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Il punto in cui la vista spazia verso il forte è quasi lo stesso dove ci siamo fermate ieri, forse anche migliore. Jade conosce bene la zona, ci ha portate lei qui: uno spigolo di roccia che fuoriesce dagli alberi, che dà sulla parete a strapiombo, sulla distesa d’erba al cui limitare c’è il fortilizio delle Erinni.
Visuale ottima, copertura di arbusti, alberi dietro le spalle per proteggersi il culo se arriva qualcuno.
“Come ti sembra?” Accenno alla dea della caccia e lei controlla la visuale attraverso la lente del mirino.
Annuisce. “Molta superficie in vista. Ma siamo anche distanti.”
“Consideralo un vantaggio se qualcosa va storto.”
Deposito zaino e abiti lì accanto, assieme a quelli delle altre, un piccolo concentrato dei nostri pochi beni; prendo le due bacinelle di rame che ho fatto portare a Jade, le vado a posare qualche metro più indietro, tra gli alberi, perché coprano, a occhio, la maggior parte della linea, creino un mini-perimetro a protezione di quel triangolo di roccia che si affaccia sul mondo.
“Ehi,” richiamo l’attenzione di Artemis, le mostro dove ho messo i recipienti, “Ricordati che tengono le bestie a distanza, per cui se arriva qualcosa mantieni il sangue freddo.”
“Okay.”
“Lu,” accenno, “La cannella, per favore.”
Esegue. Da quando ha la croce è tornata quella che conoscevo.
“Contro l’albero. Ehi. Contro l’albero.” Foxx mi guarda stanca, si volta, non capisce. “Mettiti contro l’albero, di schiena. Adesso.”
Espira. Si muove, incerta. “Quale?”
“Quello.”
“Questo?”
“Quello, cazzo.”
Ubbidisce, lenta, provata. Rimane eretta con la schiena contro il fusto del larice.
Mi avvicino, giro intorno all’albero, controllo che sia solido, non abbia punte, frammenti sporgenti, cose che possano diventare armi improvvisate. Tolgo di spalla la corda.
“Metti le mani dietro, intorno al tronco.”
Espira costernata. “Non mi legare di nuovo…”
“Cosa hai detto che avresti fatto alla prima occasione? Avevo capito tagliarci la gola, o qualcosa del genere. Metti le mani dietro.”
Un singulto la scuote, appoggia la testa al legno. “Che cazzo però…”
“Le mani!”
Ubbidisce, frustrata. Le lego i polsi che non arrivano a toccarsi, con cura, con pazienza, con tutti i nodi del caso, avvolgo la corda intorno al tronco più volte. Non deve liberarsi per nessun motivo al mondo.
“Allarga le gambe.”
“Pure!”
“Non hai capito che ti sto dando una remota possibilità di restare viva, no?”
Impreca tra i denti, poi ubbidisce; divarica le gambe quanto basta perché i piedi le stiano ai due lati del tronco. Le assicuro le caviglie intorno al fusto con un altro lavoro di pazienza e nodi.
Quando torno davanti, squadrandola con occhio clinico, vedo solo il corpo seminudo, dorato, di una giovane donna sconfitta e col volto segnato dalle percosse.
“Tu stai qui,” la ammonisco, occhi glaciali, “A proteggere le spalle della mia tiratrice. Sig,” la guardo, “Tu ci devi coprire. Resti qui e ci osservi dall’alto: se qualcosa va storto devi fare quello che puoi per aiutarci. Intesi?”
Annuisce, cupa.
“Il braccio?”
Se lo controlla d’istinto, lo muove, apre e chiude il pugno. “Sopportabile.”
“Mi raccomando, concentrata. Non farti distrarre da niente. C’è lei,” torno a guardare la Volpe, “Che ti avvisa se succede qualcosa qui intorno. Intesi?”
Foxx scuote il capo, incredula. “Spero vi vada male, qualunque cosa abbiate in mente.”
“Se va male a noi, va male anche a voi.”
Sigrid sorride, fredda, accenna alla prigioniera. “Io la imbavaglierei, Mercury. Non vorrei che mi distraesse con le sue cazzate.”
Silenzio. Ha un senso.
Non possiamo correre rischi.
Prendo uno degli stracci del nostro magro bottino.
Foxx si agita per un attimo nei vincoli. “No, vabbé, no…”
“Apri la bocca.”
“Vi odio, vi odio, spero che…”
Qualunque cosa speri sfuma in un mugolio soffocato; stringo il panno dietro la sua nuca, controllo, la lascio. Sigrid continua a sorridere divertita. “Meglio.”
“Ehi.” Alzo un indice perché capisca che non c’è un cazzo da scherzare. “Concentrata. Per favore.”
“Tranquilla. È solo un’idea suicida, che vuoi che sia.”
Mi sposto a guardare il paesaggio giù dallo strapiombo, la distesa d’erba, il forte poco lontano, con la sua recinzione elettrificata, il cancello, la garitta. La parete di roccia al fondo e i segreti che ci sono dall’altra parte.
Sono un soldato vestito da volpe che scruta il mondo e pensa che tentare la sorte sia meglio di nascondersi in attesa d’essere prese.
Sono un soldato, anche se mi hanno tolto la divisa, l’onore.
Sono un soldato.
Lo sono ancora.
Guardo il forte e memorizzo gli edifici, i punti significativi, soprattutto le zone che la mia tiratrice può vedere e quelle che invece sono fuori dal suo campo visivo.
“Se mi vedi alzare le mani, così, al cielo”, mando giù la saliva, “Tu spara.”
“A cosa?”
“Quello che ti pare, magari prima ai problemi per noi più grossi. Se alzo le mani, così, vuol dire che siamo fottute e tu devi cominciare a sparare. Chiaro?”
“Cristallino.”
“Se va male,” deglutisco, “Se ci prendono, se ci ammazzano, ritieniti libera di fare quello che vuoi. Non ti biasimo se te ne vai, io farei lo stesso.”
Lei annuisce, ravvia i capelli dorati. Non replica.
Espiro. L’attesa, l’adrenalina, stanno iniziando a crescere.
Lucilla torna dal suo lavoro di pesta-mele e impasta-cannella, ha un cenno d’intesa come a dire che ha fatto il suo, che i recipienti sono operativi; se tutto funziona come deve terranno le bestie lontane da questo angolo d’isola per il tempo che occorre. La chiamo a me, così Jade.
“Pronte?”
La ragazza-procione abbassa lo sguardo, umetta le labbra. “È una cosa che non può funzionare. Ci faranno a pezzi.”
“Ehi,” la scuoto per le spalle, “Siamo nelle tue mani. Sei tu che devi guidare la cosa, hai capito? Se sbagli tu siamo fottute tutte.”
“Io non penso di farcela…”
“Ce la devi fare. Sei l’unica.”
“Francy è più brava di me…”
“No, no, no, non esiste proprio. La tua amica è una stronza, non mi fiderei neanche se non avessi scelta. Poi tu sei più bassa di tutte noi, chi cazzo si mette il tuo costume e si spaccia per te? Non è credibile, capisci?”
Annuisce, non convinta. Ha paura, una paura fottuta, si vede, lo sento.
“Ascolta.” La prendo per un braccio, la sposto qualche passo più in là, perché siamo solo io e lei, le altre non sentano. “Guardami.”
Mi fissa, occhi scuri, pavidi, i capelli neri, lisci, che le incorniciano il viso tondo dai tratti armoniosi.
“Jade, come ti chiami? Il tuo nome vero.”
“Giada.”
“Cazzo che fantasia.” Sorrido, sdrammatizzo, un sorriso che comunque sembrerà cattivo, da stronza, da mostro. Sono un mostro, un’assassina. “Giada, io sono una pessima persona, d’accordo? Pessima. Non volevo che andasse così con voi, con Tania, non lo volevo. Ma è andata così, ormai non si torna indietro, possiamo solo salvare il salvabile. E mi servi tu per farlo. Chiaro?”
Annuisce, come in ipnosi.
“Giada io te lo dico. Se per caso laggiù decidi che mi tradisci, che ci fai scoprire, che vuoi vendicare Tania o altre cazzate di questo tipo, perdi la tua amica. Se capita qualcosa a me o alla suora per causa tua, Sigrid prima di andarsene spara in testa alla Volpe. Le ho dato precisa indicazione. Hai capito?”
Annuisce ancora.
“Lo voglio sentire: hai capito?”
“Sì.”
“Non farmi arrivare a tanto.”
“No.”
“Se invece ce la facciamo, se funziona, valuteremo a cose fatte, magari vi lasciamo andare. Non è una promessa, ma ti deve bastare. Intese?”
“Sì.”
“Ottimo.”
Un buffetto d’incoraggiamento, lei guarda dietro le mie spalle; mi volto, Lucilla ha in mano uno dei telefoni, lo schermo illuminato, sta vibrando. Chiamata in arrivo.
Non me l’aspettavo. Avevo dimenticato che ci fosse mezzo mondo, oltre di noi, mezzo mondo che guarda, giudica, aspetta. È assurdo perché quello è stato il mio pensiero fisso dal primo momento, il primo, che sono entrata in questo show.
Me lo hanno ricordato continuamente, durante e dopo l’addestramento, quando mi hanno chiesto di fare delle sessioni di workout davanti alle telecamere: mettersi una tenuta da palestra di quelle attillate, che vedi solo su Instagram, e sollevare pesi, fare piegamenti, squat, tutte quelle cose che mettono in evidenza il culo, a maggior gloria del maschio medio e della femmina invidiosa.
Un modo per entrare in empatia col pubblico, dicevano, farsi conoscere, apprezzare. Ammirare.
Culo, gambe, il resto.
Tutto con l’idea di essere guardate, fissate, senza sosta, da quando siamo scese dall’elicottero e siamo entrate nella giungla, quando ci hanno prese, trascinate alla rupe. Denudate come cagne.
Poi pian piano il pensiero è calato, s’è nascosto. Riemerge di tanto in tanto, ma non è più un chiodo fisso, non è la prima sensazione che mi attraversa la testa quando devo fare qualcosa, qualsiasi cosa: forse l’abitudine fa anche questo. Illumina fa anche questo.
Fisso inebetita il telefono che vibra nella mano mignon di Radiosa, è quello che abbiamo ricevuto tra i rifornimenti: glielo prendo e rispondo in un unico, subitaneo movimento.
“Pronto.”
“Mercury.”
“No, aspetta, fammi indovinare.”
Riconosco la voce. È lui, il Gallo Cedrone, l’uomo-nerd, voce gioviale, l’unico cui sembra fregare qualcosa di noi.
“Mercury, cosa state facendo?”
“Secondo te?”
“Stai veramente pensando di entrare nel forte travestita da Foxx la Volpe?”
“No, pensavo di andare al carnevale di Rio. Interessato?”
Risatina moderata. “Senti, tesoro, per quanto io ami il tuo umorismo…”
“Nessuno ama il mio umorismo.”
“E fatti due domande. Adesso sono serio, ragazza-soldato: cosa stai cercando di fare? Morire in maniera spettacolare?”
“Sto cercando di salvare questa squadra del cazzo che mi avete dato, peccato sia tutta dentro quel forte. Che poi, mi chiedevo, come fanno quelle bastarde ad avere un forte tutto loro? Con l’elettricità pure! Le case, la sala comune! Noi abbiamo una torre diroccata e loro una fortezza: mi sembra equo!”
“Oh, smettila. Sai dove dormiva Atreja quando ha iniziato? Tra le ali essiccate di uno pterosauro gigante, per nascondere la propria traccia olfattiva. Adesso ha un forte, sì, e molto altro. Se vuoi arrivare ad avere le stesse cose devi essere più prudente, Mercury, soprattutto devi restare viva. Se crepi è finito il gioco.”
“Dai? Non l’avrei mai detto. Peccato che mi sia rotta le palle di aspettare e nascondermi fino a chissà quando; voglio fare qualcosa, e quel qualcosa è entrare in quel dannato forte. Ma se hai altre idee ti ascolto.”
Ha un respiro lungo, cavernoso.
“Io cerco di aiutarti come posso, bellezza, ma tu mi complichi la vita. Se venite scoperte? Lo sai cosa ti faranno, sì? Io non posso aiutarti se ti prendono.”
“Non mi prenderanno. So cosa sto facendo.”
“Io lo spero, perché altrimenti…”
Dubbio improvviso. Alzo lo sguardo, cerco, al solito invano, le telecamere.
“Puoi vedermi?”
“Certo.”
Mi scosto.
“E il pubblico può vedermi?”
“Ovvio.”
“Dico, in questo preciso momento può vedermi?”
Silenzio.
“Dove vuoi arrivare?”
“Avevo capito,” mormoro, mezzo sorriso, “Che non vi fosse possibile interferire con le nostre beghe. Ce lo hanno detto un sacco di volte: non sarete aiutate, siete sole, dovete cavarvela. Adesso mezzo mondo mi sta guardando al telefono con te, Gallo Cedrone, mentre mi suggerisci di non fare una stronzata suicida?”
Silenzio.
Esita.
Inspira.
Poi cede.
“Non ti stanno guardando in questo momento.”
Sorrido, tetra. “Hai spento le telecamere?”
“La tua personal cam, sì, solo quella.”
“Quindi in questo momento non mi vede nessuno?”
“Non è spenta, solo alterata. Riproduce un’immagine fittizia. A proposito,” lo intuisco guardare un orologio, “Non abbiamo molto tempo ancora.”
“Tu,” il sorriso mi si allarga ancora di più, quello da stronza, l’unico che possiedo, “Tu stai violando le regole, bello. E lo fai per me? Sul serio?”
Inspira, nervoso. “Lo faccio per lo show, ragazza. Solo per quello. Pensi di essere l’unica coi capelli biondi o un bel culo su quell’isola? Per lo show: voi mi servite per tenere in vita lo spettacolo, per avere un prodotto che vende. Ho bisogno che qualcuno tolga di mezzo le Erinni, o almeno buona parte di loro, e penso che voi siate le uniche a poterlo fare. Per questo vi assisto, ma non credere che mi comprometterò per voi.”
Una mano in fronte e una risata falsa. “Allora è vero! È tutto pilotato, fate un po’ il cazzo che vi pare con le nostre vite.”
“Dovresti esserne contenta vista la situazione.”
“Oh, lo sono.”
“Ascolta me: lascia perdere tutto, tornatevene alla torre e aspettate tempi migliori.”
“No. No, ascolta tu: dammi due dritte, per semplificare le cose, solo questo.”
“Mercury, vi ammazzeranno. E prima di farlo vi daranno il tempo per rimpiangere la cagata che state facendo.”
“Dimmi dove le tengono. Dove trovo le mie compagne di squadra, in quale punto del forte, così non giro a vuoto. Per favore.”
“Ne hanno solo due nel forte.”
“Solo due?”
“Tre sono già oltre la Porta.”
“La Porta è la spaccatura nella parete di pietra al fondo del forte, sì?”
“Esatto.”
“Cosa c’è oltre la Porta? Cosa difendono queste strabastarde?”
“Hai presente la faccenda del favore dell’isola? Quello.”
“Cosa vuol dire?”
“Non intendo spiegartelo. Ora devo andare.”
“Aspetta! Dove trovo le due che sono ancora nel forte?”
“Una è sepolta nella hot-box. L’altra cercala nella casupola accanto alla lavanda.”
“No, oh, niente frasi da film di merda! La hot-box è la botola?”
“Sì, la botola.”
“E la casupola?”
“Dove c’è la lavanda stesa a seccare.”
Guardo verso il forte, scandaglio gli edifici, “Non vedo la lavanda stesa da questa distanza.”
“La baracca sulla sinistra.”
“Prima o dopo la sala comune?”
“Dopo.”
“Okay, quella a sinistra, piccola, o l’altra ancora più a sinistra?”
“Sì.”
“Sì cosa?! Quella a sinistra o a destra?”
“A sinistra.”
“Ma a sinistra della sala comune o a sinistra della casupola a sinistra della…”
“Madonna.”
“Se non ti sai spiegare!”
“Conta due baracche a sinistra della sala comune: lì dentro c’è una delle tue.”
“GRAZIE.”
“Mercury.”
“Cosa?”
“Fa’ attenzione a Porsha. Non la provocare, non sfidarla. È un demonio, te lo giuro su Dio, evita di averci a che fare se puoi.”
“Come no. Che faceva prima di venire qui? Servizi segreti? Sicario della mafia?”
“Oh, no, era un avvocato.”
Silenzio.
“Un avvocato.”
“Già.”
“Ma voi mi prendete per il culo?”
“Per niente. Era un avvocato sul serio. Perché?”
“Allora non può essere peggio di Atreja.”
“Pensa a una cosa che hai notato di quest’isola e sappi che… Beh, Porsha ne è la causa.”
“Di che stai parlando?”
“Devo andare. Ho già detto abbastanza.”
“No, adesso me lo dici, cazzo!”
“Devo andare, siamo stati troppo al telefono.”
“Me lo devi dire!”
Silenzio.
“OUH!”
Ha messo giù.
Il bastardo ha messo giù.
Il mondo è strapieno di bastardi, ma quelli che ti buttano lì una cosa e non finiscono di dirtela sono i peggiori di tutti. Li odio. Li odio all’inverosimile.
Getto il telefono in una delle tasche del gonnellino, perché questo gonnellino del costume da volpe ha le tasche. Adoro avere le tasche. Mai comprato abiti senza tasche.
Cosa ho notato di quest’isola? Che è un posto del cazzo? Che non fa troppo caldo? Che le bestie sono finte? Che vorrei tornare a casa?
“Comunque,” Lucilla si accosta, ravvia i capelli, “Quando telefoni fai un casino infinito.”
Lo dice anche mia madre.
“Dobbiamo muoverci.” Inspiro, espiro. Una certa ansia si sta muovendo dentro, inizia a serpeggiare. Non voglio allungare l’attesa. Odio le attese.
Vado a prendere le bende naturali, grigie, prese dalla roba della Gang-Bang, che saranno la mia maschera. Lucilla m’aiuta a svolgerle, a medicare la contusione alla fronte e poi mettere su una fasciatura a tutta la testa, qualcosa che mi copra metà del volto; se copri mezzo viso alteri i tratti, la percezione, puoi sembrare una persona diversa. Non ho la pretesa di assomigliare alla faccia strana e lunga di Foxx, solo di sembrare la sua versione pesta.
Le bende usate di Artemis le metto sopra al resto, perché le macchie di sangue facciano sembrare reale la ferita che non c’è sotto. Un occhio, il destro, lo copro per metà, badando che non limiti la visuale più del necessario. Bendo con gli avanzi le mie nocche malconce. Il cappuccio con le orecchie da volpe, ben tirato, adombrerà di più il volto.
Inspiro, espiro.
Guardo la ragazza che, quasi nuda e pesta, lei sul serio, se ne sta legata a un albero a fissare me, coi suoi abiti indosso, mentre faccio la cosa più stupida che qualcuno abbia mai fatto su quest’isola. O così mi piace credere.
Vado a togliere dallo zaino le cariche e il telecomando, infilo tutto nella faretra.
“Ehi,” allungo una mano verso Sigrid, lei accetta la stretta con quel poco di calore umano che possiede, “Noi andiamo. Siamo nelle tue mani se qualcosa va storto.”
“Per favore, tornate. Non voglio restare da sola di nuovo.”
“Andrà a meraviglia. E se ci sarà da sparare, ti prego, prendi bene la mira.”
Annuisce appena. Nei suoi occhi grigio inverno c’è una certa vibrazione, una forma di paura sincera: ne avrei anche di più al suo posto.
“Ti ricordi, sì? Se alzo le mani…”
“Intervengo.”
“Intervieni.”
“Uno degli esplosivi,” mormoro ripassando mentalmente il piano, “Lo piazzerò sotto il cancello del forte. Quando scoppia, se riesco a farlo scoppiare, la prima cosa che devi fare è seccare la sentinella sulla garitta.”
“Ricevuto.”
“Mi raccomando. Bum, uccidi la guardia sulla garitta.”
“Tranquilla.”
Ci sono talmente tante variabili che ho il terrore di non calcolarne qualcuna fondamentale.
Un lungo attimo poi, con quella specie di sorriso invernale, sfoggia un lento saluto militare: gesto di rispetto, presa per il culo, preferisco la prima.
Che poi, perché restare ancorata a una realtà che non mi appartiene più? Non sono un soldato, quel tempo è finito con un processo e il congedo con disonore. Sono solo Silvia Irace con un costume da sexy volpe.
Rispondo, con la mano che trema leggermente.
“Buona fortuna.”
“A te.”
Ci avviamo, senza fretta, in tre, lungo il costone, alla ricerca del primo passaggio utile per scendere. Dietro di noi rimangono Artemis e Foxx, e non ho idea se le rivedrò ancora.
Mi fermo di colpo. “Lu,” mi scosto, un respiro più lungo, “Adesso tocca al tuo travestimento.”
Lei aggrotta le sopracciglia. “Avevo capito che non serviva.”
“Scusa, tesoro, davvero. Prendilo come un male necessario, okay?”
“Ma cosa?”
Le scarico sulla faccia un destro dosato.
***