https://www.differentales.org/t540-mi-chiamo-anna-e-un-giorno-sono-passata-di-qua#7567
Non era il primo Natale che passavano da soli. L’età li aveva dolcemente accompagnati ad abbandonare sport invernali, viaggi esotici e festività poliglotte al freddo di piazze lontane.
La famiglia si era allargata, frammentata, dispersa. Separazioni e nuove unioni l'avevano arricchita di varietà intrecciando rami di diversi alberi genealogici. I nipoti e i bisnipoti –sì, ormai si moltiplicava la schiera dei bisnipoti, da perderne il conto e l’alfabeto- spesso dimostravano attaccamenti affettivi senza rispetto dei vincoli di sangue sui quali, in realtà, non tutti avevano le idee chiare.
Si era di fatto creata una specie di turnazione delle nonnità, ponderata dalle distanze e, ammettiamolo, da una specie di inconfessabile scommessa sul rischio di sopravvivenze fino al prossimo, di Natale. Quell’anno poi la pandemia aveva fatto il resto, inserendo vincoli e paure nel complesso algoritmo.
Avevano intanto scelto di non decorare la casa, niente festoni, albero, presepe. Ufficialmente come reazione privata al dispetto provato a vedere le città illuminate a festa nonostante i lutti visibili nelle facce sfatte sotto le mascherine, trasformati con inesorabile frequenza in numeri imputrescibili dalle televisioni, irrazionalmente sottolineati dalle negazioni crescenti. Ma in realtà nella speranza che una casa dall’aspetto abituale li aiutasse a cancellare il disagio di una situazione straordinaria.
Avevano comunque programmato il cenone della vigilia e il pranzo del 25. Nella scia della tradizione, anche se mortificata da vincoli anagrafici e da abitudini alimentari più che morigerate. E avevano molto in anticipo apparecchiato il tavolo della sala come nelle “grandi occasioni”. Il servizio di piatti col filo d’oro già eredità di generazioni passate che forse nessuna delle future avrebbe desiderato, gradito, accettato. Chi più aveva in casa lo spazio per un servizio da novantacinque pezzi da usare, se va bene, due volte l’anno?
E i bicchieri di cristallo e le posate d’argento, sottopiatti, sottobicchieri, sottobottiglie, centrotavola (non quello natalizio che era rimasto negli scatoloni insieme agli altri ornamenti), olio, sale e simili con i vestiti buoni e comunque inutili per la qualità accuratamente accudita dei cibi. Tutto ordinatamente schierato su una delle tovaglie della festa fatte fare su misura del tavolo di dimensione inusuali quando ancora attorno si riunivano le compagnie degli amici ormai tristemente ridotte dall’usura di vite più o meno saggiamente vissute. Ma non quella rossa. E tanto meno le stelline d’oro sparse come su un improbabile cielo marziano.
La vigilia forzatamente casalinga, eravamo comunque zona rossa, e la rapidità di esecuzione del menù avevano lasciato loro tutto il tempo per i tradizionali riti degli auguri. Telefonate alla famiglia, sfuggendo alle insistenze della nipotanza per accendere la telecamera -i giovani non si rendono conto di quanto sia drammatico vedersi deformato dalla tecnologia come se non bastassero gli effetti impietosi dell’età- rapide però per sfuggire al rischio di commozione e non sottrarre tempo a chi cose da fare ne aveva ancora tante. E la gerarchia delle priorità ancora imposta dall’urgenza e non dall’importanza.
Telefonate anche agli amici più stretti, sempre meno, e a qualche parente lontano nel tempo e nello spazio giusto per confermarsi insieme di essere stati giovani, più giovani, rapide però per sfuggire al rischio dei vuoti di argomenti e di memoria. Qualche messaggio? Non è certo il massimo del calore, un messaggio di auguri, ma almeno se risponde hai la certezza che anche per lui, o per lei, non sia ancora finita. E se aspettassimo che si faccia vivo lui (o lei)? Così qualche messaggio parte. Ma molti no. Per molti i dubbi si sono prosciugati, sepolti o bruciati con i loro resti.
Quindi si ritrovano prima della metà del pomeriggio a lasciarsi scorrere tra le dita il tempo dell’attesa. Un libro, un’occhiata a Facebook che senza dubbio sarebbe stato meglio evitare. Qualche pezzo dell’ultimo puzzle sull’Ipad e qualche partita a Sudoku, pure. Stasera il cane lo portiamo fuori insieme, sarà contenta, è Natale anche per lei in fondo.
Ma oggi il tempo è lento; nel silenzio, tra loro ancora carico di vicinanza, passa appena un po’ di melanconia, il rimpianto di una scelta che se avessero potuto avrebbero forse fatta diversa e sullo sfondo il dubbio che magari l’anno prossimo saranno i nostri amici a doverne depennare dalla lista dei messaggi di auguri. La vista si appanna appena ma sono gli occhi che si stancano sempre un po’ prima. Qualche parola trattenuta a preservare quello strato di serenità apparente, gli sguardi che si sfuggono a sostenere una bugia concordata.
Ceniamo?
Va bene. Mi preparo in un attimo.
Lui pensa: Sì, ci prepariamo.
Quando si ripresentano in sala sono bellissimi. Lui è tirato, in giacca e cravatta, rossa. Lei ha un tubino nero che non metteva da anni e una sciarpina di seta, rossa. Un filo di trucco, uno di perle, avvolta nel suo profumo più caro, nel senso di quello che ama di più. Anche lui veste un profumo, quello che lei gli ha regalato tanti anni fa e che lui ha tenuto da conto, usandolo con estrema parsimonia e solo per le loro, rare, uscite a due.
Si scambiano un sorriso timido, forse il primo vero sorriso della giornata, è insieme un apprezzamento e un ringraziamento reciproco.
E si cena; gamberetti in salsa rosa, è nella loro tradizione. Lei porta in tavola il pesce con la crema di zucca; questo è tradizione rivisitata, un abbandono alla sua, di lui, voglia di novità. Davanti al piatto insolito, insolitamente invitante, c’è un attimo di pausa, una sospensione. Chissà dove sono i loro pensieri. Forse ai lontani, forse al passato, forse ai passati. Si sono presi il loro attimo di libera uscita.
La mano di lei è poggiata sul tavolo, un po’ in avanti. La fede nuziale e la fedina con i diamanti, piccoli, molto piccoli, di tanti anni prima, rallegrano a stento quella mano che mostra per altro i segni del tempo, delle fatiche e delle carezze. È una vecchia mano ma per lui è sempre bellissima.
Tende la sua a stringerla, leggermente, per richiamare i suoi pensieri. La libera uscita può essere pericolosa.
Lei alza lo sguardo dal piatto, sorpresa, la sua reazione istintiva sarebbe di ritrarre la mano, in fondo non ha mai soverchiamente amato le smancerie. Ma non stasera, anzi la protende ancora un po’ e ricambia la stretta.
Sorridono ai loro pensieri adesso uniformi: non sono affatto soli, non questa sera, mai in realtà.
È una conferma e una promessa. È il loro regalo per questo Natale duemilaventi.
Non era il primo Natale che passavano da soli. L’età li aveva dolcemente accompagnati ad abbandonare sport invernali, viaggi esotici e festività poliglotte al freddo di piazze lontane.
La famiglia si era allargata, frammentata, dispersa. Separazioni e nuove unioni l'avevano arricchita di varietà intrecciando rami di diversi alberi genealogici. I nipoti e i bisnipoti –sì, ormai si moltiplicava la schiera dei bisnipoti, da perderne il conto e l’alfabeto- spesso dimostravano attaccamenti affettivi senza rispetto dei vincoli di sangue sui quali, in realtà, non tutti avevano le idee chiare.
Si era di fatto creata una specie di turnazione delle nonnità, ponderata dalle distanze e, ammettiamolo, da una specie di inconfessabile scommessa sul rischio di sopravvivenze fino al prossimo, di Natale. Quell’anno poi la pandemia aveva fatto il resto, inserendo vincoli e paure nel complesso algoritmo.
Avevano intanto scelto di non decorare la casa, niente festoni, albero, presepe. Ufficialmente come reazione privata al dispetto provato a vedere le città illuminate a festa nonostante i lutti visibili nelle facce sfatte sotto le mascherine, trasformati con inesorabile frequenza in numeri imputrescibili dalle televisioni, irrazionalmente sottolineati dalle negazioni crescenti. Ma in realtà nella speranza che una casa dall’aspetto abituale li aiutasse a cancellare il disagio di una situazione straordinaria.
Avevano comunque programmato il cenone della vigilia e il pranzo del 25. Nella scia della tradizione, anche se mortificata da vincoli anagrafici e da abitudini alimentari più che morigerate. E avevano molto in anticipo apparecchiato il tavolo della sala come nelle “grandi occasioni”. Il servizio di piatti col filo d’oro già eredità di generazioni passate che forse nessuna delle future avrebbe desiderato, gradito, accettato. Chi più aveva in casa lo spazio per un servizio da novantacinque pezzi da usare, se va bene, due volte l’anno?
E i bicchieri di cristallo e le posate d’argento, sottopiatti, sottobicchieri, sottobottiglie, centrotavola (non quello natalizio che era rimasto negli scatoloni insieme agli altri ornamenti), olio, sale e simili con i vestiti buoni e comunque inutili per la qualità accuratamente accudita dei cibi. Tutto ordinatamente schierato su una delle tovaglie della festa fatte fare su misura del tavolo di dimensione inusuali quando ancora attorno si riunivano le compagnie degli amici ormai tristemente ridotte dall’usura di vite più o meno saggiamente vissute. Ma non quella rossa. E tanto meno le stelline d’oro sparse come su un improbabile cielo marziano.
La vigilia forzatamente casalinga, eravamo comunque zona rossa, e la rapidità di esecuzione del menù avevano lasciato loro tutto il tempo per i tradizionali riti degli auguri. Telefonate alla famiglia, sfuggendo alle insistenze della nipotanza per accendere la telecamera -i giovani non si rendono conto di quanto sia drammatico vedersi deformato dalla tecnologia come se non bastassero gli effetti impietosi dell’età- rapide però per sfuggire al rischio di commozione e non sottrarre tempo a chi cose da fare ne aveva ancora tante. E la gerarchia delle priorità ancora imposta dall’urgenza e non dall’importanza.
Telefonate anche agli amici più stretti, sempre meno, e a qualche parente lontano nel tempo e nello spazio giusto per confermarsi insieme di essere stati giovani, più giovani, rapide però per sfuggire al rischio dei vuoti di argomenti e di memoria. Qualche messaggio? Non è certo il massimo del calore, un messaggio di auguri, ma almeno se risponde hai la certezza che anche per lui, o per lei, non sia ancora finita. E se aspettassimo che si faccia vivo lui (o lei)? Così qualche messaggio parte. Ma molti no. Per molti i dubbi si sono prosciugati, sepolti o bruciati con i loro resti.
Quindi si ritrovano prima della metà del pomeriggio a lasciarsi scorrere tra le dita il tempo dell’attesa. Un libro, un’occhiata a Facebook che senza dubbio sarebbe stato meglio evitare. Qualche pezzo dell’ultimo puzzle sull’Ipad e qualche partita a Sudoku, pure. Stasera il cane lo portiamo fuori insieme, sarà contenta, è Natale anche per lei in fondo.
Ma oggi il tempo è lento; nel silenzio, tra loro ancora carico di vicinanza, passa appena un po’ di melanconia, il rimpianto di una scelta che se avessero potuto avrebbero forse fatta diversa e sullo sfondo il dubbio che magari l’anno prossimo saranno i nostri amici a doverne depennare dalla lista dei messaggi di auguri. La vista si appanna appena ma sono gli occhi che si stancano sempre un po’ prima. Qualche parola trattenuta a preservare quello strato di serenità apparente, gli sguardi che si sfuggono a sostenere una bugia concordata.
Ceniamo?
Va bene. Mi preparo in un attimo.
Lui pensa: Sì, ci prepariamo.
Quando si ripresentano in sala sono bellissimi. Lui è tirato, in giacca e cravatta, rossa. Lei ha un tubino nero che non metteva da anni e una sciarpina di seta, rossa. Un filo di trucco, uno di perle, avvolta nel suo profumo più caro, nel senso di quello che ama di più. Anche lui veste un profumo, quello che lei gli ha regalato tanti anni fa e che lui ha tenuto da conto, usandolo con estrema parsimonia e solo per le loro, rare, uscite a due.
Si scambiano un sorriso timido, forse il primo vero sorriso della giornata, è insieme un apprezzamento e un ringraziamento reciproco.
E si cena; gamberetti in salsa rosa, è nella loro tradizione. Lei porta in tavola il pesce con la crema di zucca; questo è tradizione rivisitata, un abbandono alla sua, di lui, voglia di novità. Davanti al piatto insolito, insolitamente invitante, c’è un attimo di pausa, una sospensione. Chissà dove sono i loro pensieri. Forse ai lontani, forse al passato, forse ai passati. Si sono presi il loro attimo di libera uscita.
La mano di lei è poggiata sul tavolo, un po’ in avanti. La fede nuziale e la fedina con i diamanti, piccoli, molto piccoli, di tanti anni prima, rallegrano a stento quella mano che mostra per altro i segni del tempo, delle fatiche e delle carezze. È una vecchia mano ma per lui è sempre bellissima.
Tende la sua a stringerla, leggermente, per richiamare i suoi pensieri. La libera uscita può essere pericolosa.
Lei alza lo sguardo dal piatto, sorpresa, la sua reazione istintiva sarebbe di ritrarre la mano, in fondo non ha mai soverchiamente amato le smancerie. Ma non stasera, anzi la protende ancora un po’ e ricambia la stretta.
Sorridono ai loro pensieri adesso uniformi: non sono affatto soli, non questa sera, mai in realtà.
È una conferma e una promessa. È il loro regalo per questo Natale duemilaventi.