***
O fortuna, velut luna.
C’è una canzone che inizia con queste parole.
O fortuna, velut luna.
L’ho sentita una volta per radio, in macchina, e la sento adesso: suona da qualche parte dentro la mia testa.
È una cosa che sa di medioevo e non so perché qualcuno dovrebbe mai ascoltare una cosa del genere o farla passare per radio.
O fortuna, velut luna.
Avevo cambiato stazione, in macchina. Non riesco a farlo con la mia testa.
Dicono che quando muori c’è una qualche musica che senti e che viene dai tuoi ricordi: potrei essere appena morta, soffocata nello stato d’incoscienza. Poteva capitare. Può succedere quando inali sostanze sconosciute. Può succedere quando ti vai a fidare di cinque cretine vestite da animali.
Puoi soffocare nel sonno.
Magari mi hanno strangolata loro.
Ci siamo fidate delle cretine sbagliate.
Non impariamo mai.
O fortuna, velut luna.
La canzone ricomincia sempre; è latino e poi inglese, con un coro in qualche modo medioevale, e ricomincia sempre. La mia testa deve essere andata in loop.
Sono morta nel sonno e la mia testa è andata in loop. Dovrebbe spegnersi tutto a un certo punto, finire ogni cosa, perché sennò è un casino. Se per qualche ragione sono bloccata così, con questa musica in testa, io non ci resisto altri dieci minuti.
Sorrido.
Mi viene da sorridere.
Qualunque cosa abbiano fatto bruciare nel fuoco doveva essere roba forte.
Si può sorridere da morte? Probabilmente è un sorriso immaginario, immaginato, sorrido ma non sorrido; a guardarlo, il mio cadavere, deve avere le labbra sempre tirate all’ingiù, come al solito. Sarei scazzata pure da morta.
Sono morta e sono scazzata.
O fortuna, velut luna.
Ricomincia.
A ben sentire c’è una leggerissima nota metallica nella canzone.
O fortuna, velut luna.
Proprio una nota metallica, come qualcosa di registrato. La mia testa lo ha impresso come una suoneria di telefono e neanche immaginavo di avere questa capacità, chi lo immaginerebbe?
Continuo a sentire una canzone che ha un sound medievale, registrata nella mia testa, con una nota metallica.
Un’esperienza da raccontare.
Non sorrido più.
Sento come una contrazione, uno di quei gesti nervosi da dormiveglia, mi giro sul fianco o così ho l’impulso di fare. La musica non sta nella mia testa, è nella fottuta sveglia di qualcuno che mi rompe le palle alle otto del mattino.
Mamma! Mugugno più infastidita ancora, E spegnila, no?!
Dev’essere Alessandra e il suo telefonino del cazzo. Ci sta sempre sopra. Sempre. Sopra.
O fortuna, velut luna.
Avete rotto.
Ma rotto proprio.
Apro gli occhi.
Fisso il soffitto della mia camera sul quale, senza motivo, ci sono le stelle.
Mi smanaccio le lenzuola di dosso ma le lenzuola non ci sono. Sembro una cretina e allora mi fermo, espiro duro, rimango a fissare gli astri.
O fortuna, velut luna.
Quello non è il soffitto di camera mia. Alessandra non metterebbe mai una suoneria in latino, troppo fascista.
Sorrido.
Facoltà mentali che avevo dimenticato di possedere si riaccendono con tutta la lentezza del mondo, collegamenti vengono ripristinati, il velo tra realtà e immaginazione si solleva.
Mi ricordo che siamo nei boschi, al campo della Gang-Bang, la danza stupida, la polvere nel fuoco.
Il collasso.
Sorrido con gli occhi aperti solo per metà.
“Siete delle cretine,” mormoro sfatta, “Dovevamo essere in forma per domani, dovevamo…”
Il riverbero del fuoco e un vago senso di calore mi dicono che il falò è sempre al suo posto.
Punto i gomiti e, con lentezza esasperante, provo a tirarmi su. Una mano la porto alla fronte dove una fitta profonda m’ha appena pugnalato cervello e anima.
“Madonna santa.”
Mi tiro a sedere e la testa va dolcemente contro le ginocchia perché su da sola ancora non riesco a farla stare.
“Siete delle cretine.”
O fortuna, velut luna.
È l’ultima volta che sento la canzone, anzi il brano, poi tutto d’improvviso tace.
Il silenzio che m’avvolge è in realtà ronzio nelle orecchie, è circolazione sanguigna, è confusione dei sensi. Vorrei tirarmi un pugno sulla testa da sola.
Il crepitio leggero del fuoco è una carezza sonora confronto al martello che pulsa dentro.
“Delle cretine…”
Sbatto più e più volte le palpebre e finalmente ritorno al mondo dei vivi o degli svegli. Intorno c’è la notte e accanto a me c’è il falò. Il fuoco ha perso intensità e la legna va consumandosi, la luce è più fioca dell’ultimo ricordo che ne ho. Le altre sono sparpagliate lì intorno, stese, abbattute, collassate come me, peggio di me.
Tutte tranne una.
Strizzo gli occhi, li riapro, lei è sempre lì.
Lucilla, Radiosa, se ne sta a diversi metri sulla sinistra, in ginocchio, con le mani giunte, davanti alla sua stessa spada che, per qualche motivo, è piantata storta nel terreno.
Mani giunte, occhi spalancati, inespressiva. Fissa il niente e muove le labbra, appena appena, senza suono.
Espiro seccata, dolorante.
Cazzo fai? Non so se l’ho detto, l’ho pensato, so solo che mi irrita. Anche strafatta questa prega. Hai visto la Madonna?!
L’ho detto, l’ho pensato, non lo so.
Cerco a tentoni un sasso perché ho voglia di tirarglielo; ho voglia di tirarle un sasso perché mi irrita vederla pregare, senza motivo, mi irrita tutto in questo momento, come ogni mattina quando mi sveglio nel letto e penso che non ho un soldo e mia madre deve pagare le rate della tv, mia sorella non vuol lavorare, mi hanno congedata.
Raccolgo una piccola pietra, alzo il braccio.
Mi stai sulle palle.
Il braccio non si muove: volevo lanciare ma il braccio non s’è mosso. L’occhio mi s’è spostato da solo, è andato più a destra di Lucilla che prega, grossomodo davanti a me, verso gli alberi. È andato lì perché ha colto un movimento, un dettaglio, qualcosa che di mio non avrei mai visto ma che ora vedo, e dannatamente bene.
Il sangue si gela all’istante e il respiro va via.
Il sasso mi scivola dalle dita e si perde sul terreno oscuro.
La cosa mi sta guardando e nel farlo schiocca le mascelle un paio di volte.
È un sauro e sta lì, nel buio, appena illuminato dai riverberi del fuoco; sta lì e mi fissa con la testa inclinata di lato, come i piccioni, i gabbiani, come il mostro che è.
Il momento nel quale l’impasse si spezza è lo stesso in cui i miei meccanismi di autodifesa si riattivano; la spinta adrenalinica è un mantice che soffia di colpo nelle vene e nei muscoli, arretro malamente strisciando il culo a terra, raspando con le scarpe, occhi inchiodati sulla bestia che si muove in risposta, spostandosi di lato con un passo da gallo combattente e lasciandosi illuminare meglio dai chiaroscuri.
Cristo Santo, Cristo Santo.
Non è grosso ma non è piccolo, è una di quelle brutture bipedi dal muso lungo e dentato e con una fottuta cresta a tappeto su testa e schiena. Brutto, brutto come la fame, con due occhi piccoli e bastardi, con mani che sembrano zappe e che tiene curvate in basso mentre ondeggia come un tacchino.
“Ehi!” Tasto a caso cercando una qualsiasi delle nostre portentose nuove compagne d’avventura, “Ehi, ehi, sveglia, cazzo, sveglia, oh, oh!”
Afferro la spalla di Nancy, lo scoiattolo, stramazzata lì accanto, la scuoto con tutta la forza della paura, “Sveglia, sveglia, Cristo!”
Non si sveglia. Neanche si scuote, nulla, rimane strafatta a dormire e abbiamo un sauro nel campo, un piccolo sauro carnivoro, una cosa comunque da incubo, uno dei tanti stramaledetti figli di Illumina.
“Lu!” Gesticolo verso di lei, attonita, “Lu, sveglia, Lu!” Non si muove, non smette di pregare, di fissare il nulla, ignara di me e di lui, ignara di tutto.
Vorrei alzarmi e correre ma le gambe sono rigide e pesanti, non rispondono, mi sento ingabbiata in un sogno maledetto, uno schifo di stato tra sonno e veglia, tra allucinazione e pensiero razionale.
Poi capisco.
La mente continua il suo graduale risveglio, anche dopo la botta d’adrenalina, e rimette a posto i pezzi.
Il sauro c’è, non è un’illusione, ma non si è avvicinato. C’è ed è lì, a svariati metri da me, sul prato, ricordo il perimetro, la cannella che brucia.
La cannella.
Gli frizza nel naso.
Il sauro sta lì, appena al di fuori del perimetro, perché la cannella gli frizza nel naso. È la più assurda stronzata che io abbia mai sentito ma la cosa sta lì, appena fuori dal perimetro, e non lo varca. Mi guarda coi suoi occhi da Satana e sta a distanza, spostandosi un passo alla volta, senza fretta, senza neppure un’ombra di frustrazione: aspetta e mi guarda, con la linea della bocca che sembra pure un qualche tipo di sorriso.
Poi tossisce. Un verso sordo, raschiato, come una tosse da vecchio pervertito, gratta la gola, dilata le mani artigliate e le riporta in quiete.
Mi viene da sorridere mentre cerco di normalizzare il respiro.
Non può varcare il perimetro odoroso. Avremmo potuto continuare a dormire come cretine e non sarebbe successo nulla, non sarebbe mai entrato dentro il cerchio, non ci avrebbe staccato un braccio nel sonno. Queste dementi di Gang-Bang dei Boschi ci dormono così tutte le sere, senza paura, si drogano pure, e i sauri che passano stanno lì sul perimetro a guardare, a sognare di poter ficcare i denti su quei bei corpi abbandonati, sudati, morbidi. Stanno lì e non possono entrare.
Incredibile.
Assurdo.
Trattengo il riso, vorrei ridergli in faccia, al bastardo scaglioso, magari pure fargli vedere una fetta di culo. Siamo qui e lì e non può prendermi. Non può farmi niente.
Raspo un piede per terra con una smorfia di sfida, poi abbandono la testa indietro, contro uno dei sassi che punteggiano la radura, torno a guardar le stelle che ancora dominano la volta.
“Siete delle cretine,” scandisco seccata, “M’hai sentito?” Strattono di nuovo Nancy per la spalla. “Delle fottute cretine.”
Faccio per rimettere la mano in grembo e lì mi fermo: la mente continua a svegliarsi un pezzo alla volta e ora anche il tatto sembra tornare prepotente in posizione. La mia mano è umida.
Bagnata.
Fradicia.
Dio, fa che non si sia sboccata addosso.
Piego il palmo controluce per un minimo di visuale.
La mia mano balugina di rosso.
La mia mano è rossa.
Un gocciolone scivola sul polso e cade sull’erba con un colpetto inconfondibile.
“Oh Cristo.”
Volto il capo verso Nancy e la sua espressione sfatta non è sfatta: è lo sguardo aperto e gelato di chi ha visto l’orrore e non è tornata indietro. Il suo corpo giace sull’erba, accanto a me, e c’è sangue sul suo petto e la mia dannata mano.
“Oh no, no, no…”
Strofino il palmo a terra, inorridita, mi sposto strisciando di nuovo il culo, cercando di mettere un minimo di distanza.
Lucilla.
La cerco con occhi sgranati, tremuli, ed è sempre lì in ginocchio che mormora senza suono.
“Lu…”
Ti prego rispondi.
“Lu…”
Niente. Guardo Nancy che è morta, morta, è un cadavere col cappuccio da scoiattolo malmesso sulla testa, guardo Lucilla che prega come in trance.
“Lu, ti prego…”
Il sauro piega il capo e osserva, si sposta di un passetto e tossisce di nuovo.
Forse è entrato nel perimetro. Lui o qualcosa come lui.
La cannella di colpo non è più la panacea che credevo, il bene ultimo, lo strumento supremo; Nancy è morta al mio fianco, e avrei potuto crepare anche io. C’è sangue sulla mia mano e su di lei.
“Lu…!”
Ho paura di muovermi, di alzarmi, di fare qualsiasi cosa. Potrebbe essercene un altro, una bestia, un orrore, una cosa qualsiasi nella radura, lì intorno, anche se non la sento, non la vedo, anche se non c’è niente che non vada eccetto il dannato sangue sulla mia mano.
“Tania,” la vedo, col costume da gazza, stesa accanto alla suora, riversa, prona, “Tania!”
Niente.
Nulla.
Lucilla prega in estasi e io siedo nel vuoto del campo. Il fuoco affievolisce un minuscolo grado alla volta.
Il sauro osserva e si muove, pigro, sul limitare.
Lascio scorrere lo sguardo sui corpi che giacciono stesi dove siamo crollate, dopo la danza, la polvere nel fuoco, dopo le risa e i commenti stupidi.
Sono corpi molli, abbandonati, e non riesco a smettere di fissarli.
Ti prego non dirmi che, non dirmi che, non dirmi che…
La paura, l’orrore, si fa strada nelle mie già contate certezze. Un altro meccanismo difensivo s’attiva e mi volto di scatto, frugo la notte intorno per cercare un qualsiasi segno di pericolo, d’intrusione, perché la cannella terrà lontani i sauri ma non le altre donne di Illumina.
Respiro come una pazza mentre un principio di panico, nel buio, striscia e mi s’avvinghia alle costole, le caviglie, la base del collo.
Dio, Dio, Dio, è un incubo, solo un incubo.
Potrei essere l’unica cosa viva in quei pochi metri quadri di prato assieme a una suora in trance e una bestia giurassica che sul mio culo potrebbe ficcare i denti sul serio, a breve.
“Ti prego, fa’ che sia solo un…”
L’odore.
Oltre al legno bruciato, la polvere maledetta, oltre un vago aroma di fiori, c’è l’odore del sangue. Greve, pesante, c’è sangue nell’aria e la cosa che aspetta nel buio, appena oltre il perimetro del campo, è lì per quello.
C’è sangue nell’aria e sangue sulla mia dannata mano.
Di scatto, d’impeto, mi tasto le braccia, il ventre, il seno, cercando qualsiasi cosa che sembri una ferita, qualsiasi dolore, fitta, cosa fuori posto, con l’orrore di trovarla davvero.
Nulla o così pare. Nulla o così spero e supplico.
Se decido di alzarmi, di vincere l’impasse, è più per inerzia, istinto, che calcolo razionale. Mi alzo barcollando, pulendomi la terra dal culo dei calzoncini, e il sauro mi fissa, drizza le spalle, si attiva, rivitalizza l’istinto di caccia quiescente. È chino in avanti ma quando mi sono alzata si è sollevato pure lui, più eretto, per aumentare le sue misure, ricordare chi è il predatore e chi la fottuta preda.
Come certi uomini.
Cammino lenta, strascicando i piedi, barcollo. Sono uno zombie, una morta vivente, mi sposto senza sapere dove sto andando, con il frusciare delle suole sull’erba che sembra svegliare la foresta intera. Fisso il sauro e quello fissa me, vagando sul posto, lungo la linea immaginaria che non riesce a varcare.
Cosa cazzo è successo qui?
C’è la volpe, raccolta a terra, col viso insanguinato, il cappuccio abbandonato dietro le spalle.
“Dio, Dio…”
Continuo a camminare, un passo alla volta, rigida, instabile. La testa mi pulsa come dopo una sbronza, anzi è un pulsare diverso, più lontano. Mi fermo accanto alla gazza scomposta.
“Tania.”
La voce non mi esce o esce rotta. Il colpo di tosse che arriva in risposta non è suo ma della creatura che continua a seguirmi con occhio attento, qualche metro più in là.
Dovrei chiamare ancora, più forte, scuoterla: riesco solo a darle un colpetto con la punta del piede. Dovrei esser cieca per non vedere la ferita aperta tra i reni, la schiena tonica e abbronzata che splendeva nei colori del falò, ballando, e che ora è rossa e squarciata.
Vorrei esser cieca.
“Lu…”
Mi volto a cercarla e lei sta lì, le mani giunte, serrate, mentre fissa il nulla e dà le spalle alla bestia.
“Cosa è successo, Lu, che cosa è…”
“Mercury!”
Il rantolo che suona come il mio nome non viene da lei; mi volto di scatto, frugo le tenebre e i suoi segreti. Una mano si alza debole.
“Sigrid.”
Mi avvio con le gambe che non reggono, inciampo nel braccio tatuato di Tania che si scuote mollemente, barcollo fino alla figura stesa di lei, su un fianco, accanto a una pietra, affondo le ginocchia nell’erba sfatta. “Che è successo?!”
Il suo viso, sotto il berretto portato all’incontrario, è digrignato in una smorfia di dolore. “Fa male, malissimo…”
“Fa male cosa?!”
“Mercury, aiutami…”
“Fa male cosa?!”
Chiude gli occhi per un attimo e storce le labbra in un accenno di pianto che le arrossa il viso; sussulta le spalle, il braccio sinistro tenuto contro il corpo: ha del sangue sulla giacchetta a scaglie.
“Aiutami per favore…”
Aiutami, aiutami, la testa mi scoppia, sento caldo. Il pensiero fisso è che qualcosa sia ancora lì con noi, qualcosa di orribile, di ferale, lì intorno, nel buio, guardo ma non vedo nulla, non sento nulla, c’è solo la bestia che osserva dal limitare del perimetro e attende.
Attende me, noi.
“Fammi vedere,” smanaccio per alzarla a sedere, si lamenta, la metto di schiena contro il sasso.
“Fa male…”
“Sta’ zitta, ho capito.”
Reclina la testa con un singhiozzo. La manica della giacca è lacerata sull’avambraccio, il sangue le ruscella tra le dita che tiene strette sulla ferita.
“Togli la mano.”
“Mi sto dissanguando…”
“Togli la cazzo di mano!”
Lascia la presa e nella scarsa luce intravvedo quello che sembra un morso, una ferita di profondità poco sotto il gomito. “Non è niente.”
“Mi sto dissanguando!”
“Non è niente! Adesso la fasciamo.”
“Non mi far morire… Io devo…”
“Ma cosa vuoi morire, cazzo?” Cerco a tentoni il coltello ma non ce l’ho più, è con le armi che ci hanno sequestrato.
“Io devo sparare a quella donna, no? Spararle in testa…”
Pure lei non è del tutto tornata dal tunnel.
“Sigrid,” la scuoto per avere la sua attenzione, “Sigrid!”
“Aiutami…”
“Cosa è successo qui, che è stato?!”
Scuote la testa, allucinata, “Io non…”
“Cosa hai fatto al braccio?!”
Scuote ancora il capo senza riuscire a scandire nulla, poi si blocca; gli occhi le si dilatano verso la notte alle mie spalle e le labbra si schiudono. “Mercury…”
Mi volto di scatto solo per vedere la bestia che oscilla sulle zampe, sempre lì, al confine invisibile.
“Lo so,” torno da lei agitando un indice, “Lo so, ma non può raggiungerci, non può arrivare qui.”
Il respiro le accelera di più ancora.
“Ehi,” pretendo la sua attenzione, “Ehi! Guardami. Guardami, cazzo. È tutto a posto, non può arrivare qui, non può, d’accordo?”
“Sì…”
“D’accordo?!”
“Sì…”
Non ho il coltello, improvviso: mi alzo, barcollo, cerco qualsiasi cosa che possa andare bene per un bendaggio; la tosse del sauro bastardo mi accompagna nel confuso pellegrinaggio. Un pezzo di telo ripiegato tra gli averi della Gang-Bang è la benedizione del momento: straccio quanto basta, a mani, ritorno, le stringo la più sommaria fasciatura del repertorio intorno alla ferita. Il tessuto s’arrossa quasi subito.
“Ce la fai?”
Sigrid annuisce appena.
“Perché se non ce la fai ti abbrevio le sofferenze.”
Inarca le sopracciglia scure, inorridita, “Che?”
“Sto scherzando, cretina.”
Deglutisce, espira, inarca le spalle. “Vaffanculo, okay?”
Rido, un riso amaro, tirato, mi rialzo e barcollo ancora una volta. Se c’è qualcosa nel buio per un attimo non m’importa più. Non m’importa neanche del sauro che continua a fissarmi e seguire a suo modo le mie mosse, dietro la barriera invisibile che lo tiene per ora a distanza.
Mi dirigo spedita verso la suora inginocchiata e assente, persa in qualsiasi preghiera surreale l’abbia rapita. Inciampo di nuovo nel braccio di Tania, arrivo su Lucilla con la foga dei giusti e l’abbranco per il bavero.
“EHI!”
Lei ha un sussulto, si riscuote, sbatte le palpebre poi tenta di svicolare come spaventata, mi afferra i polsi e la sua stretta è vigorosa, carica, disperata come lo sguardo.
“Sono io, Lu, sono io!”
Occhi sbarrati riverberano nei miei e solo dopo un lungo istante ritornano alla normalità, la sua stretta s’allenta.
“Silvy…”
“Già che mi chiami per nome mi sale il...”
La sua attenzione vaga intorno, alla notte, il falò che scema sempre più di vigore senza le dovute cure, i corpi stesi della Gang-Bang del Bosco.
“Sono morte, Silvy?”
“Cos’è successo?”
Le sue iridi sgranate e tremule mi danno la stessa risposta senza scandirla.
“Lu, cosa cazzo è successo qui?!”
Fa per rispondere ma s’interrompe. Le mani mollano i miei polsi e abbrancano la sua stessa maglietta, si tira il colletto, cerca di guardarci dentro.
“Che fai?”
Non replica, febbrile, smanacciandosi il collo della t-shirt tendendolo fino a far sentire il suono del cotone strappato, una mano cacciata a ravanarsi tra le poppe.
“La croce.”
“La croce?”
Solleva uno sguardo a metà tra ferito e sconvolto. “Non ho più la croce!”
Lo sguardo mi vaga a zig-zag, spaesato, attonito. “E allora?”
Lucilla si scosta brusca, come se di colpo non esistessi, si tasta le cosce, poi a terra, si alza in piedi e nel farlo si volta, disegnandosi per un attimo contro la silhouette del sauro crestato che, a pochi metri, dilata le fauci e soffia in minaccia.
Lei neanche lo considera.
“La croce…”
Barcolla intorno, come uno zombie, come me pochi minuti fa, continuando a toccarsi collo e tette, cercando il monile che non ha più.
Rimango a fissare il nulla con un certo senso di disperazione che inizia a farsi strada nel velo delle emozioni. Un dolore alla mano destra prende a pulsare senza ragione e, guardandola, la mia mano, realizzo che ha dei segni e del sangue che non è di Nancy o di Sigrid.
Forse sono ferita anche io e lo realizzo solo in questo preciso momento.
Vorrei piangere.
Che cazzo è successo qui stanotte?
***
Il messaggio iniziava con Ti faccio una domanda.
I messaggi che iniziavano in quel modo Gioele aveva smesso di mandarli alcuni mesi dopo l’inizio dello show.
I messaggi di Gioele Palazzese che iniziavano con Ti faccio una domanda erano indice di rilassatezza, di benessere, erano la prova che lui era soddisfatto di qualcosa e voleva renderlo partecipe; per questo Max Tambori aveva storto la faccia quando aveva letto la prima riga del messaggio. Si era infilato gli occhiali, aveva controllato l’orologio del salotto strizzando la vista, l’una passata di notte, e poi aveva riletto per essere sicuro.
Ti faccio una domanda.
Gioele aveva smesso di mandare quei messaggi quando Superpredatori si era arenato, quando le vittorie schiaccianti di Atreja e le esecuzioni di prigioniere in lacrime avevano smesso di essere una novità. Quando dimostrare che aveva ragione, che l’aveva sempre avuta, gli era diventato noioso.
Non aveva particolare sonno lui, quella sera, nonostante si fosse abbioccato già più volte davanti alla tv. Il notiziario era passato dal naufragio di un barcone e i suoi sessantatre morti alla rubrica ormai consunta della questione morale, caso Varvato: una donna, una pluriomicida, ha diritto in quanto donna tradita a una pena inferiore?
Ti faccio una domanda.
Ci sono una soldatessa, una suora, una figlia di papà, un Tanicolagreo e un macello, tutto nel medesimo prato. Cosa può essere andato storto?
Max sorrise sotto i baffi radi.
Troppa quiete, in Illumina, da una giornata a quella parte, tutto troppo silenzioso. Se aveva visto giusto, anche poco, con Mercury, i silenzi non potevano durare a lungo. Sì, per carità: un gran lavoro la trattativa con la Gang-Bang del Bosco, il rigirare la frittata, il fare un’alleanza, il mettere su un piano a cazzo duro, diplomazia che non credeva essere nell’arsenale di Mercury la soldatessa e che invece c’era, prova del fatto che fosse l’unica a valere qualcosa nella pessima Ondata 9.
Cosa può essere andato storto?
In realtà non gli importava. Era tutto perfetto così. C’era stato un casino di qualche tipo, qualcosa di grosso, e Gioele aveva scritto un messaggio soddisfatto come non faceva da mesi. Poi apprezzava quel buffo dinosauro con la tosse, il Tanicolagreo, lo metteva di buonumore. Ne aveva visto uno staccare la mano a una concorrente, tempo addietro.
Amava quella donna, Mercury. La amava nel modo in cui si amano i soprammobili costosi e pacchiani. Non ci volle che un piccolo sforzo d’immaginazione per vedersela seduta nuda sulla scrivania dell’ufficio, con la testa reclinata indietro, i capelli al vento, la pelle indorata dal sole e la consueta espressione truce.
Non era il tipo di donna che avrebbe voluto accanto nella vita, ma un costoso e pacchiano soprammobile che avrebbe pagato qualsiasi cifra per avere a disposizione. C’era qualcosa nella sua immagine, qualcosa che andava oltre la semplice bellezza, il portamento, i modi maneschi: una qualità difficile da trovare in una donna, una sorta di aura d’amazzone, una personalità trasbordante, un elemento per nulla e assieme affatto femminile che la rendeva diversa da qualsiasi altra avesse mai calcato le spiagge di Illumina.
Cosa può essere andato storto?
Mercury la soldatessa era una calamita per il caos e questo la rendeva perfetta per far rialzare l’intero show.
Ci voleva tempo, cautela e pazienza, ma era certo di poterla indirizzare sulla strada corretta.
Amo quella donna, digitò in risposta prima di tornare a poggiare la testa sulla poltrona e cullare il proprio ego con il marziale deshabillé di Silvia Mercury Irace.
***