***
La porta della grande casa comune si è appena chiusa di netto, la serratura scattata con un suono metallico.
Non tutte le Erinni hanno avuto tempo e modo di entrarci: diverse si sono sparse lì intorno e nascoste dietro le casupole.
Mi butto oltre l’angolo della casa comune, acquattata lungo il muro. Altre due Erinni sono lì, una seduta e l’altra in piedi, ansanti: mi guardano mentre premo la schiena contro la parete del prefabbricato e cerco di regolarizzare il respiro. Non credo abbiano tempo di valutare la mia identità.
Ho il cuore a mille.
La testa ovattata.
I passi del sauro pestano regolari, si avvicinano.
Madonna.
Poi cessano.
Scende un silenzio assurdo.
Nonostante il sole, ho freddo fino alle ossa. Deglutisco e il suono sembra sentirsi in tutto il forte.
Una delle Erinni mi fa segno con la mano, scuote la testa, scandisce con le labbra Dov’è?!
Ha paura, per essere una delle veterane di Illumina.
I sauri non attaccano le Erinni: cazzate.
Faccio segno con la testa che non lo so. Devo avere uno sguardo stralunato.
Silenzio, non vola una mosca.
Vorrei sporgere dietro l’angolo per vedere dove sia il mostro, la mia mente si fissa sull’idea che me lo troverei esattamente davanti, la grande testa che aspetta solo me, come nei fottuti film horror.
Non muovo un muscolo.
Le due Erinni mi guardano attonite, la stessa di prima mi rifà cenno di controllare oltre l’angolo. Vorrei mandarla al diavolo.
Umetto le labbra.
È solo un’occhiata, non è pericoloso.
Non sapere dove cazzo sia lui è pericoloso.
Espiro.
Mi sposto d’un passo laterale contro la parete, la gamba trema. Sono all’angolo.
È assurdo che non si senta più niente, come se si fosse volatilizzato.
Sporgo gli occhi per guardare, un millimetro alla volta.
Dio aiutami.
Nulla.
Non si vede, non c’è.
Vedo lo spiazzo sabbioso, il cancello distrutto in lontananza, i resti della croce. Grimmone non c’è.
Ritorno ad aderire con la schiena al muro, guardo verso le due in attesa e faccio segno di no, che non lo vedo.
Dove cazzo è finito?
Può una cosa alta come una casa sparire nel nulla?
Le Erinni guardano in alto, verso il tetto spiovente della sala comune, con l’orrore di vedere la grande testa spuntare al di sopra: nulla.
Dio l’ansia.
È fermo perché sennò sentiremmo i passi sul terreno.
Dev’essere sull’altro lato dell’edificio, ma a fare cosa non riesco a immaginarlo. È alto almeno come la baracca, dovremmo vederlo spuntare al di sopra.
Niente.
Dove cazzo è?
Un bussare leggero alla finestra più vicina della casa fa trasalire tutte e tre: una fottuta Erinni occhieggia dietro il vetro, ci guarda, fa segno di stare calme. Vorrei mandarla a fare in culo.
Calme.
Mi scoppia il cuore tra un po’.
Calme.
Comunica a gesti con le compagne, indica che no, neanche loro, da dentro, lo vedono più anche se non possono avvicinarsi alle finestre dell’altro lato.
Al loro posto mi sarei chiusa al bagno e al diavolo le finestre.
C’era un film in cui uno finiva male dopo essersi chiuso al bagno.
Pensieri tragici.
La tipa che è stata ingoiata viva, poco fa.
Madonna che morte.
Un incubo.
Che poi magari è un robot. Tutto finto. Anche la morte: finta.
Tutto finto.
Tutto.
Un sasso rimbalza contro la parete vicino ai miei piedi, sussulto. L’Erinni di prima mi guarda torva, accenna col capo. Vai a vedere, scandisce con le labbra.
Fingo di non aver capito.
Vai a vedere, muoviti.
Stronza.
Merda.
Lurida.
Tocca il fucile in un gesto di minaccia, fa segno col capo di andare.
Che vuoi fare, spararmi? Se spari fai casino, se fai casino lo attiri.
Faccio segno di no. Sporgo leggermente oltre l’angolo, per sicurezza: di Grimmone nessuna traccia.
Sussulto di nuovo quando un altro sasso mi spiove addosso, stavolta sulla gamba.
Lei, la bastarda, ha alzato il fucile automatico.
Vai o ti ammazzo, pagliaccia.
Dio.
Questo era la Gang-Bang per loro: carne da macello.
Non ho niente per evitare l’incombenza; l’unica sarebbe mettersi a correre verso sinistra, verso le altre casupole sparse, ma se Grimmone è lì vicino, se sta aspettando fermo e immobile, sono fottuta.
Non so che fare.
Vorrei spaccare la testa alle due merde umane che mi guardano e attendono. Non so chi sia peggio tra loro e la bestia preistorica, odio entrambe, mi fanno schifo entrambe.
La mano dell’Erinni raccoglie un altro sasso, a quel punto cedo: la tensione mi sta uccidendo comunque, capire dove cazzo è finito il sauro almeno scaricherebbe i nervi.
Guardo oltre l’angolo per la terza volta e per la terza volta lui non c’è, non si vede.
Prendo un respiro lunghissimo. Vorrei avere la croce di Lucilla, quella che protegge dalle cose orribili.
Madonna, l’ansia.
Ci vuole tutto il coraggio del mondo per schiodarmi dall’immobilità, per scollare la schiena dalla parete, per voltare l’angolo un passetto alla volta, restando appoggiata contro il muro. Gli sguardi tesi delle due Erinni svaniscono dietro lo spigolo del fabbricato.
Ansia.
Costeggio la parete corta della casa comune, lenta, supero la porta d’ingresso sprangata. Ho una paura fottuta di vederlo comparire dietro l’angolo opposto da un istante all’altro.
Una
paura
fottuta.
L’arco e la faretra mi pesano a spalle, strascico i piedi nella sabbia per non fare il minimo rumore.
Ansia.
L’angolo è lì, a pochi centimetri.
Vi aderisco il più possibile.
C’è il cielo, il sole, c’è lo spiazzo sabbioso, la recinzione e il cancello devastato in lontananza. I resti della croce. Due corpi distesi nella sabbia.
Due.
Mi sfugge un sorriso incredulo: Lucilla e Cerbera sono lì, a una trentina di metri, stese nella polvere. Vive.
Assurdo, vive.
Stese nella sabbia, vive.
Vorrei chiamarle, fare cenno, rassicurarle, vorrei che potessimo andarcene tutte e tre ora, subito, via da questo posto maledetto.
Realizzo con un attimo di ritardo che la mano di Lucilla si sta muovendo. Si muove in un gesto minuto, pure frenetico. La distanza, il sole, strizzo gli occhi.
La sua piccola mano si muove di nuovo, in orizzontale, accorata.
Sta facendo segno verso la mia sinistra.
Verso il lato lungo della casa comune.
Sta indicando convulsa qualcosa che sta in quel punto, e quel qualcosa, anche se l’ho dimenticato per un attimo, so perfettamente cos’è.
Il sangue si gela.
Freddo totale.
Tremore.
Sono all’angolo del lato corto del fabbricato, e la bestia è dove avevo immaginato che fosse, su quello lungo, anche se non riesco a capire come, dove, in che modo.
Guardo sullo slancio d’un moto istintivo, occhieggio appena al di là dello spigolo perché questo limbo, questo non sapere, questo silenzio assurdo, mi stanno uccidendo.
Grimmone è lì.
Lì, accovacciato sulle enormi zampe, la coda a frustare il terreno, la testa poggiata sulla sabbia, vigile, in attesa che qualcuno si faccia vivo.
Ci stava aspettando.
Coricato a terra per non farsi vedere.
Aspettava che qualcuna uscisse allo scoperto.
La prima a farsi viva, la cretina numero uno, sono io.
Madonna.
Santa.
L’occhio della bestia, l’unico sano, è fisso sulla mia posizione; un singolo attimo di nulla, di vuoto, di respiro fermo e cuore immobile, poi l’apocalisse.
Il sauro si butta in avanti e si alza con un unico, impressionante movimento.
In un attimo del genere ti passa per la testa qualsiasi cosa. Le gambe ti mollano per un lunghissimo momento, non reagiscono, non ci sono; una parte di te vuole rimanere ferma perché tutto finisca in pochi secondi.
Un’altra parte, che se hai fortuna s’attiva per tempo, ti fa aggrappare con ambo le mani alla parete, ti sospinge indietro per superare il blocco delle gambe. Ti fa iniziare a correre.
Corro.
Corro lungo il lato corto della sala comune coi sensi impazziti e la paura addosso, la paura più brutta della mia vita.
Corro con Grimmone che irrompe oltre l’angolo sbeccando il tetto del fabbricato, la testa protesa in avanti, il frastuono della sua falcata imperiosa.
Corro e volto a destra, oltre l’angolo successivo, al punto da cui sono partita, senza pensare, senza ragionare, col cuore che pompa a mille, imprecando a voce stridula, gli occhi sgranati.
Le due Erinni sono statue di gesso che in questi pochi secondi non hanno capito la situazione, che mi vedono arrivare sparata e bianca in volto con la tempesta alle spalle. Che mi guardano attonite passare loro attraverso, scavalcarle brutalmente, mentre la cosa dietro di me sfronda un pezzo della tettoia e irrompe col fragore del tuono.
Piomba su di loro con le fauci aperte e tutta la cattiveria dell’isola.
Sento un urlo disumano che un istante risuona nell’aria e quello dopo diventa lontanissimo, ovattato, ma non è la cosa peggiore che m’investe l’udito: l’oscenità è il suono che fanno quelle due fauci mentre si chiudono tranciando carne e ossa.
Il sauro si ferma per fagocitare quella delle due su cui ha messo i denti, io non mi fermo. Non ci riesco.
Corro come una disperata fino all’angolo, volto, mi fiondo sull’altro lato corto della costruzione, volto ancora, sono su quello lungo che s’affaccia sul piazzale.
Non mi fermo.
Corro senza controllo, con l’ansia di avercelo alle spalle anche se lo sento raspare il terreno dall’altra parte della casa, corro come in un cartone animato, senza guardare, senza sapere, corro e basta.
Sono di nuovo allo spigolo di partenza, giro, questa volta mollo la sala comune e vado verso sinistra e le altre casupole che costellano il forte. Non mi volto a vedere dov’è, non lo sento neanche, prego solo disperatamente che non mi stia venendo dietro.
Non
mi
stia
venendo
dietro.
Corro fino a buttarmi oltre il primo prefabbricato che mi capita a tiro; appoggio la schiena contro la parete e rimango a fissare avanti con occhi sbarrati. Respiro così forte che i polmoni fanno male, il cuore sbatte sullo sterno con violenza.
Se esiste lo stress post-traumatico da dinosauri ne soffrirò di sicuro.
Garantito.
Respiro a fondo per calmare i nervi.
Ci vogliono una trentina di secondi buoni perché il mio sangue torni a fluire più lentamente e l’ansia si plachi un minimo. Chiudo gli occhi.
Grimmone non mi ha seguita. È impegnato con altro. Il suono della poveraccia che finisce tranciata sotto i suoi denti vibra per un attimo nella memoria, lo affogo strofinando le mani sul gonnellino di pelliccia rossastra.
Dio Santo.
Spero fosse quella che mi ha tirato i sassi, perlomeno.
Riapro gli occhi e realizzo di stare guardando qualcosa che mi è familiare. Più che la vista è l’odore, il profumo, che mi sfiora i sensi: ho davanti, a pochi passi, una semplice rastrelliera di legno con sopra decine e decine di mazzetti di lavanda stesi a seccare al sole.
Cercavo una casupola vicino alla lavanda stesa.
L’ho trovata.
Guardo il piccolo edificio cui sono appoggiata, non è che un prefabbricato di quelli da terremotati, pochi metri per altrettanti, col tetto spiovente e le finestre sbarrate. Se il Gallo Cedrone non mi ha perculata, una delle nostre sta qui dentro.
Sporgo oltre il bordo per cercare la bestia da incubo, che si sta muovendo a ridosso della sala comune, forse alla ricerca di qualcun’altra che ha attirato la sua attenzione.
Non c’è tempo.
Ora o mai più.
Mi sposto lungo la parete, raggiungo la porta d’ingresso.
Dentro c’è una delle nostre, ma potrebbe non essere sola. Potrebbe essere sorvegliata, magari qualcuna delle Erinni in fuga.
Potrebbe essere tutto ma non ho il tempo di starci a pensare: Grimmone emette un verso basso, penetrante, non troppo distante da me.
Brivido.
Fanculo.
Provo la maniglia: chiusa.
Ti pareva.
Non posso mettermi a prenderla a calci, a fare casino, non è il momento. Strattono di più sperando sia solo dura, invece niente: chiusa a chiave.
“Dai, cazzo.”
Guardo frenetica verso Grimmone, lui si ferma, quei trenta metri più in là, alza la testa come a scrutare intorno. Va di lusso che mi trovi nella direzione del suo occhio mancante.
Di lusso.
Non posso fare casino ma non ho alternative: arretro senza smettere di controllare la bestia e i suoi movimenti, carico tutta la forza che trovo nella gamba. Per sfondare una porta serve focalizzare tutta la violenza in un singolo calcio ma servirebbero anche degli anfibi decenti.
Mancano troppe cose nella mia vita.
Uno, due.
Occhiata al mostro.
Tre.
Nel momento in cui tiro su il ginocchio e faccio appello al mio lato distruttivo sento lo scatto inconfondibile della serratura che si apre. Rimango come una cretina con la gamba mezza alzata e un carico di violenza inespressa.
Mi accosto, riprovo la maniglia: si apre senza resistenza.
Bizzarro.
Agguanto il coltello, lo tengo vicino, contro la gamba, poi apro.
Esito un attimo, controllo a destra e sinistra, tesa, temendo un colpo a tradimento.
Entro.
L’interno della casupola è avvolto nella penombra, con un paio di piccoli tavoli e nulla più a riempire lo spazio. La luce del sole filtra dalle tavole di legno che sbarrano le finestre creando giochi striati su pareti e pavimento.
Per un attimo la baracca è vuota, deserta, poi capisco di non essere sola: una figura è seduta a terra contro la parete opposta all’ingresso. Una figura femminile che mi guarda, consapevole, con due occhi verdi di un colore denso, tondi e sporgenti. Privi di qualsiasi emozione.
Occhi che sono l’unica cosa umana del suo volto.
Dopo Grimmone non sono pronta per ciò che c’è qui dentro.
***
“Sei,” la mia voce è impastata, incerta, “Sola?”
C’è un profondo senso d’inquietudine che ammanta l’interno della casupola, e non so decidere se sia la penombra, il caldo o la figura seduta sul pavimento. Se la maschera nera e liscia, di kevlar, che le hanno assicurato sulla faccia. Una maschera con cinghie e fibbie che lascia scoperti solo gli occhi e i capelli, folti e lisci, cadenti sulle spalle, lunghi, di un colore che l’ombra non rivela.
Mi guardo intorno d’istinto, il pensiero di un’insidia, ingiustificato, nell’unica stanza non c’è nulla a parte noi e un paio di piccoli tavoli.
“Sei sola?” ripeto per esorcizzare la tensione.
Lei mi guarda, due occhi verdi torbidi: alza di spalle con noncuranza.
Gli stessi occhi si spostano sulla porta rimasta aperta alle mie spalle; mi volto, nulla, ritorno da lei. La guardo, lei guarda me. Sono iridi nelle quali c’è molto più che il marchio dell’isola.
Mi sposto vincendo l’impasse, m’accosto alla porta, occhieggio fuori: Grimmone vaga lungo il profilo della sala comune. Richiudo con delicatezza, la penombra diventa opprimente.
“L’hai aperta tu?” Torno a guardare la ragazza seduta, la voce è di nuovo insicura, non sono a mio agio. “La porta, dico.”
Non c’è risposta né reazione, solo quei due occhi profondi che scrutano i miei nonostante la poca luce.
“L’hai aperta tu la serratura, cazzo?”
Un attimo di nulla, poi le sue mani si muovono, le mostra avanti a sé con indifferente calma, seguite da un tintinnio d’acciaio: i bracciali che ha ai polsi e la catena che si perde verso il pavimento mi dicono che lei, da lì, non s’è mossa.
Io ho sentito lo scatto della serratura, e può essere stata aperta solo da dentro. Se non sto diventando pazza, questa è un’altra cosa illogica, una delle tante. Forse la meno importante.
Mi accosto, con cautela.
“Sei dell’Ondata 9?”
Silenzio.
Lei guarda me poi sposta gli occhi sul coltello che ho in mano.
“No,” lo sollevo in un gesto conciliante, “Non voglio farti niente. Siamo nella stessa cazzo di squadra.” Lo rinfodero, abbasso meglio il cappuccio da volpe, levo i resti del bendaggio dalla testa. “Mi riconosci?”
Nelle iridi che continuo mio malgrado a fissare c’è dubbio ma anche una certa forma di sorpresa.
Mi accoscio davanti a lei, perché la luce che filtra dalle finestre sbarrate agevoli il tutto. “Ti ricordi di me?”
Io non la riconosco, o meglio, riconosco solo gli occhi; c’era una di noi, nella squadra, che aveva il cappuccio sopra la testa e il volto sempre adombrato. Ragioni di privacy, avevano detto alla partenza, ha avuto problemi con la giustizia. È una carcerata. Fino all’isola, dove la legge smette di essere in vigore, non può mostrare la faccia.
Ricordo i suoi occhi, quelle poche volte che li ho incrociati, nell’hangar, poi sull’elicottero. Sono gli stessi verdi, tondi e abissali, che ora mi guardano nella penombra di questa casupola vuota.
Assentisce con un unico cenno del capo.
La guardo disegnata nella scarsa luce: indossa una corta sottoveste bianca, che lascia scoperte braccia e gambe snelle, e la maschera integrale. Nient’altro.
“Ti porto via da qui.”
Sul verde delle iridi passa un’ombra di crudele divertimento, un’ilarità dosata: mostra di nuovo le mani vincolate, un’unica lunga catena che dal collare che ha alla gola si snoda arrivando prima ai polsi e poi giù fino alle caviglie, assicurandosi infine a un anello di ferro nel pavimento.
Perché l’abbiano imbragata in questo modo non so immaginarlo ma evoca pensieri sgradevoli.
Come le apro delle fottute catene?
Non poteva essere tutto semplice, no, quando mai.
“Sai chi può avere la chiave?”
Fa cenno di no, indifferente.
“Almeno qualcosa per reciderle?”
Alza di spalle.
“Senti,” sto perdendo la calma che avevo a fatica ritrovato, “Gira la testa, per favore.”
Ubbidisce, ma non prima che un altro torbido sguardo ilare la attraversi; armeggio invano per toglierle quella maschera liscia e mostruosa, da film horror, che le hanno ficcato sulla faccia: c’è un lucchetto anche lì. Hanno chiuso le cinghie con un lucchetto. Serve un’altra fottuta chiave per poterla vedere in volto.
È un gioco al massacro.
Mi scosto, nervosa, infastidita. Mi alzo, cammino con le mani sopra la testa per scaricare la tensione.
“Sono venuta fin qui per aiutare te e le altre, cazzo.” Non riesco a decidere se quel suo sguardo sornione mi sta dicendo di lasciar perdere o si sta solo prendendo gioco della mia intraprendenza.
“Aspetta.” Mezza idea, sussulto, adrenalina.
Caccio fuori uno dei coltelli più piccoli appartenuti a Foxx la volpe, mi avvicino di nuovo. “Voglio provare a scardinare la catena.” Lei alza gli occhi come annoiata: mi sta già sui coglioni.
“Levati, spostati.”
Fiducia zero, tutte quante. Non una che prenda per buone le mie idee del cazzo, non una. A parte Lucilla. La suora è l’unica che creda tanto così in me. Dio il fastidio.
Lei si sposta con un paio di movimenti serpentini; la catena è assicurata a un grosso anello nel pavimento, se non posso aprire la catena posso provare a staccare l’anello.
“Renditi utile,” tolgo di tasca il telefono, setto la torcia, glielo ficco tra le mani, “Fai luce.”
Si prende tutto il tempo del mondo per riavvicinarsi, mettersi sulle ginocchia, illuminare l’anello assicurato al pavimento, come se questo salvataggio fosse una seccatura. Madonna il fastidio.
Inizio a trafficare con la punta della lama per cercare di svitare la prima delle quattro viti che tiene l’anello e la piastra cui è saldato al pavimento.
Il silenzio tombale della stanza mi opprime come e più della penombra; alzo lo sguardo per un attimo e incontro il suo, due occhi verdi e sparati che mi scrutano come fanali, fissi, densi. Madonna la soggezione.
“Devi proprio, cazzo?” Mi guarda senza capire. “Lascia stare.” Torno a lavorare di pazienza sulla vite. “Allora? Piace il posto? Manca la guida turistica e poi è come Sharm, uguale. Mai stata a Sharm?”
Fa segno di no.
“Non parli perché sotto la maschera t’hanno pure imbavagliata, sì? Non eri già abbastanza inquietante, no. Che hai fatto per meritarti tutto questo? Voglio dire: da quando sono entrata qui dentro ho visto poveracce appese a una croce, chiuse in una botola, ma tu, oh, tu le batti tutte.”
La fottuta vite si muove, pian piano sta uscendo, ma ci vuole un’eternità.
“Hai insultato la mamma di Porsha?”
Ho sempre il suo dannato sguardo incollato addosso. Mette una soggezione assurda.
“Tra poco ce ne andremo, io, te e le altre. Ce ne andiamo via da questo postaccio di merda.”
Una scarica di fucile, poco distante, mi fa bloccare e saltar su come una molla: ascolto i suoni dall’esterno, possibile che stiano cercando di attirare Grimmone lontano dai punti nevralgici del forte.
Il suo arrivo è stata una benedizione ma di quelle che possono costarti la vita.
Mi rimetto con pazienza al lavoro, ravvio i capelli che continuano a cadermi sulla faccia; non sono abituata a tenerli sciolti. Sto sudando e la tensione non aiuta.
“Okay.”
La vite viene via dopo un’ultima faticosa girata di coltello.
“Okay,” gliela mostro davanti a quei fottuti occhi a palla, “Facciamo così. Adesso vai avanti tu. Hai visto come si fa? Grande. Io non posso fermarmi qui, devo recuperare le altre. Pensi di farcela?”
Il pensiero di Lucilla e Cerbera in balia del mostro mi ansia. Devo recuperarle. Devo ritrovare Jade.
Lo sguardo di lei è impossibile da decifrare, come quello di certi animali.
“Ce la fai di sicuro.” Appoggio il coltello sul pavimento. “Ascoltami bene. Io ora devo andare. Tu finisci di svitare tutto, poi devi raggiungermi: io sto andando verso la Porta, intendo quella fenditura che sta al fondo del campo, hai capito?”
Nessun segno.
“Non lo so dove ci beccheremo, ma tu devi raggiungermi lì con le altre. Là fuori,” indico verso la porta, “È il caos. C’è una bestia carnivora che è entrata nel forte, d’accordo? Fai quello che vuoi ma non farti prendere né da lui né dalle Erinni, e raggiungici. Ce ne andremo insieme da qui, tutte assieme come una cazzo di squadra. Chiaro? Sì, questo è il massimo di piano che ho. Ricevuto?”
Ha un vago assenso, non smette di fissarmi.
“Allora buona fortuna. Il tuo nome?”
La guardo depositare il telefono, poi tracciare sul pavimento con l’indice una serie di lettere una sull’altra, come i bambini.
SE
RE
NI
TY.
“Okay. Puoi farcela, Serenity. Possiamo farcela tutte. Finisci di svitare questa merda poi mi raggiungi verso la parete di roccia, la Porta. Posso contare su di te?”
Ci vogliono una miriade di secondi per il suo assenso, secondi nei quali non smette di scandagliarmi l’anima con quei dannati occhi verde palude.
Un ultimo cenno d’intesa e mi alzo, m’avvio alla porta senza smettere di guardarla.
Fuori è silenzio per un attimo, poi le urla mi obbligano a controllare: Grimmone cammina e accelera tra le baracche vicino alla sala comune, dove qualcuno sta cercando di tenerlo impegnato o portarlo via, senza molta fortuna. Il fatto che non gli sparino addosso è la prova che questa cosa di non uccidere le bestie ha valore anche per le Erinni.
Oppure sanno di non poterlo uccidere.
Perché è un gigantesco automa.
Con una donna nello stomaco.
Ingoiata intera.
Repellenza.
Schifo.
Brivido.
Esco dalla casupola e richiudo cautamente la porta; mi sposto lungo la parete e poi a ridosso della baracca successiva. Se riesco a fare il giro largo dovrei tornare nella zona del piazzale e da lì recuperare Radiosa e Cerbera, poi dovremmo riuscire a tornare verso la Porta. Se mi tengono Grimmone dall’altro lato del forte come ora problemi non ce ne sono.
Problemi non ce ne sono, non ce ne sono, niente, zero, liscio come l’olio.
Nessuna baderà a noi, non ci calcoleranno, vedremo cosa diavolo c’è dietro la Porta e troveremo una via d’uscita. Magari la Porta è un’uscita. È una porta, le porte portano da qualche parte.
Di solito.
È una porta.
Una porta su qualcosa.
L’hanno chiamata Porta.
Con la testa dietro alle congetture inciampo su quel che c’è appena dietro l’angolo della baracca. Lo spavento che prendo è una scarica d’adrenalina nelle vene: cado di faccia e scatto di lato come una biscia, imprecando con gli occhi di fuori, mentre le due figure, una seduta e una all’impiedi, scattano a loro volta in disordine, un gridolino stridulo. Vorrei prendere il coltello ma mi blocco, incredula.
Ci guardiamo in tre ed è come Natale.
Come domenica.
Liberatorio.
Lucilla e Cerbera mi fissano attonite e io fisso loro. Più di tutto Lucilla, che s’è messa in una specie di posizione di guardia reggendo la spada che non possiede.
È
in guardia
con una spada
immaginaria.
La fisso incredula perché cosa vuoi fare di fronte a una roba del genere?
“Che,” balbetto come una ritardata, “Che stai facendo, per Dio?”
Lei espira, si rilassa con due occhi stralunati e una mano sul petto. “Miseria…”
“Tu… Tu facevi finta di avere una spada in mano?”
Vaga gli occhi. “È stato un riflesso.”
“Un riflesso.”
“Me l’hanno insegnato all’addestramento.”
“Te l’hanno insegnato all’addestramento.”
Annuisce.
Non so se ridere o piangere. Siamo messe male, ma di un male, che sembra uno scherzo. Un brutto scherzo. Un orribile scherzo.
“Mercury…”
Guardo Cerbera che, abbandonata contro la parete del fabbricato, fissa attonita e finalmente mi riconosce: ha un gran bel volto, più europeo che africano, con solo le labbra ampie e i foltissimi capelli ricci a tradire le sue origini, oltre al colorito terreo. Sorride debolmente nei quattro stracci laceri che ha addosso.
“Oddio, sei tu…”
“Sono io.”
Chiude gli occhi e un singulto d’emozione la scuote, le agita il petto. “Pensavo che eravate… che vi avessero…”
Mi rialzo, recupero quel poco di dignità che mi resta. “Ci siamo andate vicine.” La guardo singhiozzare in silenzio, il dorso della mano sulla bocca. Fa quasi tenerezza. Penso sia la prima persona al mondo che piange per la gioia di vedermi. Quest’isola fa miracoli.
Miracoli.
Tenerezza.
“Ma possiamo fare i saluti dopo?” Lucilla guarda nervosa verso la casa comune e il suo mostruoso assediatore. Una suora di vent’anni mi cazzia sui sentimentalismi.
È l’isola, sicuro.
È l’isola.
“Ce la fai?” Offro le mani a Cerbera, lei le prende per un momento poi rinuncia.
“Non lo so…”
“Ce la devi fare. Come siete arrivate qui?”
“Mi ci ha portata lei…”
Guardo Lucilla che mi degna appena d’un’occhiata, concentrata com’è sul sorvegliare il passaggio. Perla di sentinella visto che sono arrivata dal lato opposto della baracca senza che se ne accorgessero e sono inciampata su di loro.
Stiamo messe molto male.
Lo dico da giorni.
“Dai, tirati su.” Le offro di nuovo le mani, Cerbera esita ancora, poi accetta la stretta, digrigna i denti, si tira all’impiedi con uno sforzo sovrumano. Barcolla, la sostengo. “Ce la fai, tranquilla.”
“Mi gira la testa…”
“Come ti chiami? Cerbera fa cagare come nome di battaglia.”
“Perché…?”
“Ma non lo so. È un nome antipatico.”
“Satanico,” Lucilla commenta senza guardarci.
“Non è satanico! È il nome di un fiore…”
“Allora dev’essere un brutto fiore se gli hanno dato un nome satanico.”
Faccio cenno di tagliare corto perché so già che con suor Lucilla certe cose diventano battaglie. “Il tuo nome, quindi?”
La ragazza ravvia i folti capelli biondo grano in un cenno pietoso. “Taif…”
“Anche questo suona pagano,” Radiosa segue l’incedere del carnosauro in lontananza.
“È una varietà di rosa!”
“Sarà un fiore pagano.”
“Sì, oh,” altro gesto feroce di non darle corda, “Ascolta me e basta, okay?”
“Okay…”
“Io devo capire se ce la fai, Taif. Noi stiamo andando verso la Porta, è lì che dobbiamo andare. Se ce la fai, se te la senti, vieni con noi; altrimenti ti lascio in quella casupola, dove c’è un’altra delle nostre, riprendi fiato e poi ci raggiungete.”
“Chi c’è dentro?”
“La carcerata, quella che stava col cappuccio sempre calato.”
Il viso già sofferto di Taif-Cerbera diventa una maschera di sgomento. “No, con quella no…”
“Perché?”
“No, no, io vengo con voi… ce la faccio…”
Madonna l’ansia. “Perché con lei no?”
Scuote la testa, attonita, gli occhi vitrei. “Quella sta con le Erinni, Mercury, è passata dalla loro parte.”
Brivido.
Imbarazzo.
Panico.
“Ne sei sicura?”
Annuisce tragica, deglutisce a fatica. “Porsha l’ha fatta prendere per prima, ha detto che era l’unica di noi che si meritava di diventare un’Erinni.”
“Io non credo, no, l’hanno chiusa lì dentro con più catene addosso di Hannibal Lecter.”
“Chi…?”
“Lascia perdere.”
“Io non vado con lei, no. Quella sta con le Erinni, ti dico.”
“Porsha mente, Taif, è il suo mestiere. Sai che faceva prima di venire qui?”
“Vengo con voi, Mercury, ce la faccio.”
“Sicura?”
“Sicura, sì.”
Prego che non ci metta nei guai. La controllo brevemente perché non abbia ferite aperte, sia in quadro al di là delle privazioni. Ha un fisico notevole, gli addominali pronunciati, due cosce così ampie e toniche che deve essersi ammazzata di esercizi dedicati.
Serenity, la carcerata, potrebbe stare dalla parte delle Erinni ora. Io le ho dato un coltello.
Magari era studiato, fare finta che sia internata così se qualcuna la libera non sospetta niente. Io le ho dato un coltello.
Magari invece lei non ha accettato di diventare un’Erinni e l’hanno punita così. Magari.
Chi rifiuterebbe di diventare un’Erinni?
Adesso ha un coltello e l’istruzione di raggiungerci.
Molto bene.
“Senti,” Lucilla mi guarda con aria tesa, “Ma non possiamo andarcene con lei e la tua carcerata? Se facciamo una corsa fino al cancello possiamo farcela.”
“E le altre?”
“Non so, mi sembra che abbiamo già ottenuto un risultato incredibile! Rischiare di più ha senso?”
“Incredibile? Questo era il risultato minimo!”
“Col piano che avevi in mente? Figuriamoci.”
Botta di freddo improvviso. “Come sarebbe?”
“Dai, Silvy, era un piano suicida. Solo un miracolo poteva salvarci.”
Ancora più freddo. Neanche la suora ha mai creduto nelle mie idee del cazzo.
Magnifico.
“Cosa facciamo?” Taif mormora con voce soffocata.
“Siamo qui, io devo sapere cosa c’è dietro la Porta. È lì, laggiù, è vicinissima.”
“Val la pena rischiare così?” Lucilla ravvia i capelli platinati.
“Sì.” Non so perché lo dico, se è solo un impuntamento o se ci credo davvero. “Non possiamo sprecare quest’occasione.” Sporgo oltre la casupola, intravvedo il piccolo pendio, la staccionata di legno che protegge la Porta; delle due guardie non c’è traccia. “Quando ci ricapita?”
“E se oltre quel passaggio non ci fosse niente?”
“E se ci fosse il paradiso?”
Lei mi guarda contrariata.
“Non facciamoci vedere assieme. Mi seguite a distanza. Okay?”
La conferma è sofferta ma mi basta. Faccio loro un cenno d’intesa e mi avvio, con un respiro pieno, verso il paradiso o il nulla.
***