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Capitolo 5
C’è una canzone che dice: Tutti i miei amici si stanno sistemando, erano solo bambini ma sono sposati, ora.
Sistemati.
Sposati.
Seguiamo le luci, seguiamo la folla.
Sono sposati, ora.
C’è qualcuno, sull’altra faccia di quell’anello, che ha scelto loro, loro piuttosto che un milione di altri. Quando vedi le cose da questo punto di vista tutto assume un’ottica diversa.
Ci penso spesso: quanto vale l’essere scelte tra molte, moltissime?
Voglio te, non un’altra.
Te e soltanto te.
Essere scelti.
Non è difficile volere Silvia Irace per il fisico tonico, il bel culo, le gambe, il viso, i capelli biondi.
Lo è molto di più volere Silvia Irace per quello che è sul serio, oltre l’apparenza: una stronza, un’egoista, un’opportunista, intrattabile e volgare.
Tutti i miei amici si sono accasati, al di là del mare, e io sono scivolata via dalle loro vite senza riuscire a costruirne una mia. Vivo con mia madre e la sua ludopatia, con mia sorella che a stento mi parla.
Mio padre se n’è andato molti anni fa.
Non ho avuto altri uomini nella mia vita oltre lui, nessuno che andasse oltre il sesso o una breve e futile frequentazione. Ho ancora ricordi della sua umanità prima che cambiasse, cominciasse a menare senza più un motivo reale.
Non mi è mai mancato, da quando se ne andò, ma mi è mancato chi avrebbe dovuto essere.
Sono stata scelta decine di volte per come appaio, mai nessuna per quello che sono. Se nessuno ti sceglie mai, se nessuno ti sceglie veramente, qualcosa dentro cambia e tu non sei più la stessa.
C’è del verde da qualche parte dentro al cuore che se non viene annaffiato poi muore. E se muore non rinasce più.
Se al posto del verde ti cresce il deserto poi non recuperi, non torni più com’eri prima.
Non sarai mai realmente felice.
“Ehi,” Tania siede accanto a me con nonchalance, il cappuccio da gazza leggermente tirato indietro, “Pensieri profondi?”
La musica vaga leggera: Nancy, lo scoiattolo, ha maestria con qualsiasi tipo di flauto stia suonando, una canna bianca e forata a mano che potrebbe pure essere un osso di dinosauro.
È un osso di dinosauro.
La melodia è qualcosa di simile a una ballata con toni accesi e altri più amari: forse ha innescato pensieri e ricordi, riportato indietro la vita al di là del mare, che lascerei dov’è ma non so quanto davvero. Non so, non riesco a scegliere.
“Sì,” rispondo a mezza voce.
“Balli?”
La guardo come si guardano i pazzi, i folli, o chi finge di esserlo. “In che senso?”
“Non ci sono uomini in Illumina, si balla tra donne.”
Si alza, tende una mano.
“Dovrei ballare con te?”
“Dovresti.” Sorride strano. “Magari ti piace.”
“Non so ballare.”
Sorride ancora. Fa un cenno come a dire d’attendere, si scosta; la ragazza-procione si alza, si fa prendere per mano e la segue accanto al fuoco. Lo scoiattolo cambia ballata e dall’osso di dinosauro svicola una melodia diversa, più intensa, più lenta.
Guardo perplessa, stranita; Radiosa e Artemis osservano in egual modo, sedute a loro volta nei pressi del falò.
La danza a due che inizia a piccoli passi è qualcosa di vagamente ipnotico; gazza e procione congiungono una mano, in alto, come davanti a uno specchio, e iniziano a girare.
Sono passi lenti, cadenzati, che pure crescono poco a poco in velocità.
Si scambiano di posto e ricominciano. Volteggiano con grazia studiata, con destrezza, spostandosi come in un semicerchio tra il fuoco e lo spazio intorno, senza un errore, senza un passo sbagliato.
Danzano.
La cosa che mi si agita dentro è una forma rara d’imbarazzo. È vergogna mista a soggezione. È un vago senso d’empatia che mi fa desiderare d’essere altrove per smettere di sentirlo, smettere di vederle, non pensare che due donne, due ragazze, s’intrecciano in movenze vagamente erotiche e io sto lì a fissare.
Pure osservo.
Guardo e scruto, ogni passo, ogni movimento; i loro corpi tonici si colorano delle tinte del fuoco, piedi in stivaletti impellicciati si spostano con armonia e destrezza, intersecandosi, sfiorandosi, senza mai un contatto errato.
Nella testa mi fermentano immagini di certi balli d’uccelli dai colori sgargianti, creature piumate che si muovono in cerchio e danzano con la stessa pratica eleganza. Danzano sulla sabbia e l’erba.
La musica vibra e si contorce, reale, nell’aria.
La vergogna e l’imbarazzo mutano pelle: la cosa che si agita dentro è annidata nel basso ventre e sale, si contorce, scaldando poi bruciando nel petto, tra le spalle, lungo il collo e fino al capo.
Prendo un respiro profondo laddove s’era interrotto il ciclo naturale. Sbatto le palpebre quando un leggerissimo bagliore s’è sparso sulle retine.
Danzano e la loro pelle sudata sembra incendiarsi come una torcia, una pira, una distesa di fuoco liquido. Pelle rossa e lucida, cangiante, fluida, viva.
Non riesco a smettere di guardarle.
S’intersecano e separano un’infinita miriade di volte; ci sono contatti e tocchi che il mio occhio allucinato coglie con metodica precisione, ora tra dita ora tra labbra, tra gambe, tra capelli sfuggiti ai cappucci. Qualsiasi alchimia le leghi l’una all’altra cresce e si moltiplica attimo dopo attimo, annullando il resto della realtà, la cornice della notte.
Danzano con movimenti flessuosi che in qualche modo stimolano regioni remote del corpo. Mi condanno all’immobilità con un certo calore che sale dal basso, replicando quello del fuoco che arde a due passi da me.
Lo scoiattolo suona come in estasi profonda, la melodia spande e sussurra incuneandosi tra fessure e orifizi con eguale, bollente malia.
Vorrei voltarmi a vedere se anche le mie due compagne di squadra fissano inebetite e non ci riesco, in ogni caso sicura che stiano facendo la stessa mia identica faccia allucinata.
Ipnosi sensoriale.
La danza s’interrompe ma non la musica.
Tania lascia la sua compagna d’arte, saltella verso di me, tende ancora la mano. “Balliamo.”
Vorrei dire di no, che non sono capace, che odio ballare, io odio ballare, le zoccole ballano, non i soldati, i guerrieri, io sono un guerriero, una guerriera. È l’unica cosa che so fare nella mia vita.
“Non sono frocia,” è tutto ciò che riesco a mormorare in confusa inquietudine.
Lei ride senza suono, m’afferra il polso e tira all’impiedi con un movimento che mio malgrado assecondo. Il calore del fuoco, ora più vicino, accarezza le gambe e le braccia nude.
Congiungiamo una mano come in certi saluti d’oriente e il suo palmo è caldo.
I nostri volti sono vicini e cosparsi di chiaroscuri, pure inizio a non distinguerne i tratti morbidi, gli occhi verdi, il bizzarro sorriso che di là del mare doveva valere parecchio.
L’ho sempre sognato senza mai dirlo, senza mai ammetterlo: che mi dicessero Balliamo. Balla con me, ma non quelle cose orribili e senz’anima che vanno adesso, balla con me un qualcosa di classico, di vecchio piuttosto, d’altri tempi. Balla con me, accanto al fuoco, di notte, e chissenefrega del resto del mondo.
Perché ci siamo noi, soltanto noi.
Insieme.
Insieme.
Qualsiasi impulso mi faccia muovere le gambe, strascicare i piedi imitando i suoi movimenti deve essere antico come e più del mondo, deve salire dalla terra stessa. Dev’essere parte di Illumina, perché Illumina è più di un trio di isole, è un sistema, è un grande essere senziente.
Per un attimo è sottile commozione, poi solo follia.
Ripeto meccanicamente movimenti che ho visto fare solo pochi minuti fa e non è possibile io abbia già appreso; le gambe si muovono con sciolta disinvoltura, il respiro sale e scende, sale e scende, s’intona col ritmo viscerale della musica.
Voltiamo e cambiamo posto, danziamo, e se c’era vergogna fino a pochi minuti fa ora sento solo un profondo senso di trasporto, di connessione.
Jade, il procione, va a raccogliere Sigrid, la fa alzare: cominciano la stessa danza che pure s’interseca con la nostra, fatta di cerchi e semicerchi, di incroci, di incontri e addii: sembra la vita, che perdiamo dietro un infinito di problemi, paure, paranoie, pessime passioni.
Balliamo davanti agli occhi tersi di Radiosa, una che la vita deve averla gettata a piene mani nell’oblio, per quanta ne abbia ancora davanti; balliamo davanti alla volpe, che siede e sorride con gli occhi socchiusi, sognanti, ravvivando il fuoco con un’altra manciata di polvere legnosa. Lo scoiattolo suona e la lepre vigila, leggiadra, fissando la notte e poi noi con l’arco in grembo, con la certezza che è solo una notte ma che possa durare anche per sempre.
Odio ballare eppure sto ballando. Odio ballare eppure il mio sogno è che qualcuno mi c’inviti, mi chieda di farlo. I confini del campo, quella linea immaginaria marcata dalla cannella in fumo, s’avvicinano e allontanano senza ragione. Sudo e la mia pelle s’imperla di gocce dorate, rivoli aurati, scie di luce che fendono il buio. Li guardo brillare come stelle, diamanti: sorrido.
Oltre il limite, dove la luce non arriva, vedo i sauri strisciare fuori dalle tenebre e guardare, con gialli occhi malati, fissarci vivere al ritmo di una ballata ancestrale. Fauci e artigli di predatori, superpredatori, sulla nostra pelle scintillante, indorata. Sono come i mostri del mondo di là del mare, quelli che a volte prendono una di noi.
Siamo oggetti.
Siamo nutrimento.
Combustibile per la rabbia, per l’ego.
Carburante per il corpo, carburante per l’anima.
Quella cosa tra le gambe che chiama e chiama, senza sosta, è la fiamma intorno cui s’affollano milioni di falene.
Volteggiamo in grandi cerchi e il fuoco c’irradia e illumina, Illumina, come questa terra di sogni e incubi. Siamo falene e sfioriamo le fiamme, la fine di tutte le cose, in continue e futili acrobazie, per restare ancora un po’ di più, ancora un po’, aggrappate alla vita.
L’energia finisce e barcollo con un sorriso ebete, crollo sulle ginocchia accanto alla volpe che ride a sua volta, senza suono, persa in un simile incantesimo; guardo la fiamma che arde, la polvere che si consuma, e poi l’odore, un effluvio leggero e penetrante, sottile, che arriva dritto al cervello.
“Cosa,” mormoro con lo stesso improbabile sorriso e gli occhi velati, “Cosa cazzo c’è nel fuoco?”
“Polvere di Lacrimosa,” biascica lei, in estasi.
“Ci avete drogate…”
“Ci siamo drogate tutte,” vacilla la testa con due occhi scintillanti, “Goditela, porca troia.”
M’allungo fino a ficcare la fronte contro la terra e lì rimango, gattoni e sfatta, con qualsiasi sostanza mi sia entrata nei polmoni a vagare libera e sregolata.
Tania mi crolla addosso, ridendo, una mano poggiata al mio fianco e il viso che mi s’accosta. “Non è bello?”
“Se non togli quella mano, io…”
Ride ancora, più forte, ma la sua voce si perde nel caos dei sensi e la sua mano resta dov’è. Le prospettive si schiacciano e invertono, e mi sembra di stare in verticale invece che a quattro zampe come una cagna.
Vorrei incazzarmi ma non ci riesco.
Mi saltano addosso tutte le frustrazioni che posso ricordare.
Vorrei piangere ma non ci riesco.
Le frustrazioni s’annullano e rimescolano, diventano vertigine, ricordo, infine sogno. Ho voglia di ridere ma non riesco neanche a far quello, le labbra rimaste tirate in un sorriso che non è mio.
Tamburello la fronte infinite volte sul terreno mentre la Gazza ride da sola e la mano le è rimasta sul mio fianco. Il suo palmo è caldo, il suo sguardo rovente.
Mi abbatto da sola d’un lato e finisco a guardare le stelle tra gli scorci del cielo notturno, intervallati dalle chiome degli alberi, i riverberi del fuoco, le silhouette rutilanti di Jade e Artemis perse dietro una comune tempesta dei sensi.
Sauri dai colori impossibili vagano su arti filiformi ripetendo il mio nome, ed è la cosa più normale del mondo. Tania si rialza, barcolla, s’allontana con lo stesso sorriso ebete.
“Voi siete malate a fare una cosa del genere, qui, in questo posto…!”
“È l’isola, è Illumina,” Nancy, la donna-scoiattolo, ride e mi atterra accanto col volto arrossato dal calore; la nevicata di lentiggini che ha in faccia riluce d’improbabili riflessi aurati, “La comunione con il tutto!”
“Siete pazze e drogate.”
“Pensa alla vittoria, sorella, al bagno di sangue che ci sarà!”
Penso al bagno di sangue e tutto va ancora più veloce, più forte, s’incasina con le peggio pulsioni violente.
“Goditela, porca troia,” la voce collassata della volpe flagella il mio ego cosciente o quel che ne resta, mentre la sua mano m’accarezza i capelli come il manto d’uno spaniel.
“Me la godo, sì,” ma non ho più controllo alcuno e mi sembra di respirare acqua corrente.
Mai amato perdere il controllo di me stessa, mai.
La Gazza si accosta a Lucilla, le tende una mano, “Balla con me, tesoro, balla con me!”
Lei scuote la testa, attonita, ma la mano, le mani, la prendono e aiutano ad alzarsi.
“La notte è stellata stasera!”
Stelle cantano una cacofonia sgraziata arrotandosi l’una con l’altra.
La notte di Illumina è un macello onirico che vortica e fluttua intorno a me, a noi, che sa di caos primordiale.
Chiudo gli occhi e il carnevale dei pensieri mi travolge.
Prego in silenzio che finisca presto e assieme che non finisca mai.
***
“Questo è un bel mistero.”
Max Tambori sedeva sprofondato nella poltroncina, visibilmente troppo piccola, dell’ufficio di lui, le mani piantate sui braccioli e una certa espressione cupa che non gli era consueta; Gioele camminava a falcate nervose su e giù per lo spazio antistante, febbrile, gli occhi sgranati e fissi alla moquette.
“Io voglio uno, UNO, che mi spieghi come sia possibile tutto questo. Cosa significa, dov’è l’errore, dove c’è stata una falla.”
“Un bel mistero,” ripeté Max piegando a dismisura le labbra.
Gioele si fermò di colpo, lo fissò allucinato, sollevò l’indice nel modo peggiore, quello che univa reprimenda e picco di collera interiore. “Per questo,” quasi si strozzò con la saliva, “Per questo il telefono non è dei nostri, per questo è sfuggito ai controlli: perché la ragazza non è dei nostri! E se la ragazza non è dei nostri non è stata controllata prima di andare laggiù! E se non è stata controllata potrebbe essere chiunque e Dio solo sa chi è, cosa ha fatto e perché!”
“No,” Max si rianimò di colpo, agitò a sua volta l’indice con la cadenza di un metronomo, “No, no, no, no, stiamo sbagliando qualcosa.”
“Non c’è nessuna Exilles! Non abbiamo mai scritturato una Exilles! Io le conosco tutte, le ricordo tutte le mie guerriere, non c’è nessuna con quel nome di battaglia, viva, morta, nessuna!”
“Pensaci: potrebbe aver mentito, aver usato un nome diverso, magari quello che aveva scelto non le piaceva più, lo sai come sono fatte le donne, no?”
“No,” stavolta fu lui ad agitare il dito come un pazzo, “No! Ne sono certo, sicuro, è come ti dico! Non c’è nessuna Exilles.”
“E quindi?” Max aprì le braccia in un gesto polemico. “Un’estranea sarebbe entrata nel nostro sistema, arrivata all’hangar, mischiata con la squadra in partenza e andata in Illumina alla faccia di cazzo nostra? Dai, su, è impossibile.”
“Impossibile è quello che mi dite tutti da qualche giorno a questa parte! Anche la croce era impossibile, sì?! Prima quello, ora un’estranea nel MIO sistema di isole, nel MIO show!”
Il ragazzone in camicia a fiori scosse la testa confuso, masticò un paio di considerazioni che preferì non esternare, stampandosi addosso un’espressione scettica. “E come avrebbe fatto? Come avrebbe violato la sicurezza? Dove sarebbe la sua traccia fisica?”
“Non nel nostro archivio di sicuro, no, anche se ho già mandato un team a controllare. No, questa viene da fuori, capisci? Da fuori. Deve aver trovato un modo, magari è stata aiutata. Paghi decine di migliaia di euro per un sistema di protezione che ti garantiscono essere infallibile e subito c’è una falla, un buco. Ma siamo in Italia, no? È normale, è tutto dannatamente normale!”
Max scosse ancora la testa. “Va bene, facciamo finta che è come dici. Exilles viene da fuori, ha trovato un modo per varcare i nostri protocolli di sicurezza: ma perché farlo? Perché prendersi questa briga? Perché non passare dalle selezioni come tutte? Siamo sempre stati di manica larga, abbiamo preso anche le peggiori cretine, bastava che fossero poco così fighe, perché bypassare la normale procedura?”
Gioele riprese a vagare, inquieto, tormentandosi le mani. “Magari è una spia. Magari lavora per U-Tekna, voleva raccogliere informazioni sul nostro format, spiare i nostri contenuti!”
“E anziché provare ad hackerare il nostro sistema è andata direttamente in Illumina? A che scopo? Morire male? Sul serio?”
“Qualcuno deve aver mangiato la foglia. Hanno capito che le isole sono un paravento. Ma non possono dimostrarlo, così mandano una direttamente laggiù, a cercare la verità.”
“Se fosse una spia, il semplice fatto che sia riuscita ad andare laggiù sarebbe già la prova che il nostro sistema è compromesso: cosa che non è capitata, quindi perché allarmarsi?”
“Non è una spia, quindi? E chi cazzo è allora?”
“Vuoi saperlo?”
“Sì.”
“Devo proprio dirlo?”
“Sì!”
“Non ci arrivi da solo?”
“Parla!”
Max sorrise, ilare, spalancò le braccia. “È un cesso.”
Silenzio attonito. “Un cosa?”
“Un cesso. Immaginati questa cessa di donna che si presenta alle selezioni, noi la scartiamo, e lei ci tiene talmente tanto a partecipare che trova il modo di superare i protocolli e farsi inserire in una delle nostre Ondate.”
Ancora silenzio.
“Ma se ha trovato una falla perché non…”
“Non le interessa smerdarci con tutto il mondo, a lei interessa solo partecipare, okay? Solo vedere i dinosauri, cambiare vita, che ne so: non gliene frega niente di ridicolizzare lo show, vuole esserne parte.”
Gioele vagava iridi attonite. “Ma per quale ragione, in nome di Dio?”
“Non hai detto che voleva morire?”
“Morire?”
“In uno dei video, ha cercato di suicidarsi, l’hai detto tu. Voleva morire in modo spettacolare e cosa meglio di questo show?”
Silenzio.
Gioele Palazzese si era fermato e fissava la parete con l’idea che tutto avesse un certo, lontano senso.
“Vuole solo morire?”
“E probabilmente ci è anche già riuscita, da parecchio.”
“Non lo sappiamo, non ne siamo sicuri.”
“Andiamo, Mercury ha trovato il suo prezioso telefono. Sarà merda di dinosauro, a quest’ora, e quando il monitoring avrà individuato le sue registrazioni ne avremo la prova certa.”
“Ha un senso, sì.”
“Andiamo, è tutto a posto. Questa Exilles è solo una comparsa, ci ha fatto fare un salto sulla sedia ma noi risolviamo tutto, come sempre.”
“Sì, sì, forse è come dici tu.”
“Non trascuriamo nulla, comunque, continuiamo a esaminare i video e vedrai che presto o tardi sapremo che faccia ha la nostra intrusa, d’accordo?”
“Sì, è così che dobbiamo fare.”
Max annuì, conciliante, un ultimo gesto del braccio come a dire che era tutto sotto controllo, che in fin dei conti non era niente. Breccia nei protocolli di sicurezza: un’evenienza così remota da non essere mai stata testata.
Fissò il pavimento dissimulando lo sciame di congetture che gli era transitato nella mente.
***