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Racconti del vento

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Messaggio Da gemma vitali Lun Gen 18, 2021 6:33 pm

16:11:12
Menica I
 
Per andare alla fontana del paese a prendere l’acqua, doveva fare un lungo tratto di strada. Il vecchio grembiule legato in vita, il fazzoletto in testa; poco si curava di apparire bella, ma la natura le aveva dato due occhi castani dove brillavano pagliuzze dorate, gambe lunghe, forti braccia e un fisico asciutto; non passava di certo inosservata.
Sulla fontana era stata scolpita, nella pietra, una testa di un leone, dalla cui bocca l’acqua fuoriusciva incessantemente e si raccoglieva nella vasca sottostante. Mentre aspettava che si riempissero le cannate, molti seguivano i movimenti di Menica accanto alla vecchia fontana. La mano che si poggiava su un fianco, il gesto sensuale con cui si scostava i capelli dal viso, il sorriso spontaneo che le illuminava lo sguardo, insomma la sua presenza in quel luogo desolato era uno spettacolo per i suoi ammiratori da quando arrivava fino a quando non si allontanava verso casa a passo lento.
Camminava a testa alta, disdegnando quelle occhiate furtive e quegli sguardi accesi e pensava alle sue faccende: aveva intenzione d’ imparare il mestiere di mammana e Faustina, la sua madrina, aveva finalmente accettato la sua richiesta di farla assistere a un parto. Contribuire alla venuta al mondo di un essere umano, partecipare al suo affacciarsi alla vita, la riempiva di entusiasmo e molto probabilmente sarebbe accaduto quella sera stessa.
I genitori però non erano favorevoli a questo suo desiderio e spesso ne nascevano discussioni infervorate che tendevano a dissuaderla dal suo intento. Anche stavolta li trovò in cucina che parlavano di lei. Non si accorsero della sua presenza e rimase lì, ferma, accanto alla soglia, ad ascoltarli. La madre attaccava un bottone a una vecchia giacca sospirando.
— Troppo bella questa figlia nostra, ci procurerà guai.
— No! Menica è una in gamba, vedremo di farla sposare presto…
— Già e che abbiamo da darle come dote, oltre a questa catapecchia e l’orto qua dietro? — sbottò Cettina.
— Fra un po’ dovrà venire pure a lei a lavorare con noi, me lo ha chiesto il padrone. Lo so che a te l’idea non piace. Nemmeno io lo vorrei, ma quello è il padrone… come facciamo a dire di no? - continuò Renzo.
— Lo so.
Si guardarono entrambi con un senso di sconfitta.
Allora lei entrò e mettendo a posto il recipiente con l’acqua disse risoluta: — Appena Faustina mi chiamerà andrò con lei. E non provate a fermarmi. Ormai ho deciso!
— Tu! Tu non puoi. Io ti… — suo padre la minacciò rabbioso col pugno, ma la moglie raddolcì quel pugno stringendolo con entrambe le mani.

La povertà era come una colpa che le persone del popolo, e in special modo le donne, dovevano portarla appiccicata addosso; la vita che si prospettava per loro era, inevitabilmente, fatta di sacrifici e rinunce.
Cettina soffriva per la figlia, temeva che pure se avesse sposato un giovane contadino, lui per quanto l’amasse, dopo qualche tempo, sarebbe tornato a casa ubriaco e l’avrebbe tradita, trovandosi un amante, com’era successo a lei. Oppure, peggio, se avesse fatto la mammana, sarebbe andata incontro a insidie e pericoli entrando di giorno e di notte, nelle case di gente sconosciuta. Chi l’avrebbe protetta?
Il tremore delle sue mani fu avvertito dal marito.
— A che pensi?
— A niente, sono solo stanca.
— Andiamo a letto, allora, che domani mattina all’alba dobbiamo andare alla fattoria.
La fattoria era una delle tante di proprietà del conte Emiliano della Torre, che i due coniugi, insieme ad altri coloni mandavano avanti, coltivando il podere che si estendeva attorno alla struttura e la coppia dopo aver lavorato nei campi accudiva gli animali nella stalla.
Attilio si occupava di portare i sacchi di grano o di patate nei magazzini che i braccianti raccoglievano nei campi.
Renata faceva le conserve di pomodoro e le marmellate di frutta nella grossa cucina a pianterreno del fabbricato, aiutata dalle donne che venivano tutte le mattine e a mezzogiorno andavano via.
Egidio, il fattore, portava la contabilità, facendo sempre in modo che andasse a favore del padrone e ogni volta che dava ai sottoposti la misera paga ghignava sotto i baffi. Trovava sempre il modo di togliere qualcosa a quei poveracci e intascarlo per sé.
Renzo e Cettina restavano a lavorare alla fattoria dalla mattina alla sera, dopodiché stremati tornavano al casolare a bordo di un vecchio carretto, tirato da un asino. Era il solo mezzo di trasposto che avevano e la donna pregava che il vecchio animale campasse più tempo possibile in modo da sostenerli.

Quel giorno era brutto tempo, il cielo era coperto di nuvole che parevano inchiostro nero. Marito e moglie erano appena tornati alla fattoria e s’affannavano per mettere al riparo le bestie che gironzolavano sull’aia e i sacchi del raccolto da un acquazzone imminente.
— Attilio!
— Renata!
— Egidio!
Nessuno rispose. Sembrava non ci fosse nessuno alla fattoria quel giorno.
I lavoranti a giornata erano già tornati dai campi, appena visto il cattivo tempo si erano affrettati a tornare alle loro case prima del previsto, pur rischiando di non essere pagati. Egidio vedendo che non si presentava più nessuno a riscuotere il proprio compenso era andato via. Soltanto loro due, come tutti i giorni, avevano aspettato di terminare il lavoro prima di tornare alla fattoria.
Entrarono nella stalla insieme alle bestie per ripararsi dalla pioggia che si era scatenata. Cettina portava in mano una lampada perché nella stalla era quasi del tutto buio, fuori l’acqua scrosciava a fiotti impetuosi; lei cercava di spingere le mucche al loro posto, mentre il marito legava i cavalli. Un pezzo di legno di traverso la fece inciampare e nel locale che era pieno di paglia e fieno, e le fiamme divamparono in un istante. Gridò aiuto e Renzo che era lì vicino accorse, insieme cercarono di spegnere l’incendio, continuando a strillare impauriti gridando aiuto, ma nessuno corse in loro soccorso.
In realtà alla fattoria c’erano ancora due persone, ma erano troppo occupati nelle loro cose per sentire altro.
Attilio e Renata erano nella cucina. Avevano acceso un bel fuoco e stavano bevendo un bicchiere di vino. Avevano chiuso porta e finestra e il rumore della pioggia arrivava come un suono lontano, interrotto da tuoni e fulmini che arrivavano attutiti. Erano soli e si guardavano negli occhi in modo strano, attratti l’uno dall’altra. Il fuoco del camino alimentava le sensazioni, il vino infiammava i sensi accendendoli, si ritrovarono quindi l’uno tra le braccia dell’altro dimentichi del mondo intorno.
Nella stalla intanto una trave di legno aveva ceduto ed era caduta in testa a Renzo colpendolo con forza, l’uomo era rovinato a terra tramortito. Cettina si era chinata e lo scuoteva chiamandolo: - Renzo, Renzo! - ma lui non rispondeva.
Allora aveva cercato di portarlo fuori in salvo, ma era pesante e non era facile trascinarlo. Si era piegata, aveva infilato le braccia sotto le ascelle dell’uomo e lo tirava con tutte le forze. La sua veste fatta di tessuto scadente, che intanto si era asciugata, aveva preso fuoco e una vampata di fiamme aveva avvolto la donna.
Impaurita aveva cercato di strapparsi i lembi di vestito che bruciava gridando come ossessa con quanto fiato aveva. L’ambiente era completamente impregnato di fumo e lei lo stava respirando già da un po’. Perse i sensi, cadendo accanto al marito.
I due in cucina intanto annusarono il fumo che si era infilato tra gli infissi, aperta la finestra videro le fiamme e accorsero, ma ormai troppo tardi. Don Emiliano che aveva avvistato l’incendio arrivò in groppa al suo cavallo affiancato dal suo fattore e trovò i due coniugi morti e la stalla completamente incenerita, con gli animali che vagavano impauriti nei dintorni e Attilio e Renata che cercavano di recuperarli.

Solo pochissime persone seguivano le bare di Renzo e Cettina: il sacerdote, Menica straziata dal dolore, Faustina, il fabbro con la moglie e qualche contadino del paese. Partendo dal vecchio casolare percorsero in corteo il viale fiancheggiato dagli ulivi, poi proseguirono fino alla fontana col leone e quindi arrivarono in piazza, alla chiesa della Madonna del Carmine. La gente si era riversata fuori dalle case e attendeva per strada per potersi unire al piccolo corteo; tutto il paese fu presente ai funerali. Solo il conte e i suoi lavoranti non si videro.
 Il giorno dopo Egidio si presentò a casa di Menica a dirle che il giorno dopo si doveva presentare al lavoro in casa Della Torre: doveva ripagare il danno subito con l’incendio della stalla.
— Il vostro padrone non si è degnato di onorare i morti e adesso pretende di beffare anche i vivi? Non verrò mai a lavorare da lui! Ho già un lavoro, e ho anche un’arma per difendermi — disse, puntandogli contro il fucile di suo padre, anche se non aveva mai sparato in vita sua.
Il fattore annuì allargando le braccia, non le risparmiò il suo sguardo malefico, ma lei non s’intimorì.
— Via! Esci da casa mia! — E rimase con l’arma puntata contro di lui fino a che l’uomo non se ne andò.
Nessuno si fece più vedere al casolare e Menica pensò che quel borioso del conte avesse deciso di lasciarla perdere, con tutte le ricchezze che possedeva non aveva certo bisogno di sfruttare anche una povera orfana sventurata come lei.

Avendo necessità di lavorare, come aveva già deciso da tempo cominciò a seguire Faustina e ad assistere ai parti e facendo tesoro della tecnica e dall’abilità della madrina, in breve tempo, si mostrò pronta e capace di intraprendere quel mestiere. Dopo aver provato da sola ad aiutare qualche donna a partorire, sempre in presenza di Faustina, visto che era andato tutto bene, anzi se l’era cavata egregiamente, decise di lavorare in proprio.
Sapeva come fare e ci metteva tutto l’impegno di cui era capace, per cui dopo alcuni mesi la voce si sparse e la gente cominciò a rivolgersi a lei, anche perché Faustina ormai cominciava a invecchiare.
In cambio del suo lavoro otteneva pochi grana o qualche tarì - quando il neonato apparteneva a una famiglia benestante – oppure riceveva come compenso i prodotti della terra - quando la nascita avveniva in una casa di povera gente -, riusciva comunque a provvedere alle sue necessità e ne era soddisfatta, anche perché, per buona sorte, le persone, sia i ricchi che i poveracci, continuavano a fare figli.
 
Non aveva paura a vivere da sola, era una ragazza decisa e determinata e nel villaggio si sentiva al sicuro, tutti la conoscevano e avevano un’ottima opinione del suo operato e dicevano che avesse le mani d’oro. Ogni volta che una donna era sul punto di partorire, mandava qualcuno della famiglia a prelevarla.
Una mattina Anselmo, un contadino del villaggio, a bordo di un carretto sgangherato - sul quale un asse longitudinale fissato al veicolo fungeva da sedile - attraversò di corsa il paese e poi imboccò il viottolo di campagna fiancheggiato ai due lati da ulivi centenari, in fondo al quale abitava Menica.
Sua moglie doveva dare alla luce il loro quarto figlio. Affannato le chiese di sbrigarsi. Lei preparò la sua bisaccia con l’occorrente per tamponare e zaffare, in caso di emorragia, e salì sul carretto. L’uomo incitò il cavallo e dopo pochi minuti giunsero a destinazione.
La partoriente, in quel momento, se ne stava tranquilla, con le membra abbandonate nel letto, nella sua camicia di tela grezza odorosa di candeggina e sudore, sospirando pesantemente. Le donne di casa non erano tutte presenti: alcune si trovavano in cucina col compito di far bollire l’acqua e di preparare da mangiare, le altre si trovavano nei campi a lavorare la terra, perché il lavoro da fare era tanto e non poteva essere trascurato.

Nella camera da letto, pochi stracci e fasce per avvolgere il nascituro erano pronte sul ripiano di un mobile. Nella stanza oltre alla puerpera c’era la madre di lei Nena, che le sistemava il copriletto consunto e la incoraggiava.
— Manca poco figlia mia, stringi i denti…
Vedendo arrivare Menica la salutò cordiale: - Vieni, comare! Manca poco, ormai serve solo qualche spinta.
Lavate le mani per bene, la mammana si preparò al suo compito e dopo brevi manovre un vagito stridente echeggiò nella stanza.
Un maschio di oltre tre chili, sano e robusto che non smentiva le caratteristiche della sua razza venne al mondo... Anselmo avrebbe avuto un buon aiuto nei campi.
Dopo aver lavato e avvolto in fasce e pannolini il neonato, i familiari della puerpera invitarono Menica a festeggiare insieme a loro con un buon bicchierino di nocino.
Nena aveva scostato le pesanti tende ingiallite che rabbuiavano la stanza; fuori dalla finestra si vedevano i boschi e i monti circostanti immersi nel verde. Qualcosa di strano, misterioso attirò l’attenzione di Menica: poco discosto dalla collina c’era un picco di monte brullo che mostrava due punte rocciose e per uno strano effetto ottico pareva offrire all’osservatore l’immagine di un volto demoniaco. Un brivido le percorse le membra da capo a piedi.
Nena che si era accorta del turbamento della ragazza, forte delle conoscenze popolari che per tradizione erano arrivate fino a lei, disse sospirando: — Fa spavento, vero, comare mia... non per niente lo chiamano: “Il picco del diavolo”. Pare che il demonio quando vuole procurarsi nuove anime discende da lassù e, sotto forma di vento, devasta raccolti, fa appiccare incendi e come se non bastasse si accoppia con qualche bella ragazza per rubarne l’anima.
Vedendo il volto preoccupato di Menica la puerpera nel letto intervenne: — Mamma, smettetela, sono tutte dicerie, non vedete che la state spaventando?
Nena tacque e sorrise a Menica.
— Passa dalla cucina che Anselmo ti darà il tuo compenso e poi ti riaccompagnerà a casa.
Prima di andar via quindi le diedero formaggi, olive, un sacchetto di patate novelle e un po’ di verdura come pagamento per il suo intervento.
Tornando a casa a bordo del carretto traballante di Anselmo, la fanciulla aveva il sole negli occhi: quando con il suo aiuto nasceva una nuova vita, si sentiva speciale e la gioia di essere stata utile le si leggeva sul viso. E lei che già era molto bella, con quei color castagna che ondeggiavano fino alla vita e quegli occhi luminosi che parevano splendere, lo diventava ancora più. Attraversò il centro abitato e la piazza del piccolo borgo, gli occhi degli uomini carichi di cupidigia le si rivolgevano insistenti in maniera più o meno aperta. Non disdegnavano di ammirarla neanche i gentiluomini e i nobili che la incrociavano per strada, in particolare il conte Emiliano Della Torre. Nonostante la storia dell’incendio e il rifiuto della ragazza, quando la vedeva ingoiava saliva a vuoto e sollevava leggermente il suo tricorno sui riccioli rossastri; incantato dalla sua pelle bianca, dal seno prosperoso e dalla fierezza dei suoi occhi. La notte poi non dormiva, sognando di lei e spesso doveva ricorrere a decotti di valeriana per rilassarsi.
Menica non badava a tutti quegli sguardi, per lei semplicemente era come se non esistessero e poco se ne curava, quelle erano persone, specie il conte, con le quali non avere niente da spartire. Il padrone che aveva angariato i suoi doveva essersi rassegnato… quando lei passava si levava il cappello con deferenza. “Che uomo abominevole…” pensò.

La sua vita, oltre al lavoro, era fatta di solite cose: si occupava della casa, pulendola con cura e del piccolo orticello che zappava e innaffiava, concimava, coltivando broccoli, zucchine e lattuga. Ora doveva anche occuparsi del vecchio asino che era l’unico amico rimastole e lei ne approfittava per andare al paese col suo carretto. Si sentiva libera, non doveva dire grazie a nessuno.
Periodicamente faceva il pane nel vecchio forno, con le fascine raccolte nel bosco e impastava il lievito come le aveva insegnato sua madre: acqua e farina in dosi stabilite, che ormai lei sapeva mescolare a memoria. Quella sera c’era vento, Menica aveva messo dei ciocchi sul fuoco per scaldarsi, faceva freddo nel vecchio casolare e le fiamme che illuminavano la casa le trasmettevano calore e sicurezza. Si apprestava a preparare l’impasto. China sulla madia lavorava l’impasto che aveva preparato; con movimenti ritmici si alzava e abbassava sul recipiente di legno e per comodità aveva sollevato l’orlo della veste.
Dalla porta di casa, sgangherata e tenuta ferma da due assi longitudinali, che lei non aveva pensato di aggiustare, il vento entrava dispettoso sempre con più irruenza. Una folata arrivò così forte che la vecchia porta, mal chiusa, si spalancò e un vortice di vento le sollevò il vestito da dietro, lasciandole le gambe scoperte. Fece per rassettarsi, ma il vento impetuoso glielo impedì bloccando ogni suo movimento.
Sentiva l’aria che saliva su per le cosce fino ad arrivare alle parti intime e intontita non riusciva a capire cosa stesse succedendo. Poi inattesa la veste le fu rovesciata sulla testa e si sentì afferrata per le spalle da quello che doveva essere un uomo giovane. La immobilizzò con forza e spingendola contro la madia la possedette con foga. Lei cercò di divincolarsi, spaventata dall’assurdità di quanto stava vivendo, ma non fece altro che accelerare la brama con l’uomo si stava approfittando di lei. Le sue grida di rabbia e dolore si levarono alte, nella buia cucina, ma nessuno poteva udirla in quel casolare sperduto. Quando riuscì a voltarsi, fece appena in tempo a vedere un’ombra scura avvolta da un mantello.
— Chi sei, maledetto! — urlò sconvolta, ma l’ombra era già riuscita a fuggire dalla porta spalancata.
Corse a chiudere la porta e la fermò spingendoci contro tavolo, sedie e ogni pezzo di mobilia le sembrasse adatto ad ostacolare l’accesso alla sua casa. Stravolta andò a rannicchiarsi accanto al fuoco: non pianse, non gridò, ma continuò a tremare a lungo. Rimase quasi tutta la notte accanto alla cenere del camino e quando finalmente a piedi nudi e infreddolita raggiunse il suo giaciglio si addormentò in un istante col fucile di suo padre accanto.
Il giorno dopo la forza d’animo che l’aveva sempre contraddistinta prese il sopravvento. Decise di procurarsi delle assi di legno per rinforzare la porta di casa e di aggiungere un chiavistello bullonato per rinforzare la porta. Si recò in paese dal fabbro, al quale di recente aveva fatto nascere un bambino e che, non avendo come ripagarla al momento, le era rimasto debitore.
L’uomo era alla sua bottega e la vide arrivare a bordo del carretto, aveva un’aria strana, ma del resto era rimasta orfana da poco tempo.
— Ho bisogno di rinforzare la porta di casa, sono sola laggiù e non si può mai sapere… — disse lei.
— Qualcuno ti ha infastidita, Menica?
— No, ma prima che accada meglio provvedere - rispose senza guardarlo negli occhi, non poteva certo raccontargli quanto era accaduto.
L’uomo prese gli attrezzi necessari e salito insieme a lei sul carretto si recarono al casolare.
Il fabbro inchiodò nuove assi longitudinali e applicò una sbarra di ferro tenuta ferma da un chiavistello chiodato, infine applicò alla porta un grosso catenaccio di modo che lei potesse chiudere dall’interno, la sera.
—Ottimo lavoro — fece lei soddisfatta.
Si sentì finalmente al sicuro. Appena rimase da sola provò a chiudersi dentro.
“Bene!” pensò… “Funziona”.
Lei non aveva paura, non ne aveva mai avuta e non avrebbe cominciato ad averne adesso. Sorrise. Se la sarebbe cavata come aveva fatto fino ad allora, non temeva né il vento, né gli uomini e ancora nuove vite sarebbero venute al mondo grazie a lei, rendendola felice.

Erano passati alcuni mesi da quel giorno. La primavera era ritornata e il verde brillante dei prati dei cespugli e i canti degli uccelli che nidificavano sugli alberi vicini, ravvivavano quel casolare solitario e silenzioso. Mentre era in cucina il rumore di un galoppo attirò l’attenzione di Menica. Il conte Emiliano Della Torre, venne a bussare alla sua porta, chiedendo celermente il suo intervento per la nascita del suo primo figlio.
— Scusa, Menica, ma non c’era tempo di legare il cavallo al calesse, devi venire subito, mia moglie sta partorendo — disse invitandola a salire dietro di lui.
Lei aveva un con vecchio vestito nero da poveraccio, ma dall’atteggiamento sembrava una nobildonna. Lo guardò dritto negli occhi con le braccia incrociate: — E cosa vi fa pensare che io sia disposta a venire con voi?
— Non ti sto chiedendo di venire a fare la serva, ma di fare il tuo mestiere la mammana. Verrai ricompensata lautamente.
— E se non volessi venire?
— Saresti responsabile della morte di una madre e di un bambino. Sbrigati a venire, ogni minuto può essere prezioso.
 Il buon cuore di Menica, ebbe il sopravvento e poi lei era pronta per dare la vita non la morte, anche se si trattava dell’odiato conte.
— Va bene, andiamo! 
Tolse il grembiule, prese il suo vecchio scialle nero e consunto, mise a tracolla la sua bisaccia e montò sul cavallo. Gli zoccoli dell’animale affondavano nella polvere che si sollevava repentina, ad ogni buca era costretta a reggersi al petto dell’uomo spingendosi contro il suo corpo, e lui respirava gli odori e l’aspra dolcezza della sua femminilità e se ne inebriava.

La contessina Della Torre si annunciò con grida che arrivarono fin sulla porta di casa. La mammana entrò nella stanza in cui era coricata: giaceva in un bagno di sudore per le fitte al ventre che si facevano sempre più frequenti. Le donne della casa avevano già pronte bacinelle con l’acqua calda, bende di cotone, fasce, pannolini, asciugamani, tutto pronto per accogliere il primo figlio di don Emiliano.
La stanza era in semioscurità: alle finestre tende di pesante velluto rosso. Un candelabro d’argento illuminava il volto pallido della donna distesa nel letto, con la camicia da notte di seta con voile rosa e le braccia scoperte appoggiate alla coperta damascata, che luccicava di rilievi dorati.
La duchessa Alberta detergeva la fronte della figlia, che gemeva in preda alle doglie, bagnando un panno di lino nel catino bianco smaltato e continuava a rinfrescarle il collo, il petto e le braccia amorevolmente. Le altre donne se ne stavano immobili, in disparte, ad aspettare ordini, mentre finivano di riporre con cura gli asciugamani ricamati, preparati per il lieto evento, le fasce di lino e canapa che odoravano di nuovo ed emanavano una lieve fragranza di violetta.
Tutte guardavano lei… aspettavano i suoi ordini. Menica si avvicinò alla partoriente cercando di insegnarle come regolare il respiro.
– Inspirate aria dal naso, contessina, quando sentite arrivare la fitta dolorosa e poi espirate dalla bocca e spingete verso il basso.
L’utero si era dilatato, ma il bambino aveva difficoltà a uscire… si era messo di lato. Menica sudava freddo, la situazione era complicata, si fece forza e continuò con numerose manipolazioni per cercare di incanalare il feto nel modo giusto. Alla fine il neonato venne fuori livido, violaceo, a testa in giù. Menica lo scuoteva per cercare di trovare in lui tracce di vita, ma il piccolo non piangeva: era nato morto.
Sconfitta dal triste evento la levatrice rimase immobile, mentre intorno a lei le donne scatenavano l’inferno gridando come forsennate.
— Strega!
— Assassina!
— Donna del demonio!
 La afferrarono per i capelli e la spinsero fuori la porta, con l’intento di linciarla trascinandola per la scalinata. Il conte era accorso al capezzale della moglie, mentre gli uomini attratti dalle grida si erano armati di mazze e forconi. Menica stretta tra le serve di casa si dimenava per sciogliersi dalle mani delle donne che l’attanagliavano per tenevano ferma. Ma lei era abituata alla fatica ed era carica di energia e l’istinto animale che la spingeva a difendersi moltiplicava la sua forza, pareva una tigre per come si dibatteva, riuscì quindi ad avere la meglio sulle altre e con uno strattone rabbioso riuscì a liberarsi. Approfittando dell’uscio aperto, impaurita, scappò nella campagna con le mani ancora sporche del sangue della partoriente.

Aveva paura. Se tornava a casa l’avrebbero raggiunta e ammazzata. Che fare? Doveva trovare un nascondiglio. Correndo per i campi s’inoltrò in un sentiero di montagna, molto pericoloso, dove nessuno si azzardava mai ad andare. S’inerpicò tra i cespugli si avventurò attraverso un reticolato che le ferì pesantemente un braccio, passò attraverso rovi e spine e, con gambe e braccia graffiate, raggiunse una grotta seminascosta da rovi, dove era impossibile arrivare a cavallo.
Forse lì sarebbe stata al sicuro per un po’ di tempo.
Nella bisaccia aveva il materiale che portava sempre con sé per il suo lavoro, disinfettò le ferite e si fasciò il braccio sanguinante che le bruciava e le faceva male. Sentiva il calpestio dei cavalli nella campagna intorno, le grida degli uomini che la stavano cercando; le arrivavano le loro imprecazioni e le bestemmie. Il latrare dei cani a volte sembrava avvicinarsi, ma dopo un poco si allontanava di nuovo scemando. Aveva trovato un ottimo nascondiglio che si poteva raggiungere solo a piedi intrufolandosi tra i rovi.
Con l’ombra della sera i suoi inseguitori sospesero le ricerche, poté tirare un sospiro di sollievo. Appoggiato il capo su una sporgenza di roccia si rannicchiò e stretta nel suo scialle si addormentò.
Il giorno dopo, all’alba, prima che ricominciassero a darle la caccia si avventurò nei dintorni per procurarsi qualcosa da mangiare, qualche bacca, cicoria, mele e prugne selvatiche, finocchi, lumache e qualche noce rimasta sugli alberi. Conosceva una piccola sorgente lì vicino e ne approfittò per bere, lavarsi il viso e ripulire la ferita del giorno prima. Poi tornò a rintanarsi nel suo nascondiglio, mentre gli uomini del conte continuavano a cercala senza tregua.
 Emiliano, in groppa al suo cavallo, cavalcava furente, pieno di rabbia e di livore. Quella donna gli aveva dato il tormento da sempre: quando si era rifiutata di andare al suo servizio, quando passava altera e quando sorridente tornava a casa dopo il suo lavoro. L’aveva sognata tutte le notti, l’aveva desiderata follemente fino a quando quella sera era entrato attraverso la porta del vecchio casolare che era stata spinta provvidenzialmente dal vento.
L’aveva spiata mentre ammassava il pane e in attimo alle sue spalle l’aveva posseduta prima che lei potesse ribellarsi, ma aveva avuto tra le braccia un corpo gelido, freddo, che l’aveva lasciato con l’amaro in bocca. Pure quando si era rifiutata di andare a lavorare per lui aveva continuato a bramarla. E ora che quella dannata donna aveva causato la morte del suo primo figlio gli era entrata ancor più nel sangue con un misto di odio e di desiderio che tormentavano le sue notti. Doveva vendicarsi… farla sua schiava e poi darle la morte.
Quando la sera tornava a casa senza averla trovata, doveva ricorrere alle gocce di laudano che il medico aveva prescritto a sua moglie dopo il parto per riuscire a calmarla, ma le notti del conte trascorrevano lo stesso in bianco.
Lei, i lunghi capelli ondulati, quegli occhi dorati, fredda come il marmo, bella come una dea…


Ultima modifica di gemma vitali il Lun Feb 01, 2021 10:20 am - modificato 8 volte.
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Messaggio Da Petunia Mar Gen 19, 2021 1:42 pm

Ciao Gemma
Ho riletto il primo racconto dell’abbraccio del vento. Mi piace il fatto  che tu abbia cambiato il titolo in “Racconti del vento” lo trovo più calzante. Mi pare anche che tu abbia curato la stesura, corretto i refusi e arricchito le descrizioni. Brava! Continuerò a seguirti. Questi racconti “fuori dal tempo” , dall’atmosfera magica, sono deliziosi.
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Messaggio Da gemma vitali Mar Gen 19, 2021 3:54 pm

Ho cambiato il titolo anche perché  qui si parla di racconti progressivi e poi sebbene legati tra loro in un certo senso si possono anche considerare racconti a se stanti. Grazie per esserci sempre. Grazie Petunia.flower
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Messaggio Da bucaneve88 Ven Gen 22, 2021 4:37 pm

Ciao, Gemma. Sei il primo racconto che leggo in DT oltre ai 100, hai una bella responsabilità...ehehe.
Brava, Cocca. Mi piace la presentazione della protagonista, l'ambientazione e la descrizione del mondo contadino in cui vive. Anche il carattere volitivo di Menica la definisce al meglio. Per il mio personale sentire, ci sono delle piccole imprecisioni nella forma, niente di importante, ma, nel caso decidessi di pubblicare il libro una volta terminato, sarò ben contenta di aiutarti a "ripulirlo". Un sapore antico e buono con tutti i crismi giusti per appassionare lettori e specialmente lettrici romantiche come me.

Anche io, come Petunia, attendo il seguito. bounce
Brava.

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Messaggio Da gemma vitali Ven Gen 22, 2021 5:06 pm

bucaneve88 ha scritto:Ciao, Gemma. Sei il primo racconto che leggo in DT oltre ai 100, hai una bella responsabilità...ehehe.
Brava, Cocca. Mi piace la presentazione della protagonista, l'ambientazione e la descrizione del mondo contadino in cui vive. Anche il carattere volitivo di Menica la definisce al meglio. Per il mio personale sentire, ci sono delle piccole imprecisioni nella forma, niente di importante, ma, nel caso decidessi di pubblicare il libro una volta terminato, sarò ben contenta di aiutarti a "ripulirlo". Un sapore antico e buono con tutti i crismi giusti per appassionare lettori e specialmente lettrici romantiche come me.

Anche io, come Petunia, attendo il seguito. bounce
Brava.
Ciao Ginevra, averti come lettrice mi riempie di gioia. Infine ci si ritrova sempre, la passione per la scrittura e lettura che ci accomuna è troppo forte. Un abbraccio forte. cheers 
A presto.  
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Messaggio Da FedericoChiesa Dom Apr 25, 2021 4:55 pm

Ciao Gemma. Anche a me piace scrivere ambientando le storie in un mondo passato, con mestieri scomparsi.
Mi piacerebbe ci fosse qualche accenno al periodo storico, magari con un semplice riferimento, e a dove si svolge la vicenda.
Ahimè sono fatto così, un po' precisino.
Adesso proseguo con gli altri capitoli.
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Messaggio Da gemma vitali Lun Apr 26, 2021 12:08 pm

FedericoChiesa ha scritto:Ciao Gemma. Anche a me piace scrivere ambientando le storie in un mondo passato, con mestieri scomparsi.
Mi piacerebbe ci fosse qualche accenno al periodo storico, magari con un semplice riferimento, e a dove si svolge la vicenda.
Ahimè sono fatto così, un po' precisino.
Adesso proseguo con gli altri capitoli.

Grazie per il commento  se non sbaglio si dovrebbe capire in seguito l' ambientazione. Comunque  e un paese  in Campania nei pressi del fiume Sabato.
La pignoleria può  essere un difetto, ma anche una virtù. A rileggersi.
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Messaggio Da mirella Sab Dic 04, 2021 6:13 am

È una bella storia, Gemma, piena di movimento, azioni, gesti, personaggi. Grazie ala scrittura fluida e chiara si legge agevolmente, coinvolgendo il lettore in un’atmosfera d’altri tempi. I luoghi sono suggestivi come quel Picco del diavolo, un particolare paesaggistico e leggendario che allude a quanto accadrà nella cucina di Menica quando il vento, spalancando la porta , permetterà all’odioso conte di stuprare la ragazza.
Sulla descrizione del Picco potresti tornare per arricchire l’ambientazione, basterebbero poche frasi o anche due o tre parole quando parli dei funerali che si svolgono nella chiesa “della Madonna del Carmine” ( Matrice di…) per indicare il luogo.
Credo che il racconto abbia un seguito, ma non mi è chiaro se hai in mente di scrivere un romanzo breve o più racconti che abbiano il vento come filo conduttore. Continuerò a seguirti con grande piacere.

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Messaggio Da gemma vitali Sab Dic 04, 2021 10:48 am

mirella ha scritto:È una bella storia, Gemma, piena di movimento, azioni,  gesti, personaggi. Grazie ala scrittura fluida e chiara si legge agevolmente, coinvolgendo il lettore in un’atmosfera d’altri tempi. I luoghi sono suggestivi  come quel Picco del diavolo, un particolare paesaggistico e leggendario che allude a quanto accadrà nella cucina di  Menica  quando il vento, spalancando la porta , permetterà all’odioso conte di stuprare la ragazza.
Sulla descrizione del Picco  potresti tornare per arricchire l’ambientazione, basterebbero poche frasi o anche due o tre parole quando parli dei funerali che si svolgono nella chiesa “della Madonna del Carmine” ( Matrice di…) per indicare il  luogo.
Credo che il racconto abbia un seguito, ma non mi è chiaro se hai in mente di scrivere un romanzo breve o più racconti che abbiano il vento come filo conduttore. Continuerò a seguirti con grande piacere.

Grazie Mirella, si tratta dei primi capitoli di un romanzo , anche se  possono anche essere considerati come storie a sè. A rileggerci. flower
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