Repubblica di Vanuatu, 1980
Poco prima dell’aurora, Makal andò nel retro della capanna a recuperare il necessario. Lo sgabuzzino, come lo definiva lui stesso, non era molto ampio ma conteneva di tutto; ora però gli serviva solo la pagaia. Inutilizzata, come la canoa, dalla morte del gemello, avvenuta pochi mesi prima e ancora non elaborata del tutto.
Doveva assolutamente parlare con Awari per sfogarsi, cercare di capire.
Andò verso la spiaggia, tolse il telo che copriva la piccola imbarcazione e la trascinò in acqua. Si fermò a scrutare l’oceano e dopo un sospiro entrò nella canoa e diede alcuni colpi di pagaia.
Con fare lento si spinse verso il largo, fermandosi quando si accorse che, volgendo lo sguardo all’indietro, oltre alla sua Tanna si scorgevano Erromango e le isole accanto.
Il sole era sorto da poco e illuminava in maniera dolce l’orizzonte. Makal si guardò intorno e prese a emettere alcuni versi a distanza di pochi secondi.
Meno di un minuto dopo scorse una forma conosciuta avvicinarsi. Awari, di certo.
Il delfino si erse a fianco della canoa e parlò: «Era ora ti facessi vivo, ti aspetto da tempo.»
Sul volto cupo del ragazzo apparve l’ombra di un sorriso: «Ho bisogno di te, Awari.»
«Dimmi, Makal, farò tutto quel che posso, per te» passò sotto la barca ed emerse dall’altro lato.
Il giovane attese qualche istante prima di parlare, quasi stesse cercando le parole giuste.
«Ho sognato mio fratello Lekek.»
«Che c’è di strano, si sognano spesso le persone care che non ci sono più.»
«Continuo a sognarlo, Awari, quasi ogni notte ed è sempre lo stesso sogno. Mi sta torturando.»
«Forse ti senti in colpa, per questo stai male. Ma non potevi fare nulla, non c’eri quando è successo.»
«Appunto, avrei dovuto esserci e invece ero rimasto a casa. Dovevo andare con lui, sarebbe cambiato tutto.»
«Può darsi» ribatté il delfino, «ma può anche darsi di no, non puoi saperlo.»
Makal rimase un poco in silenzio, poi riprese: «È come se mi avessero strappato parte del corpo e dell’anima, è un dolore costante.»
«Se ti lasci penetrare da questo dolore starai sempre peggio, ti divorerà. Prova invece a entrarci tu, diventane parte e tutto si acquieterà. Ci vuole tempo ma avviene.»
«Grazie, Awari, ci proverò. Tornerò presto a trovarti.»
«Ti aspetto» rispose il delfino, poi s’immerse dirigendosi dalla parte opposta.
Per qualche minuto si udì solo il rumore delle lievi onde. Il giovane cominciò a pagaiare verso l’isola, con calma.
Avvicinandosi a riva, Makal rivisse quel giorno per l’ennesima volta, come sempre senza filtri d’alcun genere ma con un carico d’angoscia pronto a debordare in ogni istante. Non si nascondeva nulla, e questo era un punto di forza e debolezza al contempo.
«Questo è un giorno eccezionale, fratello, siamo un paese indipendente. Liberi, senza più alcun giogo inglese o francese» disse Lekek, «andiamo a festeggiare a Isangel, di sicuro c’è baldoria.»
Makal alzò il capo dalla branda volgendosi verso di lui. Occhi assonnati provarono a scrutarlo per poi richiudersi. «Uff… sempre a far baldoria, tu. Dobbiamo andare a pesca, ricordalo, stanotte. È la luna giusta.»
«Ma è un’occasione unica, non arriverà un altro giorno simile…»
«Oh sì, tra un anno esatto ci sarà la festa. E così ogni altro anno, vedrai.»
«Certo, Makal, ma non sarà mai più così. Io vado, tu rimani pure» concluse avviandosi all’uscita.
«Lekek!»
«Che c’è, vuoi venire? Ti aspetto.»
«No, voglio sapere come ci vai. La barca potrebbe servirmi.»
Un sorriso apparve sul volto del ragazzo: «Tranquillo, taglio attraverso il bosco e vado a piedi. Sono poche miglia. Ci vediamo stasera per la pesca.»
«Stai attento, mi raccomando.»
«Sì, sì…» rispose e uscì sghignazzando. Si fermò sul retro e aprì lo sgabuzzino cercando con gli occhi. E trovò. I suoi piedi erano abituati alla terra e al mare, ma un paio di scarpe in tela, da ginnastica, gli sarebbero state utili. Le calzò e partì.
Il sole era tramontato da un po’ e si avvicinava l’ora in cui dovevano uscire per la pesca, ma di Lekek ancora non c’era traccia e cominciava a preoccuparsi sul serio. Anche se, in contemporanea, dentro di sé lo insultava definendolo un fannullone, uno che voleva sempre e solo divertirsi.
Barca e attrezzi erano ormai pronti, mancava solo suo fratello per completare l’opera.
Ma dov’era rimasto? O era davvero successo qualcosa? Il timore di un incidente gli era giunto alcune ore prima, quando si era sentito attraversare da un brivido, seguito da un dolore acuto svanito in pochi istanti.
La risposta giunse a breve, quando sentì chiamare il suo nome: «Makal…Makal…»
Dal folto degli alberi uscirono alcune persone. Riconobbe i suoi vecchi concittadini di Isangel, ebbe un tuffo al cuore e non riuscì ad andare loro incontro. Rimase immobile, in attesa del dramma che, puntualmente, arrivò.
Una volta di fronte a lui, Warao, sciamano del villaggio, si inginocchiò e depositò ai suoi piedi le scarpe di Lekek, mezze rotte. Si rialzò e lo guardò in viso, un viso stravolto, di una persona incapace di parlare. Quasi di respirare, in quel momento.
«Sono stati i maiali selvatici. Probabilmente è caduto e lo hanno assalito, poi sono arrivati i ratti. È rimasto poco, di lui.»
Voleva chiedere ma non uscivano parole, anche la lingua pareva paralizzata.
Warao comprese: «Lo ha trovato Suamin mentre rientrava, è lui che ci ha avvisati. Era poco lontano dal villaggio e se vuoi domattina andiamo insieme per l’ultimo saluto prima della pira.»
Stordito, incredulo, sperduto, il ragazzo si avviò lentamente verso il mare e si sedette sul bagnasciuga, guardando l’orizzonte infinito.
Rimase così per qualche tempo e quando si alzò per tornare alla capanna vide che non c’era più nessuno. Prese le scarpe del fratello, le mise nello sgabuzzino ed entrò, lasciando finalmente scorrere le lacrime.
Giunto a riva, Makal tirò in secco la canoa e si diresse verso la capanna dove aveva vissuto col gemello gli ultimi cinque anni, dopo che avevano abbandonato il villaggio. Rimise la pagaia nello sgabuzzino e si accorse che qualcuno si stava avvicinando. C’erano voci soffuse e rumore di passi.
Guardò verso il sentiero che usciva dal boschetto e vide Lisin e la figlia Lalal che procedevano verso di lui. Non aveva voglia di vedere nessuno.
Le due donne sorridevano e, una volta di fronte a lui, l’ovvia domanda posta da Lisin fu: «Come stai, Makal?»
Gli mancava pure la voglia di rispondere, di dialogare con altri esseri umani, ma si fece forza e scosse la testa: «Non bene, non bene.»
«Ci vuole tempo, lo sai, e credo che sarebbe meglio per te venire al villaggio. Daren ha bisogno di una mano per mettere i tetti in lamiera alle capanne, saresti molto utile. E ti aiuterebbe a superare il trauma.»
Il giovane la fissò senza rispondere e intervenne Lalal: «Saremmo felici di ospitarti, Makal, davvero felici.»
Sapeva che la ragazza aveva un debole per lui, o forse per Lekek, visto che erano uguali, ma il gemello non c’era più, era rimasto solo. E non aveva voglia di niente. O quasi.
«Ci penserò» ribatté, «ma sapete che preferiamo… preferisco la natura. I tetti di lamiera arroventano l’interno, di giorno, non per niente uso ancora frasche e foglie.»
La donna lo guardò con fare amorevole: «Lo so, e so che siete venuti qui anche per questo motivo, però ti consiglio di tentare. Male che vada te ne torni qua.»
«Ci penserò» ripeté volgendo lo sguardo verso il mare, «ora, scusate, devo preparare gli attrezzi per la pesca di stasera. Salutatemi tutti, anche i miei genitori, se li vedete.»
Un poco affranta, Lisin abbassò il capo e convenne che era ora di lasciarlo. Lo vedeva macerare nel dolore costante e le spiaceva, ma non poteva fare più di quanto tentato.
Makal s’incamminò verso la barca e si fermò nel sentire una mano toccargli il braccio.
Un tocco leggero, dolce. Gli ricordava… no, nessun ricordo.
«Ti aspetto, Makal, ti aspetto» gli disse Lalal lasciandolo.
Era un tocco d’amore.
«Prima di andarsene Lalal mi ha toccato il braccio e io ho avuto una sensazione strana e ho pensato a mio fratello.»
«Quasi ogni cosa ti fa pensare a lui» ribatté Awari, «non so quanto sia positivo, questo.»
«È vero, lo vedo ovunque, mi pare di sentirne la voce e quando lo sogno mi sorride e sembra chiamarmi. Devo andare da lui e so che tu mi ci puoi portare.»
«Sei matto? Significa morire, sai? Nel regno di là si va solo in quel modo. Torna a casa e riposati, Makal.»
Il giovane non rispose e prese a pagaiare verso riva.
«Non verrà, vero, madre?»
Lisin scosse lentamente il capo e abbracciò la figlia baciandole il viso. Le loro lacrime si fusero. «No, Lalal, non verrà.»
Che fosse rimasto fuori a pesca o avesse dormito nella capanna, si trovavano sempre alla medesima ora, ma ogni incontro con Awari si concludeva allo stesso modo: Makal diceva di voler andare dal fratello e chiedeva l’aiuto dell’amico delfino.
Che un giorno arrivò.
«Ho parlato con Alasi e…»
«Il tuo maestro?» lo interruppe il ragazzo.
«Sì. Ha acconsentito a soddisfare il tuo desiderio, ma a una condizione: dovrai venire con me nel profondo. Te la senti?»
Il tremito che percorse Makal era composto da tante emozioni eruttate all’improvviso da dentro. Si sporse dalla canoa e baciò il muso di Awari: «Sì, sì…»
Il giorno dopo, poco prima dell’aurora, uscì dalla capanna e si recò allo sgabuzzino. Prese la pagaia e scrutò fino a quando vide le scarpe di Lekek. Le portò alla canoa, scese in acqua e pagaiò verso il largo.
Bastò un solo richiamo e Awari comparve. Non era solo.
«Awari…»
«Makal, prima di portarti con me volevo presentarti la mia compagna, Eneni.»
«Ciao Makal, Awari mi parla spesso di te. Sei certo di ciò che vuoi?»
Bastò un cenno del capo in assenso.
«Allora scendi in acqua e aggrappati a me» intervenne Awari, «non sarà semplice ma neppure doloroso, visto che il desiderio viene dal cuore.»
Il giovane prese le scarpe del fratello, si gettò in mare e disse: «Devo portargliele, le ha scordate qui.»
I due delfini si guardarono un istante, poi emisero un verso simile a una risatina. Anche Makal sorrise: «Andiamo, mi sta aspettando.»
Si aggrappò alla pinna di Awari che dolcemente s’inabissò.
Non seppe quanto tempo rimase sott’acqua, gli pareva di respirare normalmente. Forse erano passati pochi secondi, forse ore, quando vide una luce sul fondo dell’oceano.
Awari vi si diresse e Makal si accorse che dentro la luce c’era Lekek che, sorridente, gli tendeva le mani. Raggiunto Lekek, Makal si staccò dal delfino e porse le scarpe al fratello.
Questi le prese e lui venne invaso da dolore violento che subito si trasformò in gioia. Prima fu il buio e infine la luce avvolse entrambi, svanendo poco a poco.
«Ora siete di nuovo insieme e non temete, il vostro amore rimarrà segreto» disse Awari.
Con calma si allontanò, seguito da Eneni. Ora non aveva più un amico umano, doveva trovarne un altro.
Lisin e Lalal vagavano nei dintorni della capanna di Makal da un po’, chiamando il suo nome senza risultato. La ragazza scorse una canoa che la marea stava spingendo verso riva.
«Mamma…»
La donna le si avvicinò e la vide a sua volta. Capirono entrambe e il pianto venne spontaneo.
Nelle notti successive, Lalal sognò spesso un delfino che le diceva di volerle parlare, così una mattina si mise su quella che era stata la canoa di Makal e pagaiò verso il largo. Non era ancora l’aurora.
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