Estate 1965
La prima sigaretta la fumai con Mary.
Eravamo seduti su un muretto a guardare il fiume muoversi lento e scuro sotto di noi: a tutti e due sembrava un enorme animale ostile, con il ventre mosso dalle prede divorate. Lei si guardò intorno e accese la sigaretta furtiva: rimasi senza parole nel vedere tutto quel fumo bianco uscire dalla sua bocca.
«Tieni, ma non la traspirare» mi consigliò. Indugiai su cosa fare, ma solo per un attimo. Presi l’esile cilindro di carta e lo portai alle labbra.
Inspirai e subito mi sentì soffocare; vinto dalla tosse mi piegai in due.
«Sei proprio un bambino!» disse dandomi una pacca sulla schiena e poi rise.
La guardai, rosso per la vergogna e per la tosse. Era bella Mary, e l’immagine di lei che ride baciata dal sole del primo pomeriggio è rimasta impressa nella mia mente come qualcosa di meraviglioso.
Con gesto deciso la riprese e la finì con rapide boccate.
«Fa schifo» fu il mio verdetto.
«A me piace» rispose e rimanemmo a fissare le chiatte galleggiare sul fiume poi, senza dire niente, si accoccolò al mio fianco come una gatta bianca e chiese se avessi scritto qualcosa.
Tirai fuori il foglio che avevo in tasca e lessi la poesia che avevo immaginato per lei. Parlava del sole, del vento e della primavera che, nonostante tutto, arriva sempre.
«Fa schifo» sentenziò, ma si strinse più forte al mio fianco così seppi che, invece, le era piaciuta.
«Mi piace il vento, mi piace descriverlo» dissi.
«Anche a me. Mi… mi sparpaglia i pensieri.»
«Sì, li porta…»
«Lontano» concluse. Le piaceva terminare le mie frasi. Mi piaceva sentire le frasi terminate da lei.
La baciai e lei si strinse forte a me. Avevo tredici anni quell’estate, lei qualche mese in meno e ci piaceva stare insieme in quel modo nuovo e segreto che stavamo scoprendo. La cosa più simile all’amore che abbia mai provato.
«Maryyy!» la voce di sua madre arrivava sempre troppo presto, e il grido stridulo con la quale la chiamava mi ricordava il gracchiare molesto di un corvo.
«Mary! Ma dove cazzo sei! È l’ora di fare il bagno, sbrigati!»
Insieme sussultavamo a quel grido e ci aggrappavamo l’uno all’altra con più forza. Lei mi chiedeva ancora un bacio, il più bello, e io ero felice d’accontentarla.
«Certo che tua madre è proprio fissata con questa storia del bagno tutti i giorni.»
«Già» rispondeva con gli occhi bassi, ma poi li alzava e puntava le sue perle celesti su di me, colme di qualcosa che non riuscivo a comprendere «Ma tu sbrigati a diventare un poeta famoso, così mi sposi e mi porti via di qui» e se ne andava.
Io scrollavo le spalle e un po' arrossivo, senza capire che quella non era una lusinga nei miei confronti, ma il disperato appello d’aiuto di una prigioniera condannata a morte. Ero solo un ragazzino che non sapeva niente della vita e rimanevo sul muretto, incantato a guardare i suoi capelli brillare al sole, con la testa piena di poesia e il cuore gonfio di qualcosa che mi faceva fare lunghi sospiri.
Languivo, mentre lei andava a morire ancora un po'.
Mary era la figlia della portinaia dello stabile dove vivevo, un caseggiato triste e nero intriso dell’odore dei Docks. Vivevano lì, in una stanza ricavata dietro la portineria. Anzi, la portineria stessa era la loro casa, perché la signora Irving, la madre di Mary, passava tutto il suo tempo lì, lavorando a maglia o ascoltando la grossa radio che aveva messo accanto al bancone.
Con Mary m’incontravo tutti i giorni, dopo pranzo, su quel muretto vicino al fiume. Prima arrivavo io, poi lei e stavamo lì a parlare e immaginare un mondo tutto strano, ma che piaceva un sacco a entrambi. Stavamo lì, fino a che l’urlo acido di sua madre non la chiamava a casa per fare il bagno. Quando rincasavo, la trovavo seduta nella portineria con addosso il suo bel vestito azzurro, i capelli pettinati e un po' di rossetto sulle labbra.
Passavo a testa bassa e confezionavo un saluto anonimo per entrambe, tutto concentrato a fare finta di niente, producendo con ogni probabilità l’effetto opposto. Infatti la signora Irving mi rispondeva con frasi sibilline e poi rideva, ma io affrettavo il passo senza rispondere, impegnato a raggiungere le scale più in fretta possibile. Ma prima di salire lanciavo sempre un rapido sguardo alla portineria: Mary seduta triste, con lo sguardo basso, sua madre che canticchiava qualche canzone dei Beatles mentre spazzava.
In casa mia madre mi rimproverava sempre.
«Eri con Mary, vero?»
Il mio silenzio era già una risposta.
«Ascoltami bene, Paul. La devi lasciar perdere quella ragazzina, intesi?»
Scrollavo le spalle, come se non sapessi di cosa stesse parlando e me ne andavo in camera. Sotto la finestra c’era la scrivania e sedevo lì, a scrivere le poesie per Mary, a costruire il mondo che tanto le piaceva, mentre fuori dalla porta mia madre inveiva contro dio per averle dato un figlio così stupido.
A cena era anche peggio perché la mamma chiedeva il supporto del papà per farmi desistere dall’idea di frequentarla, ma lui non si pronunciava troppo sull’argomento.
«Mary, Mary…» si limitava a dire scuotendo un po' la testa come se per lei ormai non ci fosse più niente da fare. E io iniziai a odiarli per quel muro che volevano alzare tra noi.
Ogni tanto mi nascondevo all’ombra del pianerottolo e osservavo Mary seduta in portineria. Sedeva muovendo un po' le gambe avanti e indietro, stropicciando l’orlo del vestito: sembrava più piccola della sua età.
Con discrezione si avvicinava qualche uomo, scambiava due parole con la signora Irving e poi tendeva la mano a Mary. Lei si alzava, afferrava quelle mani e accompagnava lo sconosciuto nella stanza dietro la portineria, mentre sua madre sedeva dietro il bancone nascondendo da qualche parte le sterline che le avevano dato.
«Chi sono quegli uomini che vengono da te il pomeriggio?» chiedevo a Mary seduti sul muretto.
«Uomini…»
«E cosa fate in portineria?»
«M’insegnano cose…»
«Che cose?»
«Cose» rispondeva e si accoccolava al mio fianco «Hai scritto niente per me, oggi?»
«Certo» rispondevo, anche se dentro rimanevo agitato. Forse intuivo qualcosa, forse non avevo il coraggio di guardare in faccia la realtà. O più semplicemente non volevo credere che qualcosa di orribile potesse capitare a Mary, alla mia Mary. E chiuso nella mia cecità continuavo a scriverle poesie d’amore.
Quel pomeriggio dell’estate del ’65 ero lì, nascosto nell’ombra delle scale a spiarla. Dalla radio sopra il bancone rotolavano le note di For your love e la signora Irving sculettava al ritmo della musica, sventolandosi con la sottana. Faceva caldo quel pomeriggio e appoggiai la testa al muro per godere della sua frescura. Finché nell’atrio non apparve mio padre. Si appoggiò al bancone scambiando qualche battuta con la portinaia, facendola ridere di gusto. Poi tese la mano a Mary. Lei allungò la sua senza alzare gli occhi dal pavimento e insieme sparirono nella stanza dietro la portineria.
Mi mancò l’aria, le gambe diventarono all’improvviso molli: qualcosa scivolava via da me, forse l’innocenza, forse l’anima stessa. All’improvviso ero vuoto, prosciugato e nello stesso tempo avevo l’esigenza di colmare in qualche modo la voragine che si era aperta dentro. Colmarla con la consapevolezza.
Aspettai che la signora Irving uscisse a fumare una sigaretta e mi avvicinai al bancone.
Sentivo il sudore colare lungo la fronte, e nello stesso tempo avevo freddo, tremavo.
Mi avvicinai alla stanza e senza pensare a quello che stavo per fare, aprì la porta.
Vidi mio padre, nudo, strizzato tra le gambe allargate di Mary, e vidi lei, con lo sguardo rivolto alle tende della finestra che si muovevano pigre: non sarebbe bastata quelle bava di vento a portarla via.
«Mary» dissi in un sussurro, incapace di trattenermi. Lei mi sentì e si voltò verso di me.
E poi urlò forte, fortissimo.
Rimasi impietrito sullo stipite della porta, mentre lei gridava qualcosa, un misto di scuse, di oddio, e di che cosa hai fatto Paul, ma io non sentivo. Non mi accorsi nemmeno quando con una spinta mi scostò di lato e corse fuori, nuda, pazza di dolore e vergogna.
Tornai in me solo quando mio padre si avvicinò abbottonandosi i pantaloni «Questa è la vita, ragazzo. Vado a farmi restituire i soldi dalla Irving» ma non fece in tempo a finire la frase che la mia rabbia si serrò in un pugno che saettò improvviso, spaccandogli il naso.
Mary!
Corsi fuori e la vidi laggiù, in fondo alla strada. Correva nuda e urlava incurante di tutto e di tutti e io la seguivo, sicuro che non sarei mai stato in grado di raggiungerla: Mary aveva trovato il vento e lui la stava portando via. Raggiunse il muretto dove c’incontravamo ogni giorno, forse l’unico posto felice che conosceva e ci montò sopra. La vidi voltarsi indietro a cercare i miei occhi, a farmi vedere quanto fosse grande il suo dolore, quanto fosse impossibile da sopportare.
«Addio, Paul!» sussurrò nel vento e si lasciò cadere giù, nel ventre nero del fiume.
«No, Mary!!!» urlai e corsi più forte, accecato dalle lacrime e da qualcosa che mi scoppiava nel petto, impedendomi di respirare. Nemmeno lo vidi quel muretto. Lo saltai con un balzo e andai con lei, laggiù, nel buio.
Primavera 2021
Mary è qui, accanto a me, seduta sul muretto.
Un filo di saliva le scende dalla bocca storta, ma sono sicuro che è felice: lo so da come muove gli occhi, da come mi cerca con lo sguardo. Le prendo la mano inerte e bacio la vera che brilla nel sole: ci siamo sposati nel ’74, appena ha potuto far cenno di sì col capo.
Non l’ho mai lasciata, nemmeno quando scappò dall’orco e dalla strega per tuffarsi in un fiume nero. Mai.
Nemmeno quando il fiume la portò lontano, lasciando sulla riva un corpo bianco e freddo con troppa acqua dentro e senza più anima.
Dopo quel tuffo disperato è rimasta a lungo in coma, troppo. Poco alla volta è tornata alla vita, anche se molto di lei si è perso nelle profondità del fiume. Per questo ogni tanto torno qui, a cercare brandelli di Mary.
Oggi è una buona giornata: siamo due vecchi sereni che si lasciano accarezzare da questo tiepido sole. A fatica lei si sposta e si accoccola al mio fianco come una gatta bianca e sospira. La bacio sulla fronte, su quelle rughe che ho visto nascere una a una.
«Ti amo, Mary» e non mi vergogno a dirlo alla mia età. Chiudo gli occhi e lascio che il sole mi accarezzi, mentre il vento fa le capriole tra i suoi capelli bianchi.
Sto bene, stiamo bene. La pace che ho dentro è il balsamo che unge la mia vita.
Lei riesce a muovere la mano e a farmi una carezza.
Oggi è un buon giorno, domani chissà.
Infondo dipende tutto dal…
«Ven… to…»