soffoco. Crepo. Soffoco. Vomito.
Ti agiti.
Il cuore batte al doppio della velocità.
Ti dicono di stare calma, che è tutto a posto, te lo dicono in cuffia, nell’auricolare. Puoi ascoltare la musica, se vuoi. Non l’ho voluta. Volevo dormire, volevo uscire veloce. La musica avrebbe scandito il tempo, canzone dopo canzone, mi avrebbe fatta impazzire nell’attesa. La musica non mi ha mai rilassata.
C’era la musica quando è scoppiata l’autobomba a Herat ovest, checkpoint Cobalto, 12 marzo. Ero lì. A pochi metri, sul blindato.
Erase And Rewind dei Cardigans.
Non ho più ascoltato musica in pattuglia. Non ho più ascoltato Erase And Rewind. Mai più.
“E tu?” Osservo Radiosa che non ricambia lo sguardo, “Visto niente nella teca?”
Fissa il nulla con sguardo assente.
Una goccia di sudore le scivola lungo la gota.
“Ehi.”
Fissa il nulla e la vena del collo pulsa più forte.
“Lu.”
Si alza di scatto, senza guardarci: si allontana a passo nervoso, svanisce dietro il profilo della torre; Sigrid mi guarda stranita, vorrei saperle dire qualcosa di sensato. È una che ha sofferto, la suora, problemi personali, vita difficile, niente affetti, diciassette anni in convento: la verità è che non ne ho idea, non la conosco. Non so nulla di lei.
So che dorme raccolta come chi è in credito con la vita.
Avrà visto qualcosa, nella fottuta teca. Qualcosa di suo e solo suo.
Non era sudore la goccia sulla guancia.
Il giorno volge al termine.
Stelle.
Spruzzate come a pennello, inondano la volta celeste con la violenza e la maestà dei luoghi lontani dalla civiltà, dagli esseri umani. Il cielo notturno di Illumina è quello delle grandi occasioni, ed è come lo vedessi per la prima volta, dal tetto mancante della torre.
Sa di libertà come di cose troppo grandi, di altre storie, scelte diverse.
Alternative.
In ventotto anni ho fatto una miriade di scelte e immaginato svariati percorsi alternativi se non le avessi fatte: sembrano tutte guardarmi da lassù, come quelle stelle. Parto, non parto, basta missioni, ancora una, volontaria, non volontaria, premo il grilletto, non premo.
L’ho premuto.
Un solo colpo, dritto in testa.
È cambiato tutto, la mia vita intera.
Tutto.
“Sta ancora là?” Sigrid ammicca verso il terrazzo di sorveglianza; non posso che annuire osservando la silhouette di Lucilla stagliata contro le stelle, distante e lontana, persa dietro qualsiasi cosa l’abbia turbata senza ritorno.
“Boh, io me ne vado a letto,” conclude lei con un’alzata di spalle, “Se domani vuoi veramente andare fino a quel posto delle Erinni, sarà meglio che ti riposi pure tu.”
“Mo’ arrivo,” chiudo distratta; Sigrid raccoglie il fucile e si avvia al sotterraneo. Continuo a pensare che con noi c’entri poco, come un corpo estraneo, una forma tonda in un mondo quadrato. Se ho provato una qualsiasi minima empatia verso la suora è solo perché siamo le uniche ad aver patito qualcosa, a non essere qui per gioco, per noia, per divertimento. Vorrei fottermene di lei e delle sue cose, non mi riguardano, ma non riesco a non pensare che qui, forse più che altrove, voltarsi le spalle è controproducente. È inutile, perché solo assieme si sopravvive.
C’è il rovescio della medaglia. Se ti affezioni a qualcuna e poi la perdi?
Non ho mai avuto grandi amiche, qualche amico uomo sì; gli uomini danno più valore all’amicizia rispetto alle donne, forse per questo mi ci sono sempre trovata meglio. Poi capisci che in realtà l’intento è quasi sempre il sesso, allora lasci correre e tutto svanisce, ma senza traumi, senza battaglie, senza tragedie.
Le donne fanno di tutto una tragedia.
Io le ho sempre fatte. Per tutto.
Ho avuto buoni amici uomini, soprattutto nell’esercito, amiche donne mai. Mai avute. Se mai avessi un’amica qui, in Illumina, che senso avrebbe? La vedrei morire, divorata, torturata, e a quel punto?
Il vuoto che lascia qualcuno cui tieni è sempre maggiore di tutto quello che ti ha dato nel tempo, sempre; vale per gli animali e per le persone, posto che un uomo o una donna possano mai darti tanto quanto un cane o un gatto.
Non c’è paragone.
Non ce n’è.
Raccolgo un sassolino, prendo la mira, lo scaglio verso di lei sul balconcino della torre. Sento il rimbalzo sulla pietra, la guardo voltarsi intorno sorpresa.
“Hai finito di fare l’asociale?” Lei mi fissa, nel buio, poi torna a guardare verso la costa; la brezza notturna deve giocarle con la folta chioma in un modo cui l’oscurità non rende giustizia.
“Eddai, Lu, che palle, son due ore ormai che stai lassù.”
“Tra poco scendo.”
Non lo dovrei dire, non lo dico mai, perché se ti prendi la briga di ascoltare qualcuno poi i suoi cazzi diventano tuoi cazzi, ed è una cosa che non sopporto. Ho già i miei.
“Se,” non dovrei dirlo, è sbagliato, è stupido, poi è da cretine, Dio Santo, “Se me ne vuoi parlare…”
Lucilla si volta di nuovo, mi guarda con un’espressione stranita che il buio cela quasi del tutto. “No.”
“Meglio,” sospiro liberatorio, pericolo scampato, “Muoviti a scendere.”
“Sto ancora qualche minuto.”
“Se tardi ti vengo a far scendere a calci. Che domani dobbiamo camminare. Adiòs.”
Faccio per agguantare lo zainetto: un suono sta interrompendo il silenzio, forse già da alcuni secondi, senza che me ne fossi accorta. Proviene dallo zaino di lei.
Apro, ne tolgo lo smartphone, il display s’illumina nel buio.
Chiamata, senza un nome, un nickname da rubrica di quelli stupidi. Niente. Non sono una fan dei telefoni: una voce che può essere ovunque, anche fuori dalla tua vita, è troppo diversa dall’avere qualcuno di fronte a te, in carne e ossa. Non c’è paragone.
Un brivido mi scorre lungo la schiena.
“Pronto.”
“Lieto di sentirti, Mercury.”
L’istinto fa pensare al Master ma la voce è diversa, più stridula, con una nota d’allegria sinistra che l’altra non aveva.
“Con chi parlo?”
“Puoi chiamarmi Gallo Cedrone, in via non ufficiale chiaramente.”
Occhieggio intorno, a cercare la telecamera che sicuramente mi sta puntando, invano; Lucilla deve aver gettato uno sguardo di sotto e poi essersi di nuovo disinteressata.
“Non sei lo stesso dell’altra volta, no?”
“No, io sono più simpatico. E più generoso.”
“Che succede, quindi?”
“Come sei rilassata: ti piace la torre? Ti trovi bene?”
Inspiro sordo. “Puoi andare al punto?”
“Volentieri. Vedi, cara, qui le voci sono due: il Master è lo sbirro cattivo, il Gallo Cedrone è quello buono, capisci? Se chiama il Master di solito sono cose serie, se chiama il Gallo Cedrone invece è tutto rose e fiori. Avrei bisogno di una cosa da te: dovresti mettere un piccolo spinotto nel telefonino, non questo, l’altro, quello che hai trovato nell’albero cavo.”
Rifletto. “Perché?”
“Ah, andiamo, ti intendi di elettronica?”
“Non molto.”
“Vedi? Per questo non devi fare domande e limitarti a seguire le istruzioni. È difettoso e vogliamo metterlo a posto, da remoto.”
Il tono di questo tizio è viscido. Detesto le persone viscide.
“Funziona benissimo. Ciao.”
Chiudo la telefonata con un gesto palese. Se conosco tanto così gli uomini che si credono importanti il telefono vibrerà di nuovo in tre, due, uno…
Vibra.
Sorrido.
“Pronto.”
“Siamo partiti col piedino sbagliato, cara, sì?”
Piedino.
Fastidio.
“Mi hai chiesto una cosa, io ti ho risposto: finisce lì.”
“Non hai capito, ragazza: io chiedo, voi eseguite, e se eseguite bene io vi premio. Facile, no?”
“Senti, Gallo Cedrone o come ti chiami, mentre voi stronzi state al sicuro nei vostri uffici a guardarci, noi qui rischiamo la vita, e di brutto. Quindi non rompermi le palle con queste cagate e vedi di farci avere delle armi, magari, se volete che togliamo di torno le Erinni. Facile, no?”
“Oh, armi non ve ne posso certo dare, vanno meritate, guadagnate, come nella vita. Chi ti regala niente? Però mi serve che tu faccia quel che ti ho chiesto, tanto per incominciare, poi si vedrà.”
“Il telefono funziona perfettamente, grazie del pensiero.”
“Non provarci, zuccherino. Ti arriverà lo spinotto domattina: inseriscilo nella presa di carica e il tuo dovere è finito.”
Zuccherino.
Fastidio.
“Cos’ha di speciale quel telefono?”
“Nulla che ti riguardi.”
“Adesso me lo dici o quello spinotto sai dove puoi mettertelo.”
Ride, una risata sguaiata, giuliva. Contagiosa, per certi versi. Già lo odio.
“Vogliamo solo controllarlo bene, che non ci siano contenuti… strani.”
“I video? È per quello?”
“Qualsiasi cosa.”
Connetto l’implicito. “Ci guardate anche dentro la stanza sotto la torre, sì?”
“Tesoro, non esiste un singolo punto di tutte le isole dove non possiamo vedervi. Magari il pubblico no, ma noi possiamo vedervi in qualunque istante, dovunque. Non pensare di fare le cose senza che ne veniamo a conoscenza. È il nostro show questo.”
“Non avevo dubbi. L’avete pensato proprio bene il fottuto reality, complimenti.”
Emette un verso canzonatorio. “Ma proprio per questo hai da guadagnarci, Mercury. Tu piaci, hai carattere, la gente ti detesta però assieme ti ammira: fai audience. Potresti essere un buon personaggio di questa storia se durerai abbastanza. E io posso darti una mano.”
“In che modo?”
“Diciamo che in certe situazioni, se si mette male, posso dire una parolina magica. Come a scuola, sei andata a scuola persino tu, no? Professore buono, professore cattivo. Io sono il professore buono che ti lascia l’aiutino sotto il banco e tu sei la ragazzina figa che non studia un cazzo ma prende i bei voti. Ho reso l’idea?”
Increspo le labbra, sopprimo lo schifo. Se davvero può esserci d’aiuto conviene tenerselo buono, almeno per un po’.
“Devo solo mettere uno spinotto nel telefono?”
“Solo quello, soldatina. Per ora.”
Sorrido, la voce un tono più melliflua. “E dov’è il mio aiutino?”
“Come sei veniale. Ti ho mandato delle scarpe da ginnastica molto chic e un completo militare adatto a te, non ti bastano?”
“Ah, tu hai mandato questa roba?! Beh, complimenti! Grande scelta, davvero! Il completino da troia camouflage è davvero un tocco di fino, soprattutto è un vantaggio tattico che le Erinni si sognano, giusto?!”
Ride.
Deve essere qualcosa di simile a un nerd, un bambinone, quella categoria di uomini che mi ripugna un po’ più delle altre.
Voglia di lanciare il telefono contro la parete.
“Sto per chiudere la chiamata.”
“Andiamo, Mercury, quella roba ti sta d’incanto, ma se proprio non ti piace possiamo valutare qualcosa di più… adeguato.”
“Ecco, bravo, valuta e mandami qualcosa di decente.”
“Un poco alla volta, tesoro. Tu comincia a mettere quello spinotto nel telefonino che hai trovato, e io farò un giro nella nostra boutique a vedere se trovo un paio di stivali per i tuoi graziosi piedini.”
Piedini.
Feticismo.
Ansia.
Idrofobia.
Non sprecare tutto con una sfuriata. Sopporta. Non è niente, solo perversione maschile.
Respiro profondo.
“Un paio di stivali sarebbero perfetti, sì.”
“Tu aiuti me, io aiuto te.”
“Okay.”
“Abbiamo un accordo?”
“Ho detto okay.”
“Magnifico. Domattina avrai lo spinotto. Gli stivali più avanti.”
“Spero non troppo.”
“Più cose farai per meritarteli, prima arriveranno.”
Fottiti. Non lo dico.
“Buona notte, ragazza. Sei tra le mie preferite.”
“Scoppio di gioia.”
Chiude la telefonata.
Non so decidere se lo show è stato pensato e fatto da maniaci per il proprio divertimento o se essere al timone di uno show come questo ti rende inevitabilmente un maniaco.
“Tutto a posto?” Lucilla scende lentamente i gradini di pietra, guardandomi stranita nel buio, “Chi era?”
“Qualche cazzone della produzione. Io tutto a posto, ma tu?”
Esita, evade il mio sguardo. “Sto bene. Ci ritiriamo?”
Annuisco, le rendo il telefono che lei rimette nello zaino; ha un qualcosa di diverso negli occhi, nel viso, un velo di mestizia che non se n’è andato da due ore a questa parte.
“Sicura che è tutto a posto?”
“Non volevo ripensare alla teca, me l’avete ricordato. Passerà.”
“Si può sapere cosa…” Ma non voglio saperlo, faccio un gesto come a lasciar cadere tutto, scordare la questione, lei sembra apprezzare. La mia ultima occhiata è per il mare oscuro tra gli archi, i riflessi delle stelle sull’acqua placida.
Ci avviamo alla camera notturna con quel senso d’inquietudine e speranza che solo certi posti lontani possono suscitare.
Un sussulto, un respiro profondo.
Sono sveglia.
Riconosco la stanza sotterranea, la luce fioca dei fari tenuti al minimo.
Riconosco Lucilla in piedi. Ha un mezzo sorriso nel guardarmi dall’alto in basso, come un oggetto anomalo, alieno.
Fastidio.
“Cosa guardi?” Mugugno girandomi su un fianco per non mandarla al diavolo.
“Niente, sei strana quando dormi.”
Sono strana quando dormo.
Bene così.
“Riposato?”
“Ma che te ne frega?”
Dev’essere mattina; non che si noti nel sotterraneo. Speranze di essere di colpo a casa, nel mio letto: nessuna.
Lei raccoglie qualcosa da accanto a me, lo osserva, “Riuscita ad accedere alle cartelle?”
Il telefono.
I video.
Ricordi della notte mi saltano addosso tutti assieme, d’improvviso, in un affondo di pura adrenalina.
Exilles.
“Sì,” mi volto di scatto, balzo a sedere sulla pietra dura, “Ho visto dei video, stanotte. Roba tosta. Dev’essere stata una delle prime Ondate.” Sbadiglio da leonessa, mai stata fine in queste cose. “È venuta qui per penitenza.”
“Ah.” Si rigira lo smartphone nelle mani curate. “E come hai trovato la password corretta?”
“Non c’era nessuna password.”
Ticchetta un po’ di volte, alza le sopracciglia, mi mostra lo schermo e la richiesta di una password d’accesso alle cartelle.
“Ma se sei impedita,” le strappo l’apparecchio di mano, esco da tutto, rientro, pesco la prima cartella, faccio che premere il primo video ma a quel tocco non ci arrivo mai: tutto si blocca prima dell’accesso e compare la richiesta d’inserire la parola d’ordine.
Lucilla gongola con discrezione.
“No, vabbé, questa merda non funziona.”
Riprovo, stessa scena.
Password necessaria.
“Stanotte non me l’ha chiesta, non me l’ha chiesta,” insisto infastidita dal suo sorrisetto, “Sennò come avrei fatto a vederli?!”
Riprovo, stessa scena.
Password.
Butto il telefono sull’asciugamano che è stato il mio cuscino in un gesto stizzito.
“Magari non vuoi dirmelo,” chiosa lei, “Oppure i video li hai sognati.”
“Sì, certo. Fatti furba, d’accordo?”
Mi alzo, mi stiro. Infilo le scarpe.
Ascolto in silenzio le sensazioni e gli stimoli del corpo alla ricerca di quello che più manca: invano.
“Neanche io,” Lucilla si scosta indovinando il pensiero, “Niente, nulla, neanche mezzo bisogno.”
Vero. Sempre più strano.
Spero di non stare morendo, sarebbe ridicolo; crepata per mancanza di bisogni fisiologici: fine ingloriosa. Più di masticata da un sauro gigante? Meno?
La porta del rifugio si apre, un chiarore da mattino isolano bagna la stanza; la figura di Sigrid si disegna controluce, fucile in spalla, berretto all’incontrario. Ammicca con un movimento di quelle sue labbra perfettamente ovali, penso genuine. “Venite a vedere?”
Vuoi dirle di no? Con un sole così, un nuovo giorno in Illumina?
Usciamo nel mattino, la seguiamo intorno alla torre e poi dentro, fino ai gradini che portano al terrazzo. L’aria è tiepida e una brezza di mare spira da destra, scompiglia i capelli, odora di salsedine e lavanda. Per un attimo è di nuovo meraviglia, sole, natura, è migliaia di chilometri dalla mia vita di prima e tutti i suoi fottuti problemi.
Lei indica qualcosa, verso nord, in lontananza, la direzione dalla quale siamo arrivate, il resto dell’isola.
Faccio ombra con una mano per vedere meglio.
Fumo.
Un sottile pennacchio di fumo si alza da qualche parte nella foresta, parecchio lontano, e sale in lente volute verso il cielo terso.
Speravo in qualcosa di più poetico: bestie preistoriche al pascolo, alba sfavillante, miraggi.
“Non è un incendio,” commento atona, “Direi un falò, qualcosa di circoscritto. È distante, non mi preoccuperei.”
“Se si stanno avvicinando?”
Scuoto la testa. “Non ha senso: perché rendersi così visibili? No, quel fuoco ha un altro significato. Magari non è niente.”
“Magari.”
Occhieggio intorno tentando di non pensare che ci stanno cercando. Sorrido. “Guardate là.”
A sinistra, verso il mare che si vede in lontananza, piccole creature volanti sfrecciano in alto e in basso; hanno il volo zigzagante dei pipistrelli anche se battono le ali con meno frequenza.
Sempre avuto un certo mix di fascino e repulsione per i pipistrelli; li guardi passare, al crepuscolo, senza un suono, pensando siano dei passeri tardivi. Poi capisci, ci ripensi: i passeri si lasciano guardare, appoggiati sui cornicioni, sui rami, nei parchi; sono carini, tondeggianti, sembrano ampolle. I pipistrelli no, quelli non si lasciano guardare; chi l’ha mai visto un pipistrello poggiato da qualche parte? Ho pensato per anni che neanche esistessero, poi me l’hanno spiegato: hai presente quelle cose che passano al crepuscolo zigzagando e che sembrano passeri tardivi? Pipistrelli.
Li vedi solo così, i pipistrelli: zigzagare nel buio incipiente, senza un suono, e sparire in un attimo.
Fascino e repulsione.
Amo gli animali, anche quelli schifosi. Più delle persone, sì, e non ci vuole molto.
“Pterodattili,” Sigrid la cacciatrice occhieggia a sua volta; saranno una trentina, sparsi lungo la linea del litorale, salgono e scendono seguendo le correnti che vengono dal mare. Forse cercano da mangiare, forse danzano. Mi piace l’idea che danzino.
“Va bene,” spezzo il momento, “Abbiamo da fare. Usiamo la giornata per rendere più sicuro questo posto. Se verranno a cercarci, dobbiamo essere pronte a tutto. Qui sotto tra cinque minuti che vi spiego cosa facciamo.”
Non attendo assensi che comunque non arrivano.
“Ma tu,” Lucilla abbassa il tono, imbarazzata, rivolgendosi ad Artemis mentre m’avvio alla scala, “Tu hai fatto pipì da quando siamo qui?”
La intuisco esitare, pensarci, fare segno di no con aria grave.
“Certo che è assurdo però.”
Assurdo.
Una spiegazione c’è di sicuro.
Tutto assurdo.
Illumina.
***
Quando entrò in ufficio, quella mattina, Max Tambori non fu sorpreso di trovare Gioele davanti allo schermo, lo sguardo fisso avanti. Aveva letto qualcosa sulla chat operativa, video strani, un nuovo mezzo mistero tra i tanti dell’arcipelago.
Lui sembrava fissare qualcosa sul monitor con più attenzione del solito, il collo proteso avanti e gli occhi resi ancora più larghi e dilatati dalla curvatura delle lenti. Max s’appoggiò allo stipite della porta, attendendo paziente d’essere notato; quando Gioele saettò lo sguardo sopra il riquadro dello schermo emise un grugnito intraducibile e si rituffò nella sua oscura contemplazione.
“Qualche altro miracolo della croce?” civettò sarcastico con un movimento rotatorio della mano. In risposta lui rialzò gli occhi sopra lo spigolo del monitor, attese un lungo istante poi gli fece segno d’avvicinarsi in quel suo modo nervoso, teso. Non aveva neppure il basco sul capo, notò, come solo nei momenti di massima trance agonistica.
Max caracollò avanti e andò a fermarglisi accanto, una mano poggiata sulla scrivania; sul costoso monitor c’era l’inquadratura in night vision di una di loro, stesa da qualche parte al buio, con un telefono incollato al viso; solo qualche leggero movimento delle mani o delle gambe lasciava intuire che non fosse un fermo immagine.
“Che è sta roba?”
“Mercury,” scandì lui con l’intonazione di un serpente a sonagli, i piccoli occhi fissi sulla registrazione.
“Ah, lei,” Max ridacchiò lasciando scorrere lo sguardo tra gambe e culo della figura stesa sulla pietra: riusciva a mandargli in iperattività i sensi anche nella sfocata immagine verdastra del night vision. “E quindi?”
“Quindi sta guardando dei video, è andata avanti parecchio stanotte.”
“Che video?”
“Speravo me lo dicessi tu.”
Max sollevò le sopracciglia; si chinò di più a scrutare il minuscolo riquadro obliquo dello smartphone tra le mani di lei senza distinguere nulla più che forme vaghe. “Ma con tutto quello che c’è da guardare di ‘sta donna, tu pensi ai video?”
“Sai che ha preso un telefono nell’albero della Masca, sì?”
Silenzio vago. “Sì, sì, lo so.”
“Io subito non ci ho dato molta importanza, ma a quanto pare contiene dei video. Ed è roba strana, io non capisco, proprio non capisco.”
“Ma fallo copiare, no? È uno dei nostri telefoni, te lo fai agganciare, copiamo la memoria e vediamo che video sono.”
“Ma non è dei nostri. Non è dei nostri, capisci?” Ebbe un gesto stizzito della mano, nevrotico. “Quel telefonino lì non è dei nostri. Hanno portato sull’isola un telefono che non è dei nostri.”
Silenzio. Max sbatté più volte le palpebre. “Ma questo non è mica possibile.”
“Lo dici a me? A me lo dici? Eppure lo sanno, dico io, che non si può portare niente in Illumina che non sia fornito da noi, giusto? Lo sanno. Se gli diamo un telefono nostro e diciamo che possono portare solo quello, perché mai io mi ritrovo una concorrente con in mano uno smartphone, appartenuto ad un’altra concorrente, che non è dei nostri?”
“Ma…”
“Sai cosa vuol dire questo, Max? Che giù al Controllo non sanno fare il loro lavoro, questo vuol dire! Perché io insisto che queste donne vanno perquisite e scansionate dopo il briefing finale e non prima? Perché una di costoro è riuscita a portarsi un telefono non autorizzato. Perché non l’hanno perquisita prima di salire sull’elicottero, ecco perché. E adesso abbiamo un telefono non registrato in circolazione sulle isole. Un telefono sul quale ci sono dei video che non abbiamo monitorato. E una stramaledetta concorrente li sta visionando senza che noi sappiamo di cosa si tratti!”
Prese una biro dal portapenne e la scagliò sulla scrivania in un gesto inconsulto; appoggiò il mento su una mano, affondando fino al naso, e lì rimase a respirarsi tra le dita, gli occhi sgranati e fissi al nulla.
“Su, su, non drammatizziamo,” Max tirò sul col naso tornando eretto, “Vuoi quei video? Ti procuro quei video.”
“In che modo li procuri quei video se il telefono non è nel nostro circuito?”
“Come eravamo d’accordo, Giò, all’inizio della storia? Come? A te spettava la parte organizzativa, a me quella…?”
“Umana, sì.”
“Umana, esatto. Perché tu non sei il massimo nel rapporto umano, te lo dicono tutti, no? Ci sono molti modi per avere qualcosa. Vuoi quei video? Ti procuro quei video.”
“Io devo capire, Max, devo capire. Sembra che da quando abbiamo mandato laggiù l’Ondata 9 sia cambiato tutto, ci siano cose strane, strane, capisci?”
“Può succedere, stiamo gestendo una cosa enorme, ci distraiamo dietro a tutte queste fighe. Può succedere, siamo umani.”
Gioele non replicò, continuando a fissare Mercury che, nel video della registrazione, s’era messa su un fianco a guardare assorta il telefono e le immagini che vi scorrevano in sequenza.
***
La giornata è volata in fretta, ma per una sola ragione: speravamo durasse di più. Fortificare una posizione è qualcosa di vagamente divertente se hai un plotone che può farti il lavoro; se sei in tre stronze il risultato non può che essere mediocre e la giornata ti passa per forza senza aver combinato granché.
La priorità era la palizzata e la palizzata l’abbiamo fatta. Per carità: palizzata è una cosa seria, i nostri sono tronchi e tronchetti messi in obliquo e appuntiti alla buona, tipo muro di lance, infilati nel terreno ad alcuni metri dalla torre, chiudendo tutto il già esiguo passaggio che sale dal basso.
Non è neanche un’opera d’ingegneria spiccia, è una merdata improvvisata. Qualunque cosa più grossa di una vacca la smonterebbe in tre secondi, ma l’obiettivo non è fermare le cose grosse: l’obiettivo è far sì che qualsiasi donna di Illumina trovi più complicato avvicinarsi. L’unica apertura, di mezzo metro, l’abbiamo lasciata a metà, nel punto che dal balconcino della torre si vede meglio.
Abbiamo sgobbato tutto il giorno, scendendo giù nella boscaglia a cercar legna, riportandola, affilando le punte, piantando tutto nel terreno. Una giornata per far questo, con poche pause, poco cibo, poca acqua e il sole addosso.
Dovremmo essere fiere di noi stesse.
Ce ne stiamo lì, sedute alla buona appena fuori dalla torre, a contemplare un lavoro che non sappiamo se e quanto reggerà, ma il punto è un altro; questa giornata mi ha fatto sorgere dubbi che si sommano a quelli che già esistevano.
Punto primo: abbiamo lavorato come negre su e giù per il pendio, piantando legni e affilando punte, sotto il sole, e io non ho sete. Niente. Bevo per riflesso, di tanto in tanto, perché so che devo farlo, ma se ci penso, se mi fermo e ci penso seriamente, io non ho sete.
Di solito bevo un casino. Perché fa bene, per il fitness, quelle menate lì, perché comunque l’acqua mi piace e tirarmi giù mezza bottiglia in un sorso è soddisfacente.
Qui zero.
Non sento la sete. Ce l’avevo sul picco, lo ricordo, ma a questo punto mi chiedo se non fosse solo un riflesso, un istinto.
Io non ho sete. E le altre neppure; ne abbiamo accennato ed è strano, troppo strano. Però abbiamo pensato che se beviamo poi pisciamo, quindi abbiamo bevuto le nostre bottigliette, le abbiamo anche finite, ma di stimoli neppure l’ombra. Di sete neppure.
Punto secondo: abbiamo lavorato come negre su e giù per il pendio, piantando legni e affilando punte, sotto il sole, siamo sudate marce, dovremmo puzzare come carogne. Invece niente. Non sento un singolo odore fuori posto, non un accenno. Neanche le altre.
Ho pensato: non mi funziona l’olfatto, ho perso sensibilità, ma per niente, perché l’odore dell’erba, dei fiori, lo sento. Sento persino quello della salsedine portata dalla brezza, sento l’odore della terra se la tiro su nel palmo. Il nostro lezzo dopo una sudata di otto ore no.
Spiegazioni? Nessuna plausibile.
Per carità: comodo. Anche nella vita di là del mare, anzi soprattutto nella vita di là del mare, sudi come una scrofa ad agosto e non fai tanto così d’odore. Ci metterei la firma. Perché qui succeda è un fottuto mistero, anche se un senso ce l’avrà, come il non bere, il non pisciare, il non avere neanche fame.
Dopo otto ore non abbiamo fame e non può essere solo merito delle barrette che abbiamo consumato a pranzo.
“La teca.” Sigrid si passa una mano tra i capelli madidi, il berretto agitato lentamente come un ventaglio. “Secondo me c’entra la teca.”
La teca.
Ricordo la teca. È l’ultima cosa che fai prima della partenza: un’ora immersa lì dentro, una vasca verticale, azzurra da far male agli occhi; un’ora che serve a purificare l’organismo, adattare il pH della pelle alla particolare aria di Illumina, e così i bioritmi per evitare le difficoltà d’ambientamento.
Mai sentito niente del genere prima, neanche per sbaglio, quindi le possibilità sono due: ci prendono per il culo oppure la permanenza nella teca serve davvero a qualcosa.
Qualcosa che non capiamo del tutto.
A toglierti l’odore della pelle, non farti più pisciare né mangiare né bere?
Mai sentita una cosa del genere.
Mai.
“Forse è davvero la teca.”
“Ma a cosa servirebbe?” Mi scruta.
“Magari per dare un aiuto. Guardaci adesso: acqua finita, dove la prendiamo? La andiamo a cercare, una bestia ci trova, siamo morte. Show finito. Vale la pena? No che non ne vale la pena. Magari è per dare un aiuto.”
“Sì, ma immergerti in una vasca può fare questo? Può inibirti fame e sete e ciclo digestivo come se niente fosse? Se avremo dei danni permanenti?”
Rido. “Ti preoccupi di che? Se una di quelle cose ti stacca un braccio,” istantanee dell’Erinni massacrata da Panzer-2, “Sai che te ne fai dei danni permanenti?”
Silenzio riflessivo.
Ho odiato la teca.
Ci devi passare un’ora, un’ora sola, ma sembra durare all’infinito. Poi l’effetto: da fuori è solo una vasca d’acciaio verticale, larga, ampia, per niente claustrofobica. Da dentro è tutt’altro.
Da dentro la prospettiva cambia, cambia del tutto. È come se non ci fossero più le pareti, come finire immersi nel mare aperto. Ti mettono un respiratore sul volto, un misuratore di pressione, ti dicono Porta pazienza, è solo un’ora, senza tutto questo in Illumina non faresti cento metri.
Porta pazienza.
Solo un’ora.
Forse sono le luci, gli strani riflessi, forse è l’azzurro intenso: ti viene da stare male. Pochi minuti e stai male. Dicono che a qualcuna causa claustrofobia e a qualcuna agorafobia, anche se non ne soffri. Dicono che puoi vedere cose, tipo allucinazioni, cose che non esistono, o puoi non vedere niente: dipende da come il cervello reagisce, dalla resistenza di ognuna.
Ti consigliano di chiudere gli occhi, magari dormire.
Dormire, sognare.
Se chiudi gli occhi è più facile, pian piano ti ambienti. È solo un’ora ma sembra non finire mai.
Ho odiato la teca.
È stato un sollievo uscirne.
“Voi,” azzardo per dare un senso a quell’ozio stanco, “Avete visto qualcosa nella teca?”
Sigrid piega le labbra, scuote la testa. “Niente. Né all’inizio né alla fine, e ho dormito nel mezzo.”
“Anche io. Dormito, sì, o così mi ricordo. Nausea?”
“Un po’. Poi è passata.”
La nausea col respiratore sul muso, immersa in acqua, è propellente per la paura. Pensi: ora vomito, ostruisco il tubo dell’ossigeno, soffoco. Crepo. Soffoco. Vomito.
Ti agiti.
Il cuore batte al doppio della velocità.
Ti dicono di stare calma, che è tutto a posto, te lo dicono in cuffia, nell’auricolare. Puoi ascoltare la musica, se vuoi. Non l’ho voluta. Volevo dormire, volevo uscire veloce. La musica avrebbe scandito il tempo, canzone dopo canzone, mi avrebbe fatta impazzire nell’attesa. La musica non mi ha mai rilassata.
C’era la musica quando è scoppiata l’autobomba a Herat ovest, checkpoint Cobalto, 12 marzo. Ero lì. A pochi metri, sul blindato.
Erase And Rewind dei Cardigans.
Non ho più ascoltato musica in pattuglia. Non ho più ascoltato Erase And Rewind. Mai più.
“E tu?” Osservo Radiosa che non ricambia lo sguardo, “Visto niente nella teca?”
Fissa il nulla con sguardo assente.
Una goccia di sudore le scivola lungo la gota.
“Ehi.”
Fissa il nulla e la vena del collo pulsa più forte.
“Lu.”
Si alza di scatto, senza guardarci: si allontana a passo nervoso, svanisce dietro il profilo della torre; Sigrid mi guarda stranita, vorrei saperle dire qualcosa di sensato. È una che ha sofferto, la suora, problemi personali, vita difficile, niente affetti, diciassette anni in convento: la verità è che non ne ho idea, non la conosco. Non so nulla di lei.
So che dorme raccolta come chi è in credito con la vita.
Avrà visto qualcosa, nella fottuta teca. Qualcosa di suo e solo suo.
Non era sudore la goccia sulla guancia.
Il giorno volge al termine.
***
Stelle.
Spruzzate come a pennello, inondano la volta celeste con la violenza e la maestà dei luoghi lontani dalla civiltà, dagli esseri umani. Il cielo notturno di Illumina è quello delle grandi occasioni, ed è come lo vedessi per la prima volta, dal tetto mancante della torre.
Sa di libertà come di cose troppo grandi, di altre storie, scelte diverse.
Alternative.
In ventotto anni ho fatto una miriade di scelte e immaginato svariati percorsi alternativi se non le avessi fatte: sembrano tutte guardarmi da lassù, come quelle stelle. Parto, non parto, basta missioni, ancora una, volontaria, non volontaria, premo il grilletto, non premo.
L’ho premuto.
Un solo colpo, dritto in testa.
È cambiato tutto, la mia vita intera.
Tutto.
“Sta ancora là?” Sigrid ammicca verso il terrazzo di sorveglianza; non posso che annuire osservando la silhouette di Lucilla stagliata contro le stelle, distante e lontana, persa dietro qualsiasi cosa l’abbia turbata senza ritorno.
“Boh, io me ne vado a letto,” conclude lei con un’alzata di spalle, “Se domani vuoi veramente andare fino a quel posto delle Erinni, sarà meglio che ti riposi pure tu.”
“Mo’ arrivo,” chiudo distratta; Sigrid raccoglie il fucile e si avvia al sotterraneo. Continuo a pensare che con noi c’entri poco, come un corpo estraneo, una forma tonda in un mondo quadrato. Se ho provato una qualsiasi minima empatia verso la suora è solo perché siamo le uniche ad aver patito qualcosa, a non essere qui per gioco, per noia, per divertimento. Vorrei fottermene di lei e delle sue cose, non mi riguardano, ma non riesco a non pensare che qui, forse più che altrove, voltarsi le spalle è controproducente. È inutile, perché solo assieme si sopravvive.
C’è il rovescio della medaglia. Se ti affezioni a qualcuna e poi la perdi?
Non ho mai avuto grandi amiche, qualche amico uomo sì; gli uomini danno più valore all’amicizia rispetto alle donne, forse per questo mi ci sono sempre trovata meglio. Poi capisci che in realtà l’intento è quasi sempre il sesso, allora lasci correre e tutto svanisce, ma senza traumi, senza battaglie, senza tragedie.
Le donne fanno di tutto una tragedia.
Io le ho sempre fatte. Per tutto.
Ho avuto buoni amici uomini, soprattutto nell’esercito, amiche donne mai. Mai avute. Se mai avessi un’amica qui, in Illumina, che senso avrebbe? La vedrei morire, divorata, torturata, e a quel punto?
Il vuoto che lascia qualcuno cui tieni è sempre maggiore di tutto quello che ti ha dato nel tempo, sempre; vale per gli animali e per le persone, posto che un uomo o una donna possano mai darti tanto quanto un cane o un gatto.
Non c’è paragone.
Non ce n’è.
Raccolgo un sassolino, prendo la mira, lo scaglio verso di lei sul balconcino della torre. Sento il rimbalzo sulla pietra, la guardo voltarsi intorno sorpresa.
“Hai finito di fare l’asociale?” Lei mi fissa, nel buio, poi torna a guardare verso la costa; la brezza notturna deve giocarle con la folta chioma in un modo cui l’oscurità non rende giustizia.
“Eddai, Lu, che palle, son due ore ormai che stai lassù.”
“Tra poco scendo.”
Non lo dovrei dire, non lo dico mai, perché se ti prendi la briga di ascoltare qualcuno poi i suoi cazzi diventano tuoi cazzi, ed è una cosa che non sopporto. Ho già i miei.
“Se,” non dovrei dirlo, è sbagliato, è stupido, poi è da cretine, Dio Santo, “Se me ne vuoi parlare…”
Lucilla si volta di nuovo, mi guarda con un’espressione stranita che il buio cela quasi del tutto. “No.”
“Meglio,” sospiro liberatorio, pericolo scampato, “Muoviti a scendere.”
“Sto ancora qualche minuto.”
“Se tardi ti vengo a far scendere a calci. Che domani dobbiamo camminare. Adiòs.”
Faccio per agguantare lo zainetto: un suono sta interrompendo il silenzio, forse già da alcuni secondi, senza che me ne fossi accorta. Proviene dallo zaino di lei.
Apro, ne tolgo lo smartphone, il display s’illumina nel buio.
Chiamata, senza un nome, un nickname da rubrica di quelli stupidi. Niente. Non sono una fan dei telefoni: una voce che può essere ovunque, anche fuori dalla tua vita, è troppo diversa dall’avere qualcuno di fronte a te, in carne e ossa. Non c’è paragone.
Un brivido mi scorre lungo la schiena.
“Pronto.”
“Lieto di sentirti, Mercury.”
L’istinto fa pensare al Master ma la voce è diversa, più stridula, con una nota d’allegria sinistra che l’altra non aveva.
“Con chi parlo?”
“Puoi chiamarmi Gallo Cedrone, in via non ufficiale chiaramente.”
Occhieggio intorno, a cercare la telecamera che sicuramente mi sta puntando, invano; Lucilla deve aver gettato uno sguardo di sotto e poi essersi di nuovo disinteressata.
“Non sei lo stesso dell’altra volta, no?”
“No, io sono più simpatico. E più generoso.”
“Che succede, quindi?”
“Come sei rilassata: ti piace la torre? Ti trovi bene?”
Inspiro sordo. “Puoi andare al punto?”
“Volentieri. Vedi, cara, qui le voci sono due: il Master è lo sbirro cattivo, il Gallo Cedrone è quello buono, capisci? Se chiama il Master di solito sono cose serie, se chiama il Gallo Cedrone invece è tutto rose e fiori. Avrei bisogno di una cosa da te: dovresti mettere un piccolo spinotto nel telefonino, non questo, l’altro, quello che hai trovato nell’albero cavo.”
Rifletto. “Perché?”
“Ah, andiamo, ti intendi di elettronica?”
“Non molto.”
“Vedi? Per questo non devi fare domande e limitarti a seguire le istruzioni. È difettoso e vogliamo metterlo a posto, da remoto.”
Il tono di questo tizio è viscido. Detesto le persone viscide.
“Funziona benissimo. Ciao.”
Chiudo la telefonata con un gesto palese. Se conosco tanto così gli uomini che si credono importanti il telefono vibrerà di nuovo in tre, due, uno…
Vibra.
Sorrido.
“Pronto.”
“Siamo partiti col piedino sbagliato, cara, sì?”
Piedino.
Fastidio.
“Mi hai chiesto una cosa, io ti ho risposto: finisce lì.”
“Non hai capito, ragazza: io chiedo, voi eseguite, e se eseguite bene io vi premio. Facile, no?”
“Senti, Gallo Cedrone o come ti chiami, mentre voi stronzi state al sicuro nei vostri uffici a guardarci, noi qui rischiamo la vita, e di brutto. Quindi non rompermi le palle con queste cagate e vedi di farci avere delle armi, magari, se volete che togliamo di torno le Erinni. Facile, no?”
“Oh, armi non ve ne posso certo dare, vanno meritate, guadagnate, come nella vita. Chi ti regala niente? Però mi serve che tu faccia quel che ti ho chiesto, tanto per incominciare, poi si vedrà.”
“Il telefono funziona perfettamente, grazie del pensiero.”
“Non provarci, zuccherino. Ti arriverà lo spinotto domattina: inseriscilo nella presa di carica e il tuo dovere è finito.”
Zuccherino.
Fastidio.
“Cos’ha di speciale quel telefono?”
“Nulla che ti riguardi.”
“Adesso me lo dici o quello spinotto sai dove puoi mettertelo.”
Ride, una risata sguaiata, giuliva. Contagiosa, per certi versi. Già lo odio.
“Vogliamo solo controllarlo bene, che non ci siano contenuti… strani.”
“I video? È per quello?”
“Qualsiasi cosa.”
Connetto l’implicito. “Ci guardate anche dentro la stanza sotto la torre, sì?”
“Tesoro, non esiste un singolo punto di tutte le isole dove non possiamo vedervi. Magari il pubblico no, ma noi possiamo vedervi in qualunque istante, dovunque. Non pensare di fare le cose senza che ne veniamo a conoscenza. È il nostro show questo.”
“Non avevo dubbi. L’avete pensato proprio bene il fottuto reality, complimenti.”
Emette un verso canzonatorio. “Ma proprio per questo hai da guadagnarci, Mercury. Tu piaci, hai carattere, la gente ti detesta però assieme ti ammira: fai audience. Potresti essere un buon personaggio di questa storia se durerai abbastanza. E io posso darti una mano.”
“In che modo?”
“Diciamo che in certe situazioni, se si mette male, posso dire una parolina magica. Come a scuola, sei andata a scuola persino tu, no? Professore buono, professore cattivo. Io sono il professore buono che ti lascia l’aiutino sotto il banco e tu sei la ragazzina figa che non studia un cazzo ma prende i bei voti. Ho reso l’idea?”
Increspo le labbra, sopprimo lo schifo. Se davvero può esserci d’aiuto conviene tenerselo buono, almeno per un po’.
“Devo solo mettere uno spinotto nel telefono?”
“Solo quello, soldatina. Per ora.”
Sorrido, la voce un tono più melliflua. “E dov’è il mio aiutino?”
“Come sei veniale. Ti ho mandato delle scarpe da ginnastica molto chic e un completo militare adatto a te, non ti bastano?”
“Ah, tu hai mandato questa roba?! Beh, complimenti! Grande scelta, davvero! Il completino da troia camouflage è davvero un tocco di fino, soprattutto è un vantaggio tattico che le Erinni si sognano, giusto?!”
Ride.
Deve essere qualcosa di simile a un nerd, un bambinone, quella categoria di uomini che mi ripugna un po’ più delle altre.
Voglia di lanciare il telefono contro la parete.
“Sto per chiudere la chiamata.”
“Andiamo, Mercury, quella roba ti sta d’incanto, ma se proprio non ti piace possiamo valutare qualcosa di più… adeguato.”
“Ecco, bravo, valuta e mandami qualcosa di decente.”
“Un poco alla volta, tesoro. Tu comincia a mettere quello spinotto nel telefonino che hai trovato, e io farò un giro nella nostra boutique a vedere se trovo un paio di stivali per i tuoi graziosi piedini.”
Piedini.
Feticismo.
Ansia.
Idrofobia.
Non sprecare tutto con una sfuriata. Sopporta. Non è niente, solo perversione maschile.
Respiro profondo.
“Un paio di stivali sarebbero perfetti, sì.”
“Tu aiuti me, io aiuto te.”
“Okay.”
“Abbiamo un accordo?”
“Ho detto okay.”
“Magnifico. Domattina avrai lo spinotto. Gli stivali più avanti.”
“Spero non troppo.”
“Più cose farai per meritarteli, prima arriveranno.”
Fottiti. Non lo dico.
“Buona notte, ragazza. Sei tra le mie preferite.”
“Scoppio di gioia.”
Chiude la telefonata.
Non so decidere se lo show è stato pensato e fatto da maniaci per il proprio divertimento o se essere al timone di uno show come questo ti rende inevitabilmente un maniaco.
“Tutto a posto?” Lucilla scende lentamente i gradini di pietra, guardandomi stranita nel buio, “Chi era?”
“Qualche cazzone della produzione. Io tutto a posto, ma tu?”
Esita, evade il mio sguardo. “Sto bene. Ci ritiriamo?”
Annuisco, le rendo il telefono che lei rimette nello zaino; ha un qualcosa di diverso negli occhi, nel viso, un velo di mestizia che non se n’è andato da due ore a questa parte.
“Sicura che è tutto a posto?”
“Non volevo ripensare alla teca, me l’avete ricordato. Passerà.”
“Si può sapere cosa…” Ma non voglio saperlo, faccio un gesto come a lasciar cadere tutto, scordare la questione, lei sembra apprezzare. La mia ultima occhiata è per il mare oscuro tra gli archi, i riflessi delle stelle sull’acqua placida.
Ci avviamo alla camera notturna con quel senso d’inquietudine e speranza che solo certi posti lontani possono suscitare.
***